giovedì 31 ottobre 2019

Geopolitica. Non tutti i "Trump" vengono per nuocere...


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Trump in Siria è riuscito a mettere a segno una strategia perfetta, coerente con i suoi progetti di disimpegno militare nel mondo, annunciati fin dalla campagna elettorale e pazientemente eseguiti. Ha aggirato abilmente due occasioni di escalation militare offertegli dal deep state con due falsi allarmi di guerra chimica fraudolentemente imputati ad Assad, in realtà estraneo ai fatti. Infine ha ritirato le truppe dal paese, senza lasciarlo nel caos.

Gran parte della lotta contro Isis è stata compiuta dai russi, i quali poi si sono posti come garanti anche contro le mire della Turchia, che Putin ha coinvolto nei nuovi accordi di Sochi.


Ora la Siria è in mano al proprio governo regolarmente eletto, con il sostegno operativo del proprio alleato russo, e senza che le potenze occidentali possano più sperare di metterci le mani sopra.


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Se consideriamo che Trump ha abilmente evitato anche i conflitti con Nord Corea, Venezuela e Iran, nonostante le forti pressioni del deep state, dobbiamo riconoscere di trovarci per la prima volta dopo tanto tempo di fronte ad un presidente americano favorevole alla distensione ed alla coesistenza piuttosto che alla politica militare.


Mr Trump è un affarista, le sue guerre sono solo economiche, campo nel quale dimostra una grande capacità di negoziazione.


Un conservatore alla Casa Bianca sta operando per la stabilizzazione del mondo, al contrario dei suoi predecessori che volevano metterlo violentemente a soqquadro. La ferocia dei suoi oppositori, dem e deep state, dimostrata anche nella lunga vicenda del russiagate, si sta rivelando completamente inefficace.


Vincenzo Zamboni

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mercoledì 30 ottobre 2019

USA. Decadenza imperiale e le mutande di al-Baghdadi


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Che l'Impero sia ormai suonato lo si vede anche dal fatto che hanno perso ogni capacità creativa. Usano sempre gli stessi schemi. Per gli attentati, come ben sapete, lo schema precede il ritrovamento di un documento dell'attentatore. Ne hanno trovato uno persino sotto le Torri Gemelle! Il primo di una lunga serie. Poi l'hanno "perso"!

Per quanto riguarda i capi terroristi, dopo aver buttato a mare ciò che rimaneva di "bin Laden" adesso hanno deciso di buttare a mare anche quelle di "al-Baghdadi". Non so se gli andrà beve a Trump. Perché il bin Laden fu "eliminato" da Obama, che aveva tutta la presstitute a suo favore, ma Trump non ce l'ha.
Infatti già sono piovute le critiche (prevedibili) dei Dem: "Brutto stronzo, così dell'azione avevi avvertito i Russi e non il Congresso?. Traditore!".
Poi The Donald è sufficientemente citrullo da dire scemenze del tipo "Al-Baghdadi è morto piangendo come un vigliacco". E che ne sa?

Come era chiaro fin dall'inizio, questa pantomima (ripetitiva) ha innanzitutto una valenza di politica interna: a) Guardate come sono figo! Rieleggetemi. 2) Ringrazio pubblicamente Russia e Siria alla faccia dei clintonoidi. 3) Vedete? L'ISIS è stato non solo sconfitto ma anche decapitato. Quindi è giusto andarsene via dalla Siria.
Dopo di che iniziano le contraddizioni. "Rimango a controllare che i pozzi di petrolio non cadano in mano all'ISIS". Qui però in realtà iniziano le ambiguità di un Paese ormai con diversi comandanti in lotta tra loro. Provate solo a immaginarvi il caos allo Studio Ovale ogni volta che Trump deve prendere una decisione. Uno che tira di qua, uno che tira di là...  E' più o meno sempre successo così. La differenza è che oggi le cose sono molto più complicate di quando c'era la Guerra Fredda e ormai da più di un lustro quando non si trova la quadra sembra che ognuno implementi la propria decisione sul campo.

Ultima notizia: a Beirut si è aperta la crisi di governo. Io penso che avrebbe dovuto aprirla Nasrallah, o quanto meno avrebbe dovuto chiedere una riforma istituzionale e della legge elettorale che favorisce tutte le mafiette micro-etniche. Invece l'ha aperta Saad al-Hariri, probabilmente su imbeccata dei Sauditi. Ha giocato d'anticipo contando sui giustificati timori di Hezbollah per un vuoto istituzionale.
Si apre una fase delicatissima.
I nostri giornalisti presstituiti però sono bravissimi a scovare "esperti", deputati e "analisti" libanesi e non che si dimenticano che alle porte di casa c'è una guerra che dura da otto anni. (P)

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martedì 29 ottobre 2019

L'altra morte di Abu Bakr al-Baghdadi


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Dalla lettura di numerosi articoli pubblicati su siti specialistici di argomenti militari e d’intelligence, emerge che il blitz delle forse speciali USA contro il leader dell’Isis, Abu Bakr al Baghdadi, sia veramente avvenuto (molto più dubbia invece l’operazione di otto anni fa contro Osama Bin Laden, che poteva essere stata una montatura). Questa volta a non fare una bella figura è stata la Russia, che si è contraddetta nelle dichiarazioni successive al raid tra il Ministero della Difesa, sempre molto critico verso le azioni USA, che ha messo in dubbio l’avvenuta operazione e sminuito la sua importanza, e un portavoce del governo russo che invece si è congratulato con gli USA per la riuscita dell’operazione, riconoscendo la sua attuazione e il suo successo esecutivo.

L’articolo da me selezionato che vi propongo e la miglior sintesi analitica dell’evento, da tutti i punti di vista, essendo accurato e obiettivo.

E’ indubbio che Trump, borioso megalomane opportunista si è appropriato di meriti non suoi, con lo scopo primario di farsi rieleggere per il secondo mandato presidenziale. Il leader dell’ISIS è stato molto probabilmente venduto o scambiato, sia per denaro che per concessioni strategiche e politiche, e i turchi non sono certamente esenti da responsabilità. Il resto che viene raccontato in questi casi, come per Bin Laden, sono mistificazioni, come la sepoltura in mare del cadavere, inventandosi rituali islamici inesistenti, per nascondere la più semplice volontà d’impedire che si possa pervenire in qualche modo a individuare il sito di seppellimento, impedendo il rischio di pellegrinaggi e di farne un martire da venerare. Anche il disprezzo cinico e feroce che Trump, nel suo stile colorito e volgare, ha manifestato verso la presunta codardia di al Baghdadi, fa parte della messinscena complessiva, provocatrice e di ostentazione di superiorità e invincibilità, che esiste solo nella mente dualistica e semplificata di Trump, abituato com’è a esprimere su Twitter pensieri non superiori a 140 caratteri.


Claudio Martinotti Doria
 



Il raid contro al Baghdadi visto dalla Russia
Giovanni Giacalone - https://it.insideover.com/
28 ottobre 2019

Il leader dell’Isis, Abu Bakr al Baghdadi, è morto, intrappolato in un tunnel senza uscita dove si è fatto esplodere assieme ai suoi tre figli per evitare di essere catturato dalla Delta Force. Questo è il sunto della versione ufficiale fornita in conferenza stampa dal presidente statunitense Donald Trump che ha tenuto a sottolineare come al Baghdadi sia morto come un codardo, scappando e frignando.

Sempre secondo la ricostruzione fornita da Washington, al Baghdadi sarebbe stato individuato nel villaggio di Barisha, nella zona di Idlib, a poca distanza dal confine turco. I russi avrebbero aperto lo spazio aereo sopra la Siria alle unità speciali statunitense nonostante Mosca non fosse al corrente dell’obiettivo, come dichiarato da Trump. Il corpo di al Baghdadi è risultato irriconoscibile a causa della detonazione, ma gli uomini della Delta Force hanno potuto confermarne l’identità tramite test del Dna.

