Israele si prepara alla guerra
Due anni e mezzo dopo le illusioni della Primavera araba, nel pieno dell'estate della Restaurazione egiziana, Usa e Occidente sono di fronte al dilemma della Siria, anzi dell'ex Siria, perché il Paese, come un tempo l'ex Jugoslavia, non esiste più.
Con la morte chimica e le sue stragi (335 le vittime secondo Medici senza frontiere) è diventata uno spaventoso campo di battaglia e di crimini contro l'umanità che contagia tutta la regione.
La Siria, dove si triturano anche le vestigia di grandi civiltà, sta perdendo oltre al suo passato, il suo futuro e quello delle prossime generazioni.
Che fare? Gli americani muovono la flotta verso il Mediterraneo orientale facendo pensare a un intervento militare. Con quali conseguenze? Le stanno soppesando in queste ore mentre i Cruise forse sono già puntati sul palazzo di Assad, in cima alle alture di Damasco.
Perché questa potrebbe diventare - e in parte lo è già - una sorta di guerra mondiale su scala locale. Non sappiamo cosa accadrà, se gli Usa agiranno da soli o con alleati come fu in Kosovo con la Nato schierata contro la Serbia di Milosevic; se aspetteranno o meno un capello internazionale e le indagini dell'Onu. Ma una cosa è certa: la lontana guerra di Siria ora è più vicina all'Occidente, è un caso scottante, non rinviabile.
La Siria è nel cuore del Medio Oriente. Confina con Israele, che occupa dal 1967 il Golan; con il Libano, travolto da una contrapposizione settaria che riecheggia gli incubi della guerra civile; con l'Iraq, a sua volta dilaniato da ondate di attentati micidiali; con la Turchia, alle prese con l'eterno problema dei curdi dentro e fuori i suoi confini; con la Giordania, fragile nazione di profughi palestinesi e adesso anche siriani, governata da una monarchia che Churchill condannò al ruolo di eterno stato-cuscinetto. È qui che il 26 agosto p.v. si riuniscono i capi di Stato maggiore di diversi Paesi occidentali e musulmani - ci sarà anche l'Italia - per discutere la situazione siriana.
Questo è il maggiore conflitto per procura del Medio Oriente. Con dimensioni mondiali perché coinvolge la Russia e l'Iran, insieme ai fedeli Hezbollah libanesi, sempre al fianco del regime di Damasco, sostenuto anche dal Governo sciita dell'Iraq. È una guerra civile e settaria che oppone sciiti e sunniti, ma proiettata su uno scacchiere internazionale.
Dall'altra parte, a foraggiare il frammentato fronte dei ribelli, ci sono la Turchia, l'Arabia Saudita, il Qatar e le monarchie del Golfo che hanno puntato quasi subito sulla caduta di Bashar Assad: un calcolo sbagliato che potrebbe costare caro se il regime resistesse ancora.
Proviamo a pensare per un momento se Assad fosse il temporaneo vincitore: certo non potrebbe controllare che una parte del Paese, ma quale Siria avremmo? Forse un territorio ancora più anarchico e percorso da una violenza brutale. Il caso siriano potrebbe durare un altro decennio: o bisogna forse ricordare il precedente dell'Iraq? Gli americani sicuramente non se ne scordano.
Per la verità a sbagliare le previsioni non sono stati soltanto arabi e turchi. Anche americani e francesi, i cui ambasciatori in Siria nel luglio 2011 andarono ad Hama tra i ribelli, pensavano che il figlio di Hafez avrebbe fatto la stessa rapida fine di Ben Alì o Mubarak. Sta invece resistendo più di Gheddafi perché questa è una partita geopolitica vitale: gli alauiti di Siria combattono per la sopravvivenza, così come gli Hezbollah che non abbandoneranno le armi neppure se Bashar fosse ucciso.
Nella posta in gioco immediata ovviamente non c'è soltanto la Siria ma anche il Libano. E pure i confini della Turchia - potenza della Nato - se i curdi siriani, collegati a quelli iracheni e turchi, ottenessero l'autonomia che reclamano con le armi in pugno. Per non parlare di Teheran che se perdesse la Siria sacrificherebbe un anello fondamentale della Mezzaluna sciita.
La Russia e l'Iran continuano a sostenere Assad perché nessuno ha proposto un'alternativa politica concreta alla caduta del regime. Vladimir Putin e il capo dell'intelligence saudita, il principe Bandar bin Sultan, hanno avuto a Mosca un incontro di quattro ore.
I sauditi hanno ammesso di sponsorizzare la guerriglia cecena, attivissima anche in Siria, e hanno proposto a Putin di rinunciare al sostegno a Damasco in cambio della protezione degli interessi russi in Siria (basi militari, forniture di armi). Ma il principe è stato assai poco convincente quando, anche a nome degli Stati Uniti, ha tentato di delineare un possibile futuro Governo: «No grazie - ha risposto Putin - ci teniamo Assad».
I russi sanno cosa vogliono a Damasco, una transizione controllata, non gli americani che pure condividono in parte le preoccupazioni Mosca. Al Congresso, pochi giorni fa, il capo di stato maggiore americano Martin Dempsey è stato esplicito: «Nessuno nel fronte dei ribelli è in grado di garantire i nostri interessi. Qui non ci sono moderati che possono prendere il potere».
È un dato di fatto: il Free Syrian Army sponsorizzato dai turchi è un ombrello di formazioni variegate e litigiose mentre imperversano i gruppi jihadisti di al-Qaida e di Jabat al Nusra.
Se sarà guerra sarà una guerra al buio, ha spiegato il comandante in capo Dempsey, veterano del Golfo e dell'Iraq. «Un intervento Usa - ha detto - non risolverebbe i problemi religiosi, tribali e settari della Siria». E neppure quelli del Medio Oriente intorno. Forse la Siria merita qualche cosa di meglio di uno sparo nel buio.
Alberto Negri - Disarmo Peacelink