Che
confusione… E quanta disinformazione sul MES. Non disinformazione
generica, magari dovuta a scarsa conoscenza dei fatti; ma
disinformazione sistematica, lucida, costruita a tavolino, dosando
mezze verità e intere bugìe, con il preciso scopo di confondere gli
ingenui, per distogliere da sé la riprovazione dell’opinione
pubblica e per indirizzarla contro l’avversario.
Una
cosa è certa: il MES viene ormai percepito come un cavallo di Troia
tedesco, e tutti vogliono prenderne le distanze. Tutti, tranne i
vertici del PD e pochi eurocrati impenitenti, capitanati – non a
caso – dal solito Mario Monti, colui che affermò essere la Grecia
«la manifestazione
più concreta del grande successo dell’euro»
[vedi “Social” del 22 marzo 2013].
Ad
aprire le danze della disinformazione è stato il premier Giuseppi
II, il quale non più tardi di un mese fa si era fatto intervistare
dal “Financial Times” per dichiarare che «la
strada da seguire è quella di aprire una linea di credito del MES
per tutti gli Stati membri, in modo da aiutarli a combattere le
conseguenze dell'epidemia di Covid»
[vedi “Social” del 27 marzo 2020].
Dichiarazione
pazzesca, che ha fatto lievitare le pulsioni anti-UE dell’opinione
pubblica italiana, e che ha fatto insorgere i poveri grillini, i
quali devono pur tentare di salvare quel che resta della loro faccia.
Ma
ecco che, l’altro giorno, Giuseppi II si è prodotto in una brusca
inversione a U, dichiarando nell’ultima (e criticatissima)
conferenza-stampa “made in Casalino” che «l’Italia
non ha bisogno del MES perché lo ritiene totalmente inadeguato e
inadatto all’emergenza che stiamo vivendo».
Poi, in evidente debito di ossigeno, ha tentato anche un triplo salto
mortale: «Il MES
esiste dal 2012, non è stato istituito ieri o attivato la scorsa
notte, come falsamente e irresponsabilmente è stato dichiarato da
Matteo Salvini e Giorgia Meloni. (…)Meloni era ministro quando il
MES è stato sottoscritto, se ne assuma la responsabilità pubblica.»
Contraddizione
in termini: se è vero che il MES esiste dal 2012 (governo Monti) ne
deriva indubitabilmente che la Meloni (non essendo più ministro dal
novembre 2011) non aveva alcuna «responsabilità
pubblica» da
assumersi. Peraltro, in contrasto con l’orientamento del suo
partito di allora (il PDL berlusconiano) la Meloni non aveva neanche
votato la ratifica parlamentare del relativo trattato.
Dopo
la conferenza-stampa, ai giornalisti che chiedevano conto di questa
evidente discrepanza, le solite “fonti di palazzo Chigi”
dichiaravano che «le
trattative furono portate avanti nel 2011 dal governo Berlusconi IV,
con Meloni ministro, poi approvato alle Camere nel 2012».
Versione peraltro ripresa dagli uomini del PD e dai giornalisti
fiancheggiatori nei dibattiti televisivi che sono seguìti.
Versione
– inutile dirlo – del tutto fantasiosa, come vedremo.
Innanzitutto, se proprio vogliamo ricercare le responsabilità
remote, non possiamo fermarci al 2011 o al 2012, ma dobbiamo
necessariamente andare indietro nel tempo, almeno fino al 1997,
quando il governo di allora (il primo gabinetto Prodi) sottoscrisse
il cosiddetto “patto di stabilità”, che cristallizzava ed
eternava i funesti “parametri di Maastricht”, disponendo
inderogabilmente che il deficit di bilancio degli Stati-membri non
dovesse superare il 3% del PIL. Era il primo cardine di quella
“stabilità” che per noi (e non solo per noi) ha significato
lacrime e sangue.
Successivamente,
non essendo sufficiente questa disposizione a buttare sul lastrico i
popoli europei, nel 2005 (al tempo del 2° governo Berlusconi) la
Commissione Europea stabilì un secondo e più infame precetto: il
debito pubblico degli Stati-membri doveva essere inferiore al 60% del
PIL, o comunque – piccola concessione al Cavaliere e ad altri
recalcitranti premier dell’Europa meridionale – doveva procedere
verso quel traguardo (per noi irraggiungibile).
Orbene,
erano queste le forche caudine della cosiddetta “stabilità”:
deficit di bilancio al 3% del PIL, debito pubblico al 60% del PIL.