Le reazioni di Mosca

La versione di Trump non è però stata inizialmente confermata da Mosca che ha fatto sapere di non aver registrato alcuna operazione militare nella zona di Idlib e di non aver mai aperto lo spazio aereo a truppe statunitensi, come riportato da Russia Today. Il ministero della Difesa russo ha riferito che “…ci sono domande e dubbi legittimi sull’operazione militare statunitense e sulla sua riuscita…Non siamo a conoscenza di alcuna presunta assistenza al passaggio dell’aeronautica americana nello spazio aereo della zona di de-escalation di Idlib durante questa operazione”. Il generale Konashenkov ha poi affermato che la morte del leader del gruppo terroristico dello Stato islamico non ha nessun valore operativo sul teatro di guerra in Siria.

A sorpresa poi è arrivata la dichiarazione del portavoce del Cremlino, Dimitri Peskov che ha parlato di “importante contributo da parte degli Usa nella lotta al terrorismo” aggiungendo che “i militari russi nell’area hanno visto personalmente aerei e droni statunitensi sorvolare la zona”.

Insomma, gli Usa dicono una cosa e la Russia smentisce e chiede le prove, poi però subentra il portavoce del Cremlino che si congratula con Washington e contraddice quanto precedentemente affermato dal ministero della Difesa russo, indicando che le attività statunitensi erano state viste da militari russi sul posto.

Al Cremlino sembra regnare un po’ di confusione. Forse i russi sono stati presi alla sprovvista? Forse il Gru non ha gradito il blitz statunitense segretamente autorizzato da Mosca? O forse è solo caos interno. Difficile dirlo.

La versione ruota comunque più che altro intorno al “non ne sappiamo nulla.. attendiamo prove, ma se fosse vero, meglio così” e il tutto accompagnato da un senso di irrilevanza del fatto, forse perchè effettivamente al Baghdadi non contava più nulla, o forse perché il leader dell’Isis era già stato dato per morto altre volte.

Ci sono poi alcuni punti messi in evidenza da siti e quotidiani russi sui quali riflettere, inclusi elementi che ricordano un caso già visto, quello dell’uccisione di Osama Bin Laden nel maggio del 2011; cos’ha in comune con la morte di al Baghdadi? In primis le tempistiche, visto che entrambi i fatti sono avvenuti a circa un anno dalle elezioni presidenziali. La morte di un leader terrorista è sempre utile al presidente uscente che intende ricandidarsi. C’è poi il ruolo del “messaggero“: in entrambi i casi infatti si è parlato di un messaggero, individuato, che ha portato al nascondiglio del leader terrorista di turno.

Alcuni analisti russi si chiedono poi cosa ci facesse Abu Bakr al Baghdadi in una zona come quella di Idlib, che risulta sotto il controllo del gruppo qaedista Hayyat Tahrir al-Sham, decisamente non un alleato dell’Isis. Una zona dove tra l’altro l’ex leader dell’Isis non aveva contatti o alleanze affidabili con le tribù della zona, fattore che lo avrebbe esposto a potenziali tradimenti e non si può escludere che sia andata proprio così. Magari al Baghdadi è stato venduto proprio da qualcuno del posto, sempre che sia realmente suo il cadavere e su questo si attendono le prove, ammesso e concesso che verranno fornite, a differenza di come andò con Bin Laden, il cui corpo venne gettato a mare secondo un presunto “rito islamico” mai comprovato in dottrina.

Alcune possibili dinamiche

Una cosa è certa, al Baghdadi sarebbe risultato maggiormente al sicuro nel suo nativo Iraq, dove aveva contatti e conosceva il territorio. Perché dunque recarsi nella zona di Idlib? Strozzata tra la morsa russa e la presenza militare della Coalizione? È possibile che il suo intento fosse quello di raggiungere la Turchia? E’ un’ipotesi e neanche troppo inverosimile; del resto molti jihadisti dell’Isis hanno trovato rifugio in territorio turco (con tanto di cure ricevute negli ospedali). A sostegno di tale ipotesi risulta interessante l’intervento su Facebook di Karim Franceschi, il volontario italiano che ha combattuto nelle file dei curdi: “Non è stata la Cia americana a trovarlo, ma i Mit turchi che dalla caduta di Mosul hanno sempre saputo dove si trovasse. Ciò ha permesso a Recep Tayyip Erdogan di utilizzarlo al momento più opportuno come moneta di scambio per il ritiro americano dal Nord della Siria. Dopo la caduta di Mosul, Baghdadi, con l’aiuto dei servizi segreti turchi, ha ottenuto un salvacondotto che lo ha visto attraversare il territorio turco per poi rientrare in Siria, messo al sicuro nel cuore dei territori occupati dai ribelli siriani pro Turchia. La regione di Idlib è sotto il controllo di Hayat Tahrir al Sham, ovvero una coalizione di gruppi jihadisti guidata da Al Nusra, originariamente una costola dell’Isis. Senza l’aiuto dell’Intelligence turca sarebbe stato impossibile per Al Baghdadi, uno dei volti più riconoscibili del Medio Oriente, se non del mondo, arrivare ad Idlib da Mosul”.

È possibile dunque che al Baghdadi si sia fidato di quei turchi che hanno poi deciso di venderlo? È un’ipotesi ed anche valida quella di Franceschi. Una cosa è certa, l’ex leader dell’Isis era diventato scomodo per tutti e la sua “scomparsa” utile per molti, in primis per Trump che ha così un elemento in più per sostenere il ritiro dei militari statunitensi dalla Siria, oltre che per passare alla storia come il presidente che ha eliminato al Baghdadi, elemento certamente utile per le prossime elezioni presidenziali. Ankara dal canto suo potrebbe aver venduto al Baghdadi in cambio della rimozione delle sanzioni e di una limitata campagna militare nelle zone curde a ridosso del confine.

Non si può poi escludere anche un possibile tradimento da parte della leadership di Hayyat Tahrir al-Sham che potrebbe aver inizialmente garantito protezione al leader dell’Isis, in cambio di denaro, per poi rivenderlo a prezzo maggiore al miglior offerente. Ovviamente sono tutte ipotesi e come già detto, la verità dei fatti difficilmente verrà resa nota.

C’è poi la Russia che in tutto ciò appare come la grande osservatrice; Mosca dice di non saperne nulla, ma in realtà nulla in Siria si muove senza che il Cremlino ne sia a conoscenza e dia autorizzazione a procedere, è dunque improbabile che il blitz sia avvenuto senza che i russi ne fossero al corrente. Del resto è impensabile che Mosca apra lo spazio aereo a unità speciali statunitensi “sulla fiducia”.

La fase post al Baghdadi

Adesso si apre la fase post al Baghdadi e le incognite sono molte, a partire da come reagirà l’Isis alla morte del suo leader. Il suo successore è già pronto, ex ufficiale dell’esercito iracheno nell’era di Saddam Hussein, tale Abdullah Qardash, alias “Hajji Abdullah al-Afari”.

Si prospetta una nuova spirale di violenza? L’Isis è ancora sufficientemente in forze da poter colpire? Se sì, quali saranno le zone maggiormente d’interesse? Il trionfalismo di Trump rischia di versare benzina sul fuoco?

Intanto bisogna tener presente che l’Isis non è e non è mai stata un’organizzazione terroristica con struttura tradizionale, ma piuttosto un entità ibrida che unisce una pseudo-struttura aperta a musulmani e a convertiti di qualsiasi etnia e provenienza con un’operatività in stile “franchising”. In poche parole, chiunque può alzarsi una mattina, mettere in atto una carneficina e poi rivendicarla in nome dell’Isis, senza bisogno di passare per arruolamenti e addestramenti in campi sperduti dell’Afghanistan.

Dunque potenzialmente sì, l’Isis ha ancora la capacità di colpire, certamente con mezzi e modalità che differiscono in base al contesto di riferimento. Nella black belt africana il gruppo jihadista troverà sicuramente condizioni più favorevoli per mettere in atto attacchi strutturati di un certo peso, ben diversi da aggressioni con coltelli o con autoveicolo in corsa, come già avvenuto in Europa, senza escludere nulla ovviamente. Nei territori siriani ed iracheni sono ancora possibili attentati più “tradizionali” con veicoli imbottiti di esplosivo e raid con armi da fuoco. Particolare attenzione va però data alla già citata Black Belt africana che va dalla Mauritania alla Somalia nonché alla Libia, tutte aree dove la presenza jihadista risulta intensificata.

