Contrordine,
compagni – avrebbe detto Guareschi – Giuseppi non si tocca. E
cosí, nel giro di qualche settimana, gli appelli a Mario Draghi
perché accorresse a salvare l’Italia sono spariti dalle prime
pagine dei giornaloni romani e milanesi, Colao é tornato ad essere
un Carneade qualunque, e gli ex-candidati “di riserva” sono
proprio scomparsi dai radar. Nessuno ironizza piú sulle incredibili
conferenze-stampa all’ora dei telegiornali, cosí come nessuno
avanza piú dubbi sulla costituzionalitá della raffica di DPCM che
il Conte Tacchia ha sventagliato durante l’emergenza pandemica.
Il
quadro é indubbiamente cambiato. E cambiamenti del genere non
avvengono mai per caso. Cosa puó essere successo? Chissá... Forse é
servito a qualcosa il colloquio privato avuto con il Papa [vedi
“Social” del 24 aprile]; un colloquio «non breve», i cui
contenuti non sono stati resi noti. Personalmente, ho avuto
l’impressione che Giuseppi, sentendo ormai sul collo il fiato dei
candidati-successori, fosse andato a cercare protezione in quel
Vaticano che – stando a molte voci di corridoio – é il suo
effettivo punto di riferimento politico.
Certo,
la pista vaticana ha una sua credibilitá. Ma non é la sola. Nei
corridoi si sussurra anche di una pista americana, fattasi
particolarmente calda proprio in questi giorni, quando – stando a
voci insistenti che giungono da oltre Atlantico – Trump si
appresterebbe a far esplodere la bomba di un clamoroso Spygate,
anzi di un Obamagate.
Di
che si tratta? L’argomento é complesso, e forse meriterebbe un
articolo ad hoc.
In sintesi: dopo anni d’indagini, l’amministrazione americana
avrebbe raggiunto la prova che, durante gli ultimi mesi della sua
presidenza, Barack Obama avrebbe ordito una congiura per contrastare
prima il candidato Trump, e poi il presidente Trump (eletto ma non
ancóra insediato). Il tutto, utilizzando in maniera illegittima i
vertici – tutti obamiami – dei vari servizi segreti (CIA, FBI e
molti altri “minori”) perché venisse imbastita la falsa accusa
di una collusione pre-elettorale fra lo staff di Donald Trump e il
governo russo. Era il cosiddetto Russiagate,
iniziato con l’imputazione strumentale del Consigliere per la
sicurezza nazionale di Trump, generale Michael Flynn, l’uomo che
avrebbe dovuto normalizzare i servizi di sicurezza USA, eliminando
dai vertici gli elementi maggiormente compromessi con il sistema di
potere obamiano-clintoniano.
Peraltro,
esauritosi lo sgangherato filone di un Russiagate
chiaramente farlocco, il pensionato Obama – stando sempre alle
indiscrezioni di stampa – avrebbe continuato a tramare contro il
Presidente, giovandosi sempre dei suoi uomini nei servizi, ma anche
della cassa di risonanza dei media riconducibili a certi poteri forti
del Deep State
USA. Ultimo episodio di questa ininterrotta campagna di diffamazione
planetaria sarebbe stato – riferisce l’informatissimo sito di
Maurizio Blondet – la recente campagna tendente a ridicolizzare la
gestione trumpiana della crisi del Coronavirus.
In
mezzo – mi permetto di aggiungere – potrebbe esserci stato anche
l’ultimo tentativo di sottoporre Trump a impeachment
per l’affare ukraino che riguarda il figlio di Joe Biden, giá
vicepresidente con Obama ed attualmente candidato democratico alla
presidenza.
Questi
– in stringatissima sintesi – gli aspetti essenziali dello
Spygate
che Trump si prepara a far deflagrare. Oramai sarebbe questione di
settimane, forse di giorni. Poi l’ex capo dell’FBI, James Comey,
potrebbe essere trascinato in tribunale – e con lui i vecchi
vertici di altri servizi segreti – per rispondere di crimini
penalmente rilevanti. Né si puó escludere che in tribunale finisca
lo stesso Obama. Staremo a vedere.
