La parola libertà è resa in sanscrito con il pada (vocabolo) “svātantrya” che, come quasi tutte le parole sanscrite è frutto dell’assemblaggio di prefissi, radici e suffissi. Qui le varie parti sono: “sva” che significa “suo proprio” (il suus latino) + il preverbo “ā” che significa “venire incontro” + la radice verbale “√tan” che significa stendere penetrare ma con questa “ā” prefissata significa “illuminare” + il suffisso “tra” che significa “strumento per” + il suffisso “ya” tipico del causativo. Pertanto la parola “svātantrya”, liquidata in italiano con il vocabolo italiano “libertà” , è invece ricco di spunti polisemici, tra cui scegliamo: “ciò che deve essere strumento per illuminare se stessi”.
Invece la parola conoscenza è resa in sanscrito principalmente con due termini: “jñāna” e “vidyā”. Il primo ha come radice “√jñā” che significa “l’avanzare delle acque cosmiche portatrici della conoscenza” e quindi “conoscere” + il suffisso di derivazione primaria “ana” che implica l’azione del verbo (il nostro terminale “-one” in italiano), e quindi si potrebbe dire che “le acque, nel corso del loro inesauribile viaggio attraverso l’universo, erano state in grado di “conoscere” tutte le cose create in terra e in cielo” e vuol dire anche “essere comprensivi”.
L’altro termine “vidyā” è composto dalla radice “√vid” che significa “diffusione della luce” “distinguere alla luce” “vedere” “conoscere” “sapere” + il suffisso “ya”. Vidyā significa “conoscenza” (ma anche “conoscenza limitata”), e in generale “ciò che si conosce perché è ciò che deve essere visto (perché è ciò che è)”, da cui un derivato dal latino in uso ancora adesso è il “video” della televisione.
In conclusione, non c’è una grande distanza tra libertà e conoscenza; tolti i “mala” (le contaminazioni) la coscienza è trasparente e lascia passare la luce (il prakāśa di Śiva); lo strumento per pulire l’opacità realizzando l’illuminazione è la conoscenza che ci libera in quanto illumina la nostra coscienza recidendo i legami dell’ignoranza.
Purnananda Zanoni
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