La lotta all’Isis non si conclude certo con la morte di al Baghdadi e questo lo ha detto anche Trump. La “decapitazione” di un’organizzazione terroristica è fondamentale ma va implementata nei confronti di tutta la leadership mentre nel contempo si attuano ulteriori misure, a partire dagli interventi mirati nei confronti dei canali di finanziamento, vero punto debole di un’organizzazione terroristica, nonchè alle sue infrastrutture. Se poi si riesce a sfruttare ed esasperare eventuali frizioni interne onde generare una frammentazione che ne disgreghi la struttura da dentro, ancor meglio. Insomma, ci sarà ancora parecchio da fare per sconfiggere l’Isis, sia strutturalmente che ideologicamente.

lunedì 28 ottobre 2019

28 ottobre 2019. Il giorno dopo le elezioni in Umbria - Analisi del voto di Lorenzo Merlo


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28 ottobre 2019 - Il giorno dopo le lezioni in Umbria abbondantemente vinte dal Centrodestra salviniano, il direttore di Radio Capital, in un video di Repubblica (https://video.repubblica.it/politica/regionali-umbria-giannini-sfonda-l-ultradestra-la-sinistra-deve-imparare/346812/347397?ref=vd-auto&cnt=1), Giannini non dice, non capisce o non ammette che Salvini è solo uno che raccoglie gli umori e li fa materia o voti. Umori che come i licheni chiedono tempo e condizioni idonee per affrancarsi entro le persone.

L’incapacità di dialogare con gli elettori da parte dei giallorossi – basta prego, di chiamarli centrosinistra o sinistra – è palese. Se il M5S si salvava fino a poco fa, soprattutto grazie alla voce di Di Battista (del quale mi piacerebbe conoscere la posizione nei confronti del suo stesso partito), l’apporto del Pd su questo tema ha del tragicomico. Ancora oggi, nel video citato, il giornalista ex-Repubblica cita tra i fattori che hanno generato la vittoria salviniana, la distanza del suo partito dagli elettori.

Giannini e con lui tutto il popolo impaurito che rappresenta, non comprende che la “terribile propaganda di Salvini fondata sulla paura” non è per nulla il primo richiamo al quale molti italiani rispondono con piacere. 


Come l’automobilista stressato e frustrato in coda non potrebbe che vedere bene una promessa di una vita più scorrevole, così certi italiani – e per nulla fascisti, razzisti, fondamentalisti cattolici – percepiscono l’eventualità di vedersi liberati dai labirinti della burocrazia, dalla sottomissione ultranazionale, da una situazione sociale che come Salvini considerano priva di uno standard di ordine accettabile. L’elenco è lungo e praticamente tocca tutti i reparti istituzionali, in quanto tutti sono alla decadenza. Quegli italiani vedono, con Salvini, la dimensione invasiva della migrazione e ritengono, come il leader leghista, che è la quantità a creare il problema ed insieme il disinteresse fraudolento della cosiddetta Unione europea.

Considerazioni elementari. Tutti sottoscriverebbero per gli stessi miglioramenti se a sventolarli fossero leader di altre posizioni parlamentari. Significa che si sta dando la caccia al demonio, che non si sta perseguendo alcuna linea politica idonea ai tempi. Che gli accoliti giallorossi non sono che combattenti contro il nemico demoniaco, fascista e nazista che loro stessi hanno sì dipinto facendo leva sul richiamo di ideologie fuori tempo, sulla paura che queste provocano in tutti, leghisti inclusi. Forse, solo gli estremisti ideologici, che pure ci sono, sarebbero disponibili ad optare per nuove leggi razziali e repressive.

Come per gli afghani abbracciarono l’avvento dell’Isaf, la forza multinazionale a causa dell’ordine che portavano dopo anni di sharia talebana, gli elementi di disponibilità generalizzata alla riduzione della democrazia che osserviamo in casa nostra, italiana o europea, corrisponde ad un’esigenza similare, spesso chiamata esasperazione. Per comprenderla, meglio vederla come il frutto di un seme che non è stato piantato da poco. Ma se si osserva questo potenzialmente preoccupante dato, a maggior ragione è da riconoscere che la vera riduzione democratica è in atto da anni a firma proprio di quei colori che Giannini certo può difendere ma soltanto nei confronti dei più imbevuti di una ideologia ormai evaporata. Il torchio antidemocratico, che avrebbe diverse voci da portare in elenco a se stesso, uno per tutti, l’articolo 18, si chiama liberismo. È questa la voce a cui riferirsi per comprendere su quale perno girano le faccende domestiche e non.

Dunque Giannini, esemplare esponente di un potere che teme di perdere il dominio politico-sociale-finanziario, non è che il portavoce di quel potere stesso, del suo status quo. La cui vera dimensione non è la disgregazione sociale che possiamo osservare da anni, bensì la sua deriva verso il gorgo esiziale di un mondo oltre che globalizzato economicamente, uniformato culturalmente. Un’industria che produce uomini programmati e programmabili a tavolino. A me è questo che fa terrore.


Lorenzo Merlo - Victory Project Ascent

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ascent@victoryproject.net

sabato 26 ottobre 2019

Facebook e la polizia del pensiero


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Viviamo tempi pericolosi, specialmente perché molti non se ne accorgono nemmeno.

Ho scritto su Facebook per dieci anni. Nessuno mi obbligava, nessuno mi ha mai pagato per farlo. Lo trovavo piacevole e divertente. Poi anche utile, talvolta persino importante. Ci sono sempre state delle regole, dei limiti, talvolta piuttosto ipocriti, fastidiosi o stupidi, ma il loro scopo era mantenere civile il dialogo. Ora si tenta di imporre una linea editoriale, si silenziano i contenuti scomodi, si pretende di valutare i pensieri di chi scrive e decidere quali siano “giusti” e quali “sbagliati”, quali pensieri lasciare esprimere e quali sanzionare. 


Si impone l’adesione al pensiero unico. Facebook è stato un luogo in cui esprimere e discutere pensiero alternativo, ora sta diventando rapidamente un luogo in cui viene stabilito cosa pensare, non diversamente dalle tv o dai quotidiani. Non serve più ad esprimervi, serve a programmarvi.

Eppure, questo imbastardimento di Facebook non vi condiziona come la TV: fa molto peggio. La TV impone contenuti, interpretazioni della realtà dall’esterno. Tu li ricevi, e la sua capillarità li rende potentissimi nel condizionarti, ma puoi comunque rifiutarli come esterni a te. Facebook è fatto dei *tuoi* pensieri, dei pensieri dei tuoi “amici”. Condizionare queste espressioni non è solo importi un punto di vista: è importi quale debba essere il TUO punto di vista. La censura su Facebook non riguarda i pensieri altrui, riguarda i TUOI pensieri. 


Il motivo per cui i social network erano una occasione di libertà è precisamente il motivo per cui oggi diventano la più sottile e perfida delle prigioni: li stanno usando per riprogrammare direttamente *quello che esprimete*.

Se con la teoria molti si perdono, eccovi un esempio semplice: su Facebook è ora vietato usare alcune parole specifiche. Alcune di esse sono parole “brutte e cattive”, usate spregiativamente per indicare persone omosessuali, oppure persone di colore. Voi direte: cosa c’è di sbagliato nel fatto che queste parole vengano bandite da un social network? Così smettiamo di diffonderle e di usarle! Verissimo, ma chi lo ha deciso? La differenza tra smettere di usare alcune parole ed essere costretti a non usarle è ENORME. 


Nel primo caso si CAPISCE quel che si sta facendo e si DECIDE cosa fare e cosa non fare. C’è responsabilità. Nel secondo si viene ADDESTRATI a non usare certe parole. E ad usarne altre. È quello che si fa con gli animali: li si addestra.