Ma
cosa c’entra tutto ció con le vicende di casa nostra e con la
permanenza di Giuseppi a capo del governo? E – aggiungo un altro
interrogativo – l’incombente Obamagate
potrebbe avere una connessione con un altro fatto assai strano
verificatosi in questi ultimi giorni? Mi riferisco – tanto per non
restare nel vago – al misterioso comportamento di Renzi, giunto a
un pelo dal votare la sfiducia al ministro Bonafede (con conseguente
crisi di governo) e poi prodottosi in una repentina quanto
spericolata retromarcia.
Ebbene,
queste due storie – apparentemente cosí distanti – potrebbero
avere un punto di contatto. Infatti, le stesse insistenti voci che
preannunciano imminenti e clamorosi sviluppi giudiziari negli USA,
riferiscono anche di una connection
fra servizi segreti “occidentali” che sarebbe servita a
fabbricare prove false da utilizzare per creare dal nulla il
Russiagate.
Orbene, uno dei filoni di questa connessione fra servizi – sembra
addirittura la principale – porterebbe dritto dritto in Italia.
Qui
da noi, al tempo degli ultimi anni di Obama, c’era il governo Renzi
(febbraio 2014 - dicembre 2016) e súbito dopo il governo Gentiloni
(dicembre 2016 - marzo 2018). Ora, verrebbe da pensare che i nostri
servizi, ove effettivamente fossero stati in qualche modo coinvolti
nella vicenda del Russiagate,
avessero seguíto gli ordini provenienti dalle autoritá di governo.
Autoritá che – si ricordi – pendevano dalle labbra di Barack
Obama, considerato come il massimo riferimento dei cosiddetti
“progressisti” del mondo intero.
Matteo
Renzi, in particolare, era un fan sfegatato del Presidente USA. Ed
era – non si dimentichi – lo stesso Renzi che aveva come
principale collaboratore quel Marco Carrai che era in rapporti
strettissimi con Michael Ledeen, noto frequentatore dei servizi
segreti di mezzo mondo. Quel Marco Carrai – aggiungo – che nel
2017 il Vispo Tereso avrebbe voluto nominare Consulente per la
sicurezza informatica del DIS, il dipartimento che coordina i servizi
d’informazione italiani. La nomina di Carrai – ricordo – venne
bloccata dall’alto, si disse su pressione dei servizi americani
dell’era Trump [«Boschi,
Lotti, Carrai: ecco il Giglio Magico»
su “Social” del 26 maggio 2017].
Pochi
mesi prima – sempre durante il governo Renzi – era scoppiato in
Italia il caso dei fratelli Occhionero [«La
guerra degli hacker a Washington e a Roma»
su “Social” del 20 gennaio 2017]. Qualcuno forse lo ricorderá.
Si era all’inizio del 2017, quando negli USA il Presidente eletto
Donald Trump attendeva di insediarsi e Barack Obama era ancora in
carica. In quei giorni – riferivo su queste stesse pagine –
«negli
Stati Uniti è in corso una battaglia al calor bianco fra l’apparato
spionistico che fa capo alla cordata Obama-Clinton ed i pochissimi
elementi dei servizi che sono sopravvissuti all’azione epuratrice
dell’intelligence “democratica”, con alcuni di questi
“resistenti” che sono riusciti a barricarsi negli uffici
dell’FBI».
Ebbene,
proprio in quei giorni «apprendiamo
che è stata l’FBI a mettere la polizia italiana sulle tracce di
quei fratelli Occhionero che avrebbero hackerato i computer di tutta
la Roma “che conta”. E apprendiamo, ancora, che le informazioni
così ottenute non sono state archiviate in Italia, ma dirottate su
capienti server, allocati – indovinate un po’? – negli Stati
Uniti d’America. Non mi stupirei – a questo punto – se domani
venisse fuori che gli Occhionero fossero utilizzati direttamente o
indirettamente dalla CIA, e che la loro scoperta sia stato un colpo
basso del Bureau ai cugini della Agency».