Senza l’osservanza di quei due precetti, le economie dei singoli
paesi non sarebbero state considerate “stabili”.
Tralasciamo
alcuni passaggi intermedi ed arriviamo al 2010, l’anno in cui nei
piani alti di Bruxelles si decideva di affrettare i tempi per imporre
agli Stati-membri l’obbligo della farlocca “stabilità”
comunitaria. La decisione non era calata brutalmente sul tavolo
dell’Unione, ma camuffata con il progetto di fornire ai paesi
europei uno strumento creditizio che potesse intervenire
efficacemente per aiutare gli Stati in difficoltà. Il progetto
veniva codificato l’anno seguente, nel luglio 2011, dandogli una
forma ibrida (metà fondo finanziario e metà organizzazione
internazionale) e attribuendogli una denominazione criptica:
Meccanismo Europeo di
Stabilità. Il
riferimento al Patto
di Stabilità era
esplicito, anche se si tentava di camuffarlo dietro il soprannome –
bugiardo – di “Fondo salva-Stati”.
Al
tempo, in Italia era nuovamente al governo (per la quarta volta)
Silvio Berlusconi, che non attribuiva al MES l’importanza dovuta.
Sia per il solito approccio “moderato” che faceva ritenere al
Cavaliere di riuscire ancora una volta a salvare capra e cavoli; sia
– soprattutto – perché il MES di cui si parlava (si parlava
soltanto) nel 2011 non aveva ancora le sue infami connotazioni.
Connotazioni che gli sarebbero state attribuite soltanto un anno più
tardi, dopo che la crisi dello spread (causata artificialmente dalle
banche tedesche) ebbe prodotto il defenestramento di Silvio
Berlusconi, considerato indisponibile ad attuare in Italia una
politica di “lacrime e sangue”.
Contrariamente
a quanto affermato dalle imprecisate “fonti di palazzo Chigi”,
quindi, non fu il 4° governo Berlusconi a «portare
avanti le trattative per il MES»
nel 2011, ma il governo Monti nel 2012.
Per
ciò che è seguito a quegli eventi, non voglio ripetermi, e perciò
rimando a quanto ho già scritto su queste stesse pagine. Ricordo in
particolare due articoli: “Italia
a sovranità limitata, grazie al MES”
(8 febbraio 2013) e “MES:
tutto è cominciato col governo Monti”
(6 dicembre 2019).
Preferisco,
piuttosto, dedicare alcune riflessioni agli ultimi sviluppi. Spiegare
perché – almeno a mio sommesso parere – anche questo mezzo-MES
“incondizionato” non sarebbe altro che l’ennesimo agguato
tedesco contro gli interessi italiani.
Per
capire quale perfida manovra si celi dietro questa nuova campagna per
imporci il MES, bisogna fare un po’ mente locale. Dunque, il
Coronavirus ha prodotto la attuale emergenza economica, dovuta alla
necessità di far fronte alle spese immediate per sopperire alle
carenze dei vari servizi sanitari nazionali (disastrati dalle
“riforme che l’Europa ci chiede”); ma, soprattutto, ha posto le
premesse per una emergenza economica ben più ampia, che si paleserà
nei prossimi mesi, quando ci sarà bisogno di far ripartire le
economie nazionali, azzoppate da tre mesi (almeno) di paralisi.
Ebbene,
soprattutto per questa seconda crisi i paesi dell’Europa latina e
mediterranea hanno richiesto alla cosiddetta Unione cosiddetta
Europea di dar vita ad un aiuto concreto della collettività degli
Stati-membri in favore dei paesi UE maggiormente in difficoltà.
È
stato a questo punto che si è scatenato l’inferno: i tedeschi ed i
loro valvassori hanno notificato di non essere disponibili a
garantire i prestiti di cui Italia, Spagna ed altri “sudisti”
avrebbero avuto bisogno. Se Roma, Madrid o Lisbona volevano dei
prestiti per sopravvivere, se li garantissero da soli. Come? Con il
MES. Quindi, con la minaccia di fare la fine della Grecia.
A
proposito – apro una parentesi – proprio in questi giorni la
Grecia, dopo aver già venduto il porto di Atene ai cinesi, è stata
costretta a vendere anche il suo secondo porto, quello di Salonicco.
A chi? Indovinate un poco, proprio a tedeschi e francesi.