Ma oltre alle parole "razziste", adesso è vietato anche esprimere concetti “antiscientifici” – fermo restando che chi decida *cosa* sia scientifico o invece antiscientifico lo decide… qualcun altro. 


Ancora non vi è chiaro? Si è aperta la caccia al pensiero “socialmente pericoloso” direttamente nella vostra stessa mente. Roba da fare venire un orgasmo a Goebbels anche da morto. Roba che Orwell machetelodicoafare.

Per chi ancora faticasse ad arrivarci: le parole che usiamo decidono la percezione del mondo e di noi stessi che formiamo, dentro cui poi abitiamo. Decidono in che mondo viviamo e decidono chi siamo. Poter imporre quali parole usare e quali no, significa imporvi direttamente *chi siete*. Ed è esattamente quello che stanno facendo, qui ed ora.

Viviamo tempi pericolosi, specialmente perché molti non se ne accorgono nemmeno.

Sara Realini  


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venerdì 25 ottobre 2019

Il destino d'Italia si decide in Umbria, il 27 ottobre 2019... PD, M5S, LEU, Lega, FDI, Forza Italia o Italia Viva?


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É inutile nasconderselo: fino al 27 ottobre 2019 – data delle elezioni regionali in Umbria – la politica italiana vivrá in una specie di limbo. E non perché la Sinistra potrebbe perdere il controllo di una regione da sempre “rossa”, ma perché il voto umbro sará una specie di cartina di tornasole per l’alleanza PD-M5S e, quindi, per la tenuta del governo Giuseppi 2.

In altri termini, ad avere un peso non sará tanto la vittoria del candidato di destra o di quello di sinistra, quanto piuttosto la conta di quanti elettori del PD non voteranno il cartello della Sinistra (in odio ai grillini) e di quanti elettori grillini faranno altrettanto (in odio al PD).

Se le perdite saranno considerate accettabili, allora i due principali partiti della coalizione di governo punteranno ad istituzionalizzare una alleanza fra loro e, comunque, tenteranno di far sopravvivere Giuseppi. Viceversa, se la legnata sará troppo forte, i due perdenti saranno tentati dal tornare a litigare (o dal fingere di litigare), nella speranza di essere “perdonati” da quegli elettori che li hanno abbandonati.

Ovviamente, i litigi (veri o falsi) potranno far saltare la maggioranza “giuseppina”; ammesso che questa non abbia frattanto fatto naufragio sugli scogli della manovra finanziaria, insidiata sia da Renzi che da Di Maio. I due sono alla disperata ricerca di qualche cosa che possa alleggerire la loro posizione rispetto all’orgia di tasse e balzelli che caratterizza questa manovra che – ufficialmente – dovrebbe “ridurre le tasse”. Mi permetto di sintetizzare: premio Faccina di Bronzo 2019.

L’altra coalizione viaggia certamente in acque piú tranquille. Tutti i sondaggi la danno in testa nell’Umbria ex-rossa, con vantaggi che – a seconda dei diversi istituti – vanno da un minimo di 2 punti ad un massimo di 10. Anche se – mi permetto di aggiungere – con un 20% di elettori indecisi, ogni risultato é possibile.

Certo, a fronte di un’alleanza governativa sempre piú divisa e rissosa, il centro-destra dispone del valore aggiunto di una ritrovata unitá e di una riconfermata vitalitá, come testimoniato pure dalla grande manifestazione di Roma.

Ma anche lí c’é qualche piccola discrasia. Berlusconi ha capito che gli conveniva allinearsi ed ha smesso di raccontare la barzelletta di un centro-destra moderato e anti-sovranista, che non puó esserci. Ma, in compenso, il Salvini in versione filo-europeista e ultra-atlantista non piace a molti. A convincere di piú, in questo momento, é una Giorgia Meloni in grande spolvero. A piazza San Giovanni é stata lei la mattatrice della serata. Si é presa la scena per ben piú dei 10 minuti in scaletta ed ha conquistato la piazza, mietendo ovazioni e cori da stadio. Dopo di lei, Salvini é apparso un po’ impacciato, legnoso, certamente meno coinvolgente della leader di Fratelli d’Italia.

Ma l’attenzione generale, in questo momento, é concentrata su quanto avviene nell’altro campo, quello del centro-sinistra. Giuseppi gira in lungo e in largo l’Italia, nel tentativo di accreditarsi come un premier tranquillo, di cui gli italiani possano fidarsi. Dá quasi l’impressione di volersi preparare a presiedere un terzo governo, nel caso questo dovesse cadere. Con chi? Non si sa, ma non credo che per lui abbia molta importanza.

Al momento, il suo incubo peggiore non é Matteo Salvini, ma un altro Matteo, quel Mattacchione toscano che in queste ore imperversa alla Leopolda. Ufficialmente il Bomba ha invitato il premier ex giallo-verde a “stare sereno”, perché questo governo dovrá durare fino al compimento della legislatura. In reltá, sembra che il Pifferaio dell’Arno voglia tirare si per l’intera legislatura, ma con un nuovo governo e con lui stesso al posto di Giuseppi.

Zingaretti, poverino, assiste impotente. Si é fatto smontare il PD da un discolaccio che era ormai politicamente defunto, e che invece lo ha messo nel sacco in quattro e quattr’otto. Lui – il fratello di Montalbano – appare inadeguato, prigioniero di quelle forze che hanno imposto un governo di qualunque tipo purché si evitassero le elezioni anticipate.

Eppure, sarebbe bastato che il segretario del PD tenesse fede ai mille giuramenti di “mai con i grillini”, per andare a elezioni anticipate e stroncare cosí sul nascere la congiura renziana. Vero é che le elezioni le avrebbe vinto il fronte sovranista, ma il PD – secondo tutti i sondaggi – ne sarebbe uscito con un risultato dignitoso e, per di piú, sarebbe venuto fuori come la forza centrale dello schieramento di sinistra. Inoltre, dal momento che sarebbe stato lui – Zingaretti – a fare le liste, le avrebbe depurate da una sovrabbondanza di candidati renziani, risolvendo alla radice la concorrenza  del Bomba.

E, invece, eccolo qua a mangiare porchetta alle feste dell’Unitá e a rilasciare dichiarazioni prive di sale e di pepe; mentre il suo avversario – letteralmente resuscitato – vive una seconda giovinezza politica, pontifica come un vate alla Leopolda e maramaldeggia sulla finanziaria del povero Giuseppi.

Intanto, la campagna elettorale in Umbria vive i suoi ultimi scampoli. Domenica 27 ottobre 2019 si vota, e da lunedì potrebbe cambiare tutto. In Umbria, e non solo in Umbria.

Michele Rallo - ralmiche@gmail.com

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mercoledì 23 ottobre 2019

La NATO simula le conseguenze di una prossima guerra nucleare in Europa

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Con manovre segrete, la NATO sta conducendo una simulazione su come potrebbe essere una guerra nucleare in Europa. Lo stesso avviene in Germania e in Olanda, d’accordo a quanto rivelato da media tedeschi e austriaci che sono stati ripresi da media spagnoli. Ciò avviene in concomitanza con altre manovre dell’Alleanza Atlantica nel sud della Spagna (Stretto di Gibilterra) in cui è stato confermato che lo stato spagnolo ha la capacità e diventerà nel 2020 la forza di reazione rapida dell’Alleanza che darà risposte a possibili situazioni di crisi marittime che potrebbero colpire la NATO, e con i test che hanno avuto luogo all’inizio del mese sull’isola spagnola di Minorca.
Di tutto ciò, né il governo spagnolo né l’Unione Europea stanno informando i cittadini. Né è stato detto loro che nessun paese della NATO – inclusa la Spagna – ha firmato il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari, senza che essere membro dell’Alleanza implichi una tale posizione.
Nel frattempo, la Russia ha effettuato le proprie manovre nell’operazione ‘Thunder 2019’, includendo armi nucleari anche come difesa e risposta alla NATO, secondo Putin.
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Il pericolo nucleare incombe su tutta l’umanità (un incidente potrebbe accadere in qualsiasi momento), ma oggi l’Europa è la tavola su cui si gioca una partita tra forze i cui leader non mostrano segnali di sanità mentale, al contrario, e davanti ai quali piegano la testa governanti come Angela Merkel, Emmanuel Macron, Pedro Sanchez, e tutti i leader degli Stati membri della NATO, senza che gli accordi dell’Alleanza li obblighino a farlo, come abbiamo sottolineato sopra.
Mentre i governi fanno la guerra, le popolazioni non informate non sono consapevoli del pericolo a cui sono esposte. Secondo l’ICAN, una sola bomba nucleare sull’Europa potrebbe uccidere quasi 100 milioni di persone nelle prime ore e oggi siamo “a due minuti da mezzanotte”, secondo l’analisi dell’ ‘Orologio dell’Apocalisse’. I test militari che si stanno svolgendo questo mese sulla mappa europea sono un chiaro indicatore della minaccia che incombe sulle nostre teste.
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Traduzione dallo spagnolo di Matilde Mirabella