La
mia impressione – allora – fu che fosse giá in corso un
colossale regolamento di conti all’interno dei servizi americani, e
che l’Italia fosse un teatro privilegiato di quel redde
rationem.
Impressione
rafforzata nell’autunno scorso, quando sono giunti a Roma per la
seconda volta (c’erano giá stati ad agosto) il Capo del
dipartimento di Giustizia USA, William Barr, e il Procuratore
generale John Durham. Si trattava di una missione ufficiale, per
raccogliere prove relative ad una indagine penale che – riferiscono
le poche fonti che hanno attenzionato la vicenda – copre un ampio
arco di tempo: dall’inizio del 2016 (campagna elettorale per le
presidenziali) alla primavera del 2017 (formalizzazione dell’indagine
sul Russiagate).
Missione – quella di Barr e Durham – seguíta subito dopo da una
visita a Roma del direttore della CIA, Gina Haspel.
All’epoca,
il governo Conte bis s’era appena insediato, e Giuseppi gestí la
questione in prima persona, approfittandone – a parere di qualcuno
– per acquisire meriti nei confronti della nuova amministrazione
americana. Secondo l’autorevole “Start Magazine”, il premier
Conte «della gestione
di un dossier così scottante avrebbe fatto una polizza di
assicurazione contro le manovre di Renzi».
Oggi, infatti, leggo su “Dagospia”, «gli
americani stanno indagando sul ruolo del governo Renzi (estate 2016)
nel tentativo di far fuori il puzzone impiccandolo ai fantomatici
rapporti coi russi».
Non
so se queste ricostruzioni siano esatte o meno. É peró indubbio che
– secondo un altro sito che sembra avere notizie di prima mano,
“Inside Over” – gli inquirenti americani ebbero contatti
diretti con i vertici dei servizi segreti italiani, acquisendo «prove
decisive» per
l’inchiesta.
Al
centro della connection
italiana ci sarebbe una strana universitá privata o semiprivata, la
Link University, e soprattutto un suo docente maltese, tale Joseph
Mifsud, da qualche mese svanito nel nulla. Mifsud sarebbe
l’uomo-chiave della storiaccia del Russiagate,
“fabbricato” – giura qualcuno – proprio in Italia. Un’altra
connessione parallela porterebbe in Ukraina (qualcosa a che vedere
con i Biden?), da dove – secondo quanto dichiarato dall’avvocato
di Mifsud e rilanciato dal sito “Dagospia” – doveva arrivare un
cospicuo finanziamento per la Link University (che peró smentisce).
Naturalmente,
non é detto che questi fatti, notizie, semplici indiscrezioni siano
tutti collegati ai recenti sviluppi della politica interna italiana.
Fatto sta che alcuni episodi di contorno alla vicenda
Renzi-Bonafede-Conte potrebbero far credere di si. Mi riferisco –
in particolare – al colloquio che il premier, nella imminenza del
voto sulla sfiducia a Bonafede, ha avuto con Maria Elena Boschi,
depositaria delle richieste di Renzi per sotterrare l’ascia di
guerra. Ebbene, sembra che al primo punto di tali richieste vi fosse
la nomina del fedelissimo Ettore Rosato a Sottosegretario alla
presidenza con delega ai servizi segreti. Richiesta che – secondo
quanto trapelato da palazzo Chigi – non sarebbe stata accettata dal
premier, che detiene personalmente quella delega e che non ha
assolutamente intenzione di cederla a chicchessia.
Naturalmente,
non so se da parte di Conte ci sia stata una controproposta e se tale
controproposta – in via del tutto ipotetica – abbia avuto
attinenza o meno con la materia dei servizi. So soltanto che Renzi
non ha votato la sfiducia a Bonafede, e che Giuseppi è ancora a
palazzo Chigi, con la delega ai servizi segreti ben stretta fra le
sue mani.
Intanto,
pare che la “tempesta atlantica” – come la chiamano i bene
informati – stia attraversando i cieli dell’oceano, diretta
proprio in Italia.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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