Torniamo
a noi. Di fronte alla ondata di antieuropeismo seguìta alla cafonata
dei tedeschi (gli olandesi sono soltanto dei prestanome) madame
Merkel ha cercato di aggiustare il tiro. Nel suo piccolo, nel suo
piccolissimo, anche Giuseppi – lo abbiamo visto – ha fatto
macchina indietro. No, i buoni tedeschi non vogliono impiccarci come
hanno fatto con i greci, e quindi – dalla solita mediazione ad
usum delphini – è
venuto fuori il miracoloso “pacchetto” che l’Unione Europea ha
messo in campo per l’emergenza Coronavirus.
Il
cosiddetto pacchetto (in realtà un “pacco” nella accezione
peggiore del termine) prevede un totale di 365 miliardi per l’intera
Europa. Montante modestissimo, più o meno quanto la Kanzlerin
ha stanziato per sostenere le industrie tedesche. E non è tutto,
perché il pacco è stato confezionato con arte, in una “logica di
pacchetto” che non riesce a nascondere gli obiettivi reali della
manovra. Dunque, tre quarti del totale (240 miliardi su 365) è
rappresentato da un cosiddetto “MES incondizionato”: e vedremo
poi cosa si celi dietro il termine “incondizionato”. Per il
resto, si tratta dei soliti specchietti per le allodole, un po’
come gli aiuti “poderosi” promessi in Italia da Giuseppi.
Dunque,
ai 240 miliardi del “MES incondizionato”, dovrebbero aggiungersi
100 miliardi del SURE (per contribuire alla cassa integrazione nei
vari Stati) e 25 miliardi di un fondo di garanzia della Banca Europea
degli Investimenti che – secondo le pie intenzioni dei proponenti –
dovrebbe generare prestiti alle imprese europee per 200 miliardi. Un
po’ come da noi l’intervento dello Stato a garanzia dei prestiti
erogati dalle banche dovrebbero trasformare i pochi spiccioli degli
aiutini governativi in una manovra “poderosa” da 400 miliardi.
E
questo – i 365 miliardi dell’UE – per tutta l’Europa. La
quota parte dell’Italia, se mai dovesse essere accolto l’infame
pacchetto, non arriverebbe forse ai 50 miliardi, fra somme liquide,
contributi alla cassa integrazione, e garanzie alle banche per
erogare prestiti.
Che
dire? È evidente che il favoloso “pacchetto” è soltanto
l’incarto che avvolge un MES tanto più pericoloso perché
ufficialmente incondizionato, almeno se dovesse essere utilizzato
soltanto per le spese di carattere sanitario legate alla pandemia.
Ora,
a parte il fatto che a noi ed agli altri paesi “non stabili”
servono soldi (molti) per far ripartire l’economia dopo la crisi, e
non gli spiccioli (pochini) per comprare alcol e mascherine, il punto
essenziale è un altro: la scelta se entrare o non entrare nel MES.
Se entriamo, se attiviamo il meccanismo, saremo in ogni caso legati a
questo marchingegno infernale. Chi ci garantisce dalle mosse future
della Germania, che potrebbe tentare di incaprettarci con il
commissariamento della nostra economia tramite i soliti figli di
troika? Una Germania – non si dimentichi – che dal punto di vista
economico è nostra nemica, che vuole aggredire il risparmio degli
italiani, che vuole “grecizzare” l’Italia con il volenteroso
aiuto di qualche Tsipras di casa nostra.
Chiedere
l’attivazione del MES, di qualunque tipo di MES, sarebbe folle.
Sarebbe folle e, in aggiunta, sarebbe ingiustificato. Perché –
anche se tutti sembrano averlo dimenticato – invece che attivare il
MES, l’Italia potrebbe emettere BTP acquistati “senza limiti” –
lo ricorda Liturri sull’autorevole “Start Magazine” – dalla
Banca Centrale Europea.
L’Unione
Europea, se non altro, ha disattivato temporaneamente i vincoli
assurdi del Patto di Stabilità. Per quale dannato motivo, dunque,
dobbiamo necessariamente infilarci nel trappolone di madame Merkel?
Dobbiamo
piuttosto denunciare il trattato di adesione al MES e chiederne lo
scioglimento. E chiedere anche – particolare non trascurabile –
la restituzione dei 14 miliardi di euro che abbiamo versato fino a
questo momento. Prima che qualcuno ci chieda di versare altri 111
miliardi, la rimanenza di quei 125 miliardi che il chiarissimo
professor Monti ha garantito al MES in nome nostro nel lontano 2012.
Possibile
che l’onda lunga di questa follìa debba ancora durare?
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com