"Guerra nucleare in Italia. Possibili sviluppi, effetti, difesa e sopravvivenza" di Alex Lombardi   https://ita.calameo.com/books/0001637527cb0e076b0da

Guerra Nucleare In Italia

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L'Inverno nucleare dopo una guerra atomica:   https://www.nogeoingegneria.com/tecnologie/nucleare/freddo-carestie-e-radiazioni-linverno-nucleare-dopo-una-guerra-atomica/

martedì 22 ottobre 2019

"Taci il nemico ascolta!" - Squilli di tromba (per la ritirata)



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Sì, si è appena spenta l'eco della manifestazione di "massa" di piazza San Giovanni a Roma ed è subito ripreso il tran tran della politica e della comunicazione dei media nostrani. 

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Spazio alla Leopoda di Renzi, tam tam alle fibrillazioni di Di Maio e Zingaretti, rimbombo agli ultimatum di Conte. S'ode a destra uno squillo di tromba a sinistra risponde uno squillo. Cosa succede, nei fatti? Niente, niente di niente! 

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Al governo litigano ma non credo proprio sul serio, perlomeno non tanto da farlo cadere. Punto d'arrivo, concordato con Mattarella e dichiarato alla Leopolda  da Renzi, è quello della elezione di un presidente della Repubblica di sicura e comprovata fede ueista: tutti dicono Prodi, io credo Draghi. Salvini punta sull'Umbria per sfrattare Conte, sapendo di dire una balla. Pure se, come sembra, vincesse il centro destra (Lega e Meloni con quel che resta di Forza Italia) non cambierebbe nulla. 

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Ognuno per sé e Dio per tutti  ed avanti tutta! Fino alle prossime elezioni regionali e, via di seguito, fino al 2023! Eh si, si potrebbe davvero arrivare alla scadenza della legislatura senza eccessivi problemi, a meno che (dopo la elezione quirinalesca) sia Renzi a staccare la spina. Opposizione a questa prospettiva? 

Se è questa la piazza che dovrebbe far cadere un governo, stiamo freschi! 

Vincenzo Mannello

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lunedì 21 ottobre 2019

Roma. Ritorno all'autarchia agricola - Previsti 100 orti urbani, uno per quartiere!

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I ROMANI RECUPERANO IL VERDE E COLTIVANO LA CITTA’
 

100 nuovi orti, uno per quartiere. Questo il risultato del Bilancio
Partecipativo di Roma Capitale 2019
Roma come Parigi, Londra, Berlino e altre capitali europee. Aree verdi abbandonate o parchi in cattivo stato di manutenzione, in centro e in periferia, saranno recuperate grazie al voto e all’impegno dei romani.

Al termine delle votazioni per il Bilancio Partecipativo di Roma Capitale 2019, oggi, il progetto “Un orto urbano per quartiere: coltiviamo la città” è risultato il secondo più votato su 111 progetti che avevano superato il vaglio tecnico e una prima tornata di votazioni questa estate.

Finalmente gli orti urbani e i giardini condivisi di Roma, che già contano oltre 200 realtà, avranno una accelerazione. “Si può fare”, il messaggio alla base del lavoro di Zappata Romana, associazione proponente il progetto secondo classificato, sembra essere stato accolto dai romani che hanno deciso di “fare” qualcosa per se stessi e per il resto della comunità recuperando, facendo manutenzione del verde e riqualificazione urbana.

Gli orti e giardini condivisi sono palestre di cittadinanza attiva, non sono solo luoghi per coltivare. In questi spazi coltivare è la scusa per fare altro: si promuove l’educazione ambientale con le scuole; si custodisce e diffonde la biodiversità; si integrano diversamente abili e migranti; si rafforza l’appartenenza al territorio e alla comunità; si trasformano le aree verdi abbandonate in luoghi di incontro; si rafforza la sicurezza e il presidio del territorio; si crea coesione sociale; si sperimenta modelli di coprogettazione; si costruiscono oasi di creatività, di recupero di antichi saperi e di produzione culturale; si consolidano reti alternative di produzione e commercio alimentare; si scoprono e recuperano beni comuni; si offrono occasioni di partecipazione e democrazia.

 “Auspichiamo che la realizzazione di 100 nuovi orti, uno per ogni quartiere della città, spinga Roma Capitale a ripensare la sua politica sugli orti urbani e i giardini condivisi assumendo un ruolo attivo” spiegano i proponenti della proposta votata dai romani. “Speriamo che avvenga a Roma quello che è avvenuto in tante altre città: l’amministrazione utilizzi gli orti e i giardini condivisi quale strumento di politiche pubbliche di contrasto al cambiamento climatico, di integrazione delle politiche sociali, ambientali e culturali, per costruire una Food Policy per la città di Roma”.

Il giardinaggio urbano, organizzato in maniera collettiva, presenta una elevata capacità innovativa dell’attivismo civico e della pianificazione urbana perché restituisce spazi di giustizia. Gli orti e giardini condivisi sono uno spazio politico. Si pianta una zucchina, si coltiva con mani comuni, si raccolgono relazioni e democrazia.

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venerdì 18 ottobre 2019

Modifiche costituzionali. Dopo il taglio dei parlamentari arrivano i parlamentari a nolo o estratti a sorte


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Tutto cominciò nel 2007, quando due giornalisti del “Corriere della Sera” – Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo – diedero alle stampe il libro «La casta»: un clamoroso successo editoriale, agevolato da una mastodontica campagna di amplificazione mediatica.

Attenzione a due particolari. Primo: Stella e Rizzo non scrivevano sul “Manifesto” o su una qualche testata antagonista, ma sul Corrierone nazionale, come a dire sull’organo ufficioso del potere politico ed economico del nostro paese. Secondo: il libro parlava di una casta soltanto, quella dei parlamentari, tralasciando accuratamente le decine o, forse, le centinaia di altre “caste” che in Italia hanno vantaggi economici (e non solo economici) pari o superiori a quella dei parlamentari; penso, per fare un solo esempio, agli alti gradi dei quotidiani nazionali.

Bene. Dalla pubblicazione di quel libro derivó il lancio in grande stile del fenomeno dell’anti-politica; e da questo, due anni piú tardi, la nascita di un similpartito – il Movimento Cinque Stelle – privo di una qualsiasi identitá politico-ideologica e dedito esclusivamente ad acquisire simpatie a buon mercato tuonando contro la classe politica. Una classe politica che l’opinione pubblica piú sprovveduta identificava come l’unica responsabile di una crisi economica che aveva abbassato drasticamente i nostri standard di vita.

Cosa – questa – che era vera solamente in parte, perché la crisi (massacro sociale, licenziamenti, riforma delle pensioni, privatizzazioni, immigrazionismo programmato, eccetera) era stata voluta e imposta da poteri extrapolitici, dai cosiddetti “mercati”, cioé dalla finanza internazionale che voleva (e vuole) strangolare i popoli attraverso la globalizzazione economica. La colpa della classe politica era stata quella di obbedire, di non opporsi, di non resistere. Ragion per cui, era evidente – almeno a mio modesto parere – che per combattere la crisi non occorresse certo l’anti-politica ma, al contrario, piú politica. Piú politica capace di opporsi ai poteri forti, naturalmente, piú politica all’altezza della situazione, brava, energica, sana, preparata. Piú politica che, peró, poteva nascere solo dal seno dei partiti, non certamente dalla mancanza assoluta di preparazione politica e di capacitá operativa, dagli improvvisatori, dai dilettanti allo sbaraglio, dai teorici del vaffa e del “sono tutti ladri”, dal nichilismo eretto a sistema. Ma “piú politica” – é la mia personalissima opinione eretica – era esattamente il pericolo che i poteri forti volevano scongiurare.

Comunque, sulle parole d’ordine dell’anti-politica sono state costruite le fortune elettorali di un similpartito che si é gonfiato fino a diventare la prima forza politica nazionale (salvo poi a sgonfiarsi repentinamente). Ma ció é avvenuto soltanto perché le grandi catene televisive hanno fatto a gara nel rilanciare i postulati grillini sulla “casta” e, soprattutto, perché quasi tutte le forze politiche “normali” hanno accettato di fiancheggiare le esternazioni demagogiche dei pentastellati, rinunciando a spiegare al popolo italiano che la maggior parte delle cose dette da costoro era poco piú che aria fritta.

Esempio tipico, quello del taglio dei vitalizi. Uno specchietto-per-le-allodole di poca o nessuna utilitá. Il problema reale non era (e non é) quello di tagliare i trattamenti previdenziali di un migliaio di ex parlamentari; ma quello di tagliare centinaia di migliaia di “pensioni d’oro” pari o superiori a quelle dei parlamentari. Nessuno ha avuto il coraggio di dirlo. Con il risultato che i grillini coi vitalizi ci hanno vinto una campagna elettorale; e dopo, quando hanno dovuto “mantenere gli impegni”, hanno partorito un provvedimento a tal punto allucinante da costringerli a varare una delibera aggiuntiva, per evitare che alcuni titolari di “vitalizi d’oro” vedessero addirittura aumentare le proprie spettanze.

Ma, passi per la questione dei vitalizi, che era oggettivamente un argomento troppo spinoso e troppo complesso per essere spiegato ai semplici. É comprensibile che i partiti “normali” abbiano preferito fingere di non aver capito che si trattava soltanto di un marchingegno per raccogliere voti. Ma quello che lascia sgomenti, adesso, é l’avallo – colpevole e consapevole – della riforma costituzionale che riduce di un terzo il numero dei parlamentari.

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Il numero ideale di parlamentari secondo la grande finanza

Si tratta – in questo caso – solo e soltanto di una manovra a fini elettorali, e senza neanche la giustificazione del rancore sociale che aveva alimentato altre cosiddette “battaglie” grilline. Servirá ai Cinque Stelle per salvare la faccia, nel momento in cui hanno fatto un governo con chi sino ad ieri additavano come il peggio del peggio del peggio. Il tutto, gabellato per un “taglio delle poltrone” che avrebbe fatto registrare enormi risparmi per le finanze dello Stato.

Niente vero. Il taglio dei parlamentari produrrà un risparmio “ufficiale” di 82 milioni l’anno (in realtà di circa 50 milioni, considerato che quasi un terzo della cifra tornerà allo Stato attraverso tasse e trattenute). Gli strateghi della comunicazione grillina si sono presi la libertà di “arrotondare” a 100 quei 50 o 82 milioni. Successivamente hanno moltiplicato gli ipotetici 100 milioni per 5, quanti sono gli anni di una teorica legislatura, ed hanno tirato fuori il risparmio – assolutamente fantasioso – di 500 milioni. Ovvio che, se avessero moltiplicato la stessa cifra per 50 o per 100 anni, avrebbero ottenuto un risparmio piú importante da agitare davanti al naso dei gonzi. Tutto questo, perché una economia di 50 milioni annui nel bilancio di uno Stato é una cifra ridicola, come avrebbero rilevato anche i piú ingenui degli elettori del vaffa.

Queste cose – è ovvio – erano perfettamente note ai vertici dei partiti “normali”, che peró hanno scelto di ignorarle e di far “passare” la vulgata grillina dei 500 milioni da risparmiare.

Comportamento inspiegabile, quello dei partiti, perché il provvedimento che ne é seguíto non gioverá certo alla loro causa. Andrá contro i loro interessi elettorali, specialmente contro quelli dei partiti minori, che rischieranno di essere cancellati da un parlamento che fosse ridotto ai minimi termini.

Né ad essere penalizzati saranno solamente i partiti, ma anche le realtà territoriali. Soprattutto – anche in questo caso – le minori. Non occorre essere dei docenti di statistica applicata per immaginare che i parlamentari “ridotti” dalla riforma saranno soprattutto quelli dei territori periferici. In Sicilia, per esempio, le prossime elezioni politiche saranno probabilmente un affare privato fra Palermo e Catania, con esclusione praticamente delle altre 7 province.

Sarà un altro passo – gigantesco – in direzione del progressivo allontanamento dei cittadini dalla partecipazione politica e dalla vita democratica. Una direzione cara ai poteri finanziari (i quali sostengono che in Italia e in Europa ci sia “troppa democrazia”), e cara anche a certa anti-politica che guarda ai meccanismi elettorali come a fastidiose sovrastrutture, magari sostituibili con pochi clic su una piattaforma privata o, meglio ancora, con l’estrazione a sorte dei parlamentari,  come vorrebbe Grillo per il Senato (o magari presi a nolo... ndr).


Michele Rallo - ralmiche@gmail.com

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giovedì 17 ottobre 2019

Cardinale Gerhard Muller... parole d'ordine: "Ortodossia e dottrina"

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Ho letto l’intervista di Paolo Rodari al cardinale Gerhard Muller su “la Repubblica” del 10 ottobre 2019.
E’ difficile trattenere i sentimenti e i pensieri che ha suscitato in me, ma vorrei provare a controllare e ponderare bene gli uni e gli altri, senza farmi trascinare dall’impulsività, cercando di esercitare, invece, per quanto ne sono capace, le virtù della prudenza, del discernimento e della pacatezza.
Forse per questo solo oggi sono riuscito a completare questa mia riflessione, iniziata già una settimana fa, e a pubblicarla.
Premetto che non sono cattolico, anzi nemmeno uomo di religione. Che cosa mi spinge allora a provare interesse per le parole del cardinale, prefetto emerito dell’ex Sant’Uffizio?
La risposta è: l’interesse per tutto ciò che ha a che fare con la vita spirituale (che non necessariamente è una vita religiosa) e, di conseguenza, anche per tutto ciò che contrasta con essa, che si oppone alla vita spirituale.
Ecco, allora, il primo commento che mi viene da fare, dopo aver letto l’intervista a Muller: quest’uomo ha ben poco di spirituale; è senz’altro un uomo di religione, ma non è (almeno a mio avviso) un uomo di spirito.
E’ un sacerdote, come lo erano, del resto, i sacerdoti del tempio, rigidi difensori della dottrina e dell’ortodossia, ai tempi di Gesù. Ma non è un uomo in grado di cogliere il messaggio di Gesù e di innamorarsene.
E’ un tutore della Legge, non un seguace dello Spirito.
Proverò ad esplicitare questa mia impressione (che però è qualcosa di più di un’impressione) riportando alcuni degli argomenti sostenuti dal cardinale e cercando di smontarli per dimostrarne l’inconsistenza (ritengo anche teologica, oltre che pastorale).
1.Il cardinale “s’interroga sulla possibilità di aprire il sacerdozio ai “viri probati”, uomini anziani di provata fede” ed afferma: “Penso sia sbagliato… Ci sono già dei diaconi sposati. Se li introduciamo, devono rispettare la consuetudine della Chiesa antica: devono vivere in castità.”
In pratica il cardinale vincola la possibilità di nominare sacerdoti alcuni uomini sposati alla loro dichiarata disponibilità a vivere il voto di castità.
Al che l’intervistatore (giustamente) chiede: “Ma se sono sposati, come fanno?”.
E il cardinale così risponde: “Anche nella Chiesa ortodossa, che pure ha aperto in questo senso, i sacerdoti sposati devono vivere in castità nei giorni che precedono la celebrazione della messa. Non conosce il Sinodo Trullano del 692? Lì, sotto la pressione dell’imperatore, venne sciolta la legge del celibato, ma solo la Chiesa ortodossa vi aderì. Non quella latina. Per questo chi vuole inserire la pratica dei preti sposati nella Chiesa latina non conosce la sua storia.”.
L’intervistatore allora incalza: “Eppure il celibato è soltanto una legge ecclesiastica”.
E il cardinale: “ Non è una qualsiasi legge che può essere cambiata a piacimento. Ma ha profonde radici nel sacramento dell’ordine. Il prete è rappresentante di Cristo sposo e ha una spiritualità vissuta che non può essere cambiata.”
Qui le osservazioni da fare sono almeno tre:
- Il cardinale vincola il sacerdozio alla pratica della castità. Come a dire: la pratica della sessualità costituisce uno stato di imperfezione, che non può dare accesso allo stato sacerdotale, che è lo stato di Cristo stesso, simbolo dell’uomo perfetto. Si afferma qui la solita e storica sessuofobia strisciante, latente, più o meno esplicita, della dottrina cattolica. Che andrebbe francamente aggiornata alla luce non solo della evoluzione dei costumi, ma anche di una considerazione più corretta (sul piano scientifico e su quello stesso teologico) della sessualità.
- Il cardinale riconosce (anche se deve essere incalzato per farlo) che il celibato dei preti non è materia dogmatica, ma questione di diritto ecclesiastico. E però afferma che trattasi di una legge eterna, immodificabile. Quando il diritto (come la storia stessa della Chiesa in fondo conferma) è per sua natura soggetto alle evoluzioni e ai cambiamenti della storia, quindi materia plasmabile e niente affatto immodificabile. Con queste sue affermazioni il cardinale si iscrive quindi chiaramente al partito dei conservatori nella Chiesa, a fronte degli innovatori, che pure tenendo conto della tradizione, non ne vogliono fare un feticcio (come non lo è mai stata in fondo nella storia della Chiesa) e sono disposti a prendere in considerazione dei cambiamenti rispetto al passato.
- Infine, il cardinale ammette per un sacramento ciò che non riconosce ad un altro sacramento. Non si capisce bene in base a quale logica. Infatti, afferma che gli uomini sposati, se vogliono accedere al sacerdozio, devono rinunciare all’esercizio della sessualità, che pure è uno dei cardini dello stato matrimoniale (e dunque anche degli impegni che si assumono col sacramento del matrimonio). In questo caso dunque ammette il cambiamento. Mentre per lui il sacramento del sacerdozio non ammette eccezioni: o vi si pratica la castità o non è sacramento.
2. Un’altra posizione singolare il cardinale Muller la assume quando l’intervistatore gli chiede: “E’ vero che parte del mondo conservatore è pronto allo scisma se il Sinodo cambia questioni fondamentali della dottrina?”.
Perché non risponde, come avrebbe potuto, se avesse voluto escludere effettivamente l’ipotesi di uno scisma: “no, non è alle viste nessuno scisma; noi siamo fedeli al magistero di Pietro e del collegio episcopale”, visto che lui crede così fermamente nel primato e nel magistero di Pietro, come fondamento della dottrina cattolica.
Ma risponde, capovolgendo il senso stesso della domanda dell’intervistatore, così: “Il magistero agirà nel solco della tradizione apostolica della Chiesa, del resto nessuno può fare altrimenti. Nessun Papa, né la maggioranza dei vescovi, possono cambiare dogmi della fede o leggi del diritto divino secondo i propri piaceri”.
Come a dire: “Io so bene quali sono i dogmi delle fede e le leggi del diritto divino. In qualche modo ne sono l’autentico depositario. Dunque, se la maggioranza dei vescovi o lo stesso Papa si azzarderanno a modificarli, saranno essi a mettersi fuori dalla Chiesa, ad aver operato uno scisma, non quelli che vogliono restare fedeli a quei dogmi e a quel diritto”.
Con ciò negando di fatto l’ex cathedra papale (che per lui dovrebbe essere un dogma) e autoproclamandosi depositario della vera cathedra al posto del Papa, quando questi fosse (a suo dire evidentemente insindacabile) infedele alla tradizione dei dogmi e del diritto divino.
3. Sull’ipotesi dell’ordinazione sacerdotale delle donne è fermo, anzi drastico: “Non se ne può neppure parlare perché dogmaticamente è impossibile arrivare a tanto”.
Con ciò affermando una evidente sciocchezza, perché la materia (a quanto ne so) non rientra nell’ambito dei dogma, ma del diritto della Chiesa.
E’ vero che per lui il diritto della Chiesa è “divino” e per questo immodificabile. Ma in ogni caso non di dogma si tratta, bensì di materia giuridica.
E, se è così, ci sarebbe da fargli notare: quante volte il diritto canonico della Chiesa è cambiato nel corso dei secoli? Su quale dato di fatto (storico, oltre che teologico) si regge quindi la sua tesi della presunta immodificabilità del diritto della Chiesa?
4. L’ultima domanda dell’intervistatore e l’ultima risposta del cardinale dicono molto sulla faglia che si è aperta all’interno della Chiesa. E non da oggi; io penso che essa si sia aperta già ben prima del Concilio Vaticano II e che in fondo lo abbia preparato.
L’intervistatore chiede: “Si sono levate proteste all’interno dell’Istituto Giovanni Paolo II contro il suo rinnovamento. Alcuni docenti hanno perso la cattedra e hanno detto che si sta tradendo l’intero magistero di Wojtyla. E così?”.
Il cardinale così risponde: “E’ un grande sbaglio distruggere quest’istituto, un attentato contro la qualità intellettuale della teologia cattolica. Nel mondo accademico sono tutti senza parole: impensabile licenziare dei docenti per il loro pensiero veramente ortodosso. Fra l’altro non è un pensiero che tradisce la dottrina, quindi non si capisce perché mandarli via.”
Anche qui colpisce la sicumera, anzi direi la presunzione, con cui il cardinale si fa autenticatore del termine “ortodosso”. Quasi che lui ne fosse l’unico e vero depositario.
La seconda cosa che colpisce è che nella Chiesa si sta affermando una corrente di pensiero che finalmente è in grado di evidenziare i “guasti” che ha operato (ad esempio rispetto alle innovazioni del Concilio Vaticano II) il pensiero e soprattutto l’azione di papa Wojtyla. E, si spera, porvi rimedio.
E’ giunta l’ora, dunque, che, rispetto alla faglia che si è aperta tra il pontificato di papa Francesco e quello dei due precedenti (di Benedetto XVI e, soprattutto, di Giovanni Paolo II) i cattolici prendano posizione, per dire chiaramente, anche pubblicamente, da che parte stanno.
Allo stesso modo di come lo ha fatto con indubbia chiarezza (almeno questo gli va riconosciuto) il cardinale Muller nel corso di questa intervista.
Giovanni Lamagna

mercoledì 16 ottobre 2019

P.CARC: "Adesione alle mobilitazioni del 25 e 26 ottobre 2019"

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Il P.CARC aderisce e promuove la partecipazione allo sciopero generale indetto da CUB, SGB, USI e SI Cobas per la giornata del 25 ottobre 2019, partecipa e promuove la partecipazione alla manifestazione “Organizziamoci nella lotta per far sentire la voce dei lavoratori e le nostre rivendicazioni di classe!” promossa da SI Cobas a Roma per sabato 26 ottobre 2019.

Con l’accordo di palazzo fra M5S, PD e LeU che ha prodotto il governo Conte 2, la classe dominante non ha risolto, ma ha aggravato la crisi del sistema politico della Repubblica Pontificia, non ha sanato la crepa fra lei e le masse popolari, ma anzi l’ha allargata. Il governo Conte 2 è frutto di un’operazione di vertice che, più ancora che il governo M5S-Lega (il Conte 1), va contro la “volontà popolare” anti Larghe Intese per come si è espressa nelle elezioni politiche del 4 marzo 2018, nelle elezioni europee del 26 maggio 2019 e nelle elezioni amministrative del 2019. Anche se “in Parlamento c’erano i numeri”, il governo Conte 2 è un altro passo nella rottura perfino delle apparenze della democrazia borghese, la riduzione del numero dei parlamentari lo conferma.
Nonostante le manovre delle Larghe Intese, indietro non si torna. I motivi che hanno portato all’insediamento del governo M5S-Lega non sono stati una parentesi passeggera: la crisi generale, lungi dall’essersi affievolita, si aggrava e si sviluppa, cresce l’ingovernabilità del paese.
Il punto non è quindi stabilire se questo governo è buono o non è buono, tanto meno basandosi sulle dichiarazioni e sulle promesse. Il punto è usare tutti gli appigli che la sua opera offre per spingere le masse popolari a mobilitarsi e a organizzarsi per conquistare posizioni nella lotta di classe in corso e creare superiori condizioni per costituire, nell’immediato, un proprio governo d’emergenza popolare.

La piattaforma rivendicativa proposta da SI COBAS e ADL COBAS dello sciopero generale del 25 ottobre, nell’insieme dei suoi articoli, mette al centro la necessità di difendere condizioni che rendono dignitoso il lavoro e arrestare l’erosione dei diritti che i lavoratori e le masse popolari hanno strappato durante la prima ondata della rivoluzione proletaria, quando il movimento comunista era forte nel mondo: dalla possibilità di scegliersi l’organizzazione sindacale che si preferisce e tenere assemblee in azienda, fino alla libertà di critica e di espressione. Diritti conquistati 50 anni fa con la gloriosa stagione dell’Autunno Caldo: i Consigli di Fabbrica sono state una delle vette più alte dell’organizzazione della classe operaia, che spianò la strada alla conquista dello Statuto dei Lavoratori (in particolare, all’introduzione dell’articolo 18 della giusta causa per i licenziamenti e delle 150 ore retribuite per l’istruzione) e alla “entrata in fabbrica” della parti progressiste della Costituzione del 1948.
Per far fronte alla crisi economica e soddisfare la loro avidità di profitto, oggi i padroni cercano di cancellare queste conquiste imponendo leggi come l’obbligo di fedeltà aziendale e i Decreti Sicurezza. L’abolizione di queste leggi, imposte dalla Lega di Salvini, avallate dal M5S di Di Maio e lasciate intatte dal PD di Zingaretti, come l’abolizione del Jobs Act di Renzi e della legge Fornero sulle pensioni, è un passaggio importante per alimentare nei lavoratori la fiducia nella propria forza che devono imparare a far valere. Va eliminato con ogni mezzo uno strumento che cerca di spaventare prima e colpire poi la classe operaia con sanzioni pecuniarie e penali altissime in caso di blocchi stradali e occupazioni: due fra gli strumenti “classici” da sempre utilizzati dai lavoratori per impedire lo smantellamento delle aziende e per portare all’attenzione dell’opinione pubblica le situazioni di crisi.

La manifestazione del 26 ottobre, indicata come la “parte politica” delle mobilitazioni, vuole non lasciare alla Lega e a Salvini il ruolo del primo oppositore del nuovo governo. Questo obiettivo lo facciamo valere realmente e praticamente solo legandoci alle tante battaglie che attraversano il paese per far fronte agli effetti immediati più gravi della crisi, a partire dai 160 tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), fino a fare diventare ognuna di questa battaglie una “questione di ordine pubblico”. Pensiamo anche ai NO TAV e NO TAP (lotte contro le Grandi Opere inutili e dannose), ai NO MUOS e ad A FORAS (lotta contro la NATO e la guerra), ai movimenti e organizzazioni di lotta per la casa, agli studenti, ai disoccupati, alle lotte contro la devastazione della Terra.
Non si tratta semplicemente di “unire le lotte” e moltiplicarle finché la “rivoluzione scoppierà”. Si tratta di costruire anche dal basso la rete del nuovo potere attraverso la moltiplicazione, il rafforzamento e il coordinamento di organizzazioni operaie e popolari che si pongono tutte il medesimo comune obiettivo di prendere in mano le redini del paese, che non si limitano a fare strenua e ferma opposizione ma lottano per prendere in mano il proprio destino e dirigere il corso delle cose.

È quindi necessario consolidare, rafforzare ed estendere il ruolo delle organizzazioni operaie e popolari esistenti, di costruirne di nuove, di favorire il loro coordinamento:
– sostenere in ogni azienda gli operai avanzati e in ogni zona gli esponenti avanzati delle masse popolari che in qualche modo nel loro contesto particolare, in un campo o nell’altro, resistono all’uno o all’altro aspetto del catastrofico corso delle cose che la borghesia imperialista impone in tutto il mondo in ogni campo,
– aiutare ogni gruppo di lavoratori avanzati a occuparsi con più forza e con efficacia crescente della sua lotta particolare,
– spingere ogni gruppo di lavoratori ad andare oltre il suo caso particolare e legarsi in ogni modo agli altri gruppi che anch’essi nel loro particolare resistono e assieme creare la rete del nuovo potere che si rafforzerà fino a costituire un proprio governo d’emergenza che farà fronte al sabotaggio, al boicottaggio, alle sanzioni e all’aggressione della comunità internazionale dei gruppi imperialisti fino a instaurare il socialismo.
Per socialismo intendiamo un sistema sociale caratterizzato da tre elementi:
1. governo del paese (il potere politico) nelle mani delle masse popolari organizzate aggregate intorno al partito comunista e guidato dall’obiettivo della transizione dal capitalismo al comunismo;2. gestione pianificata pubblica delle aziende che producono beni e servizi, che devono soddisfare i bisogni individuali e collettivi della popolazione,3. promozione, con tutti i mezzi del potere sociale, della crescente partecipazione della popolazione, in particolare delle classi che la borghesia esclude, alle attività specificamente umane (gestione delle attività politiche e sociali del paese, cultura, sport, ecc.). Il primo atto dell’instaurazione del socialismo è semplicemente la conquista del potere.
Questo serve ai lavoratori e al resto delle masse popolari per porre fine alla devastazione imposta dalla borghesia e dal suo sistema in cancrena: le mobilitazioni del 25 e 26 ottobre prossimo sono un’occasione favorevole per avanzare in questa direzione.
Prendere esempio dai Consigli di Fabbrica del Biennio Rosso (1919-1920) e dell’Autunno Caldo del 1969 e mettere al centro l’iniziativa dei lavoratori, ma questa volta per avanzare verso la vittoria del movimento comunista che rinasce nel nostro paese e nel resto del mondo, fino all’instaurazione del socialismo!
Creare in ogni azienda organismi di operai che si occupano del destino della loro azienda, contrastano i tentativi di smantellamento, morte lenta, privatizzazione e le operazioni speculative, prevengono le mosse dei padroni approfittando del fatto che possiamo conoscerle in anticipo perché sono mosse obbligate, dettate dalla loro necessità di valorizzare ognuno il suo capitale, alimentano le lotte del resto delle masse popolari e se ne giovino essi stessi.

Moltiplicare gli organismi operai e popolari, rafforzarli e fare di essi i costruttori del nuovo sistema di potere che crescendo sostituirà quello della borghesia e del clero.

Per farla finita con la crisi del capitalismo e i disastri che produce, bisogna farla finita con il capitalismo. È un’opera difficile ma possibile. Dipende solo da noi impegnarci. Questa è l’opera che costruirà il nostro futuro e ci farà fare un salto verso l’instaurazione del socialismo.

10, 100, 1000 Consigli di Fabbrica!Il futuro del paese poggia sugli organismi operai nelle aziende capitaliste e gli organismi popolari nelle aziende pubbliche!Organizziamoci per dare al paese il governo di cui le masse popolari hanno bisogno!

Cordiali saluti dalla redazione di:
RESISTENZA
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