Eravamo
alla frutta. Dopo siamo arrivati al dolce, e dopo ancora al caffè e
all’ammazzacaffè. Dove l’ammazzacaffè è simboleggiato
dall’ennesimo e litigioso “vertice di maggioranza”, ultimo di una lunga serie, dipanatasi –
affermano i patiti delle statistiche – a una media di uno ogni
quattro giorni di vita dello sfigatissimo governo di Giuseppi II.
Lui,
poveretto, è in grande affanno. Sembra che, addirittura, abbia
dimenticato di farsi phonare il ciuffo prima dell’ultima comparsata
davanti alle telecamere per dire che questa manovra «abbassa le
tasse». Oramai Giuseppi ha dato fondo a tutti i diversi “look”
del suo repertorio: da quello senza cravatta (sfoggiato quando
mostrava di seguire con grande attenzione le cose che dicevano gli
operai dell’ex-Ilva) a quella del maglione di cachemir (che faceva
tanto “casual” nelle visite ai luoghi di un disastro climatico).
Si
vede che il tapino è allo sbando, che fatica sempre piú a “trovare
la quadra” fra gli “opposti estremismi” della sua cosiddetta
maggioranza: fra le sportellate di Renzi e lo stridor di manette dei
grillini; in mezzo c’é uno Zingarello chiaramente inadeguato, che
cerca di far dimenticare i disastri della Regione di cui è presidente, primo fra tutti quello dello smaltimento dei rifiuti.
L’ultimo
vertice ha rischiato seriamente di sancire la fine della
“maggioranza” giuseppina, in un clima di tutti contro tutti,
all’arma bianca. Alla fine, la “quadra” si é trovata
rateizzando l’imposizione delle nuove tasse: una a luglio, l’altra
a ottobre, una terza non so quando.
Dopo
di che, é scattata la corsa a farsi belli davanti al pubblico, tutti
a dire che avevano vinto loro, tutti a vantare una vittoria ai punti
contro i nemici interni della “maggioranza”.
Più patetico di tutti, come spesso gli accade, il Ciambellano di Corte,
ovvero il “gauaglione” ministro degli Esteri, con il suo solito
sorrisetto compiaciuto stampato sul faccino (chissà cosa ci troverà di divertente nella situazione di oggi). Il quale guaglione ha
proclamato con sussiego che, si, le nuove tasse ci sono, ma sono
state imposte solamente alle multinazionali. Discorso da asilo
infantile, perché a pagare il conto è sempre l’utente finale. La
plastic tax,
per esempio, la pagano le industrie di imballaggi, che però aumentano i prezzi di vendita alle aziende che producono i beni di
consumo, che a loro volta aumentano i prezzi di vendita al
consumatore, il quale però non puó rivalersi su nessuno. A pagare,
alla fine, è sempre Pantalone.
Stesso discorso vale per le imprese. Proprio mentre Giggino affidava all’etere il suo giacobino compiacimento per l’aumento delle tasse alle multinazionali, l’ufficio-stampa della Fanta (gruppo Coca Cola) comunicava che non si sarebbe piú approvvigionata di arance sul mercato siciliano, stante la prevista incidenza della sugar tax sui suoi bilanci. E da un momento all’altro si attende l’abbandono anche del mercato italiano degli imballaggi in plastica da parte dell’intero gruppo Coca Cola Hbc, per il quale – secondo i primi calcoli – sugar tax e plastic tax insieme rappresenterebbero un aggravio di spesa di circa 180 milioni di euro in nuove tasse. La Sibeg, azienda siciliana che imbottiglia le bibite Coca Cola, ha immediatamente fatto sapere che, in un caso del genere, sarebbe costretta a chiudere i battenti ed a licenziare tutti.
Ma
Giuseppi e giuseppini di complemento sembrano non accorgersi di
modesti “effetti collaterali” come questo. D’altro canto, che
volete che incidano qualche centinaio di lavoratori siciliani che
rischiano di perdere il posto? Andranno ad aggiungersi ai 20.000
dell’ex-Ilva e dell’indotto collegato, nel caso di fuga
dell’Arcelor-Mittal dall’Italia. E agli 8.000 “esuberi”
(quasi tutti in Italia) annunciati dall’Unicredit. Ma anche questi
sono bruscolini a fronte del totale di 400.000 (diconsi:
quattrocentomila) lavoratori a rischio, da quelli dell’Alcoa sarda
a quelli della ex-Pirelli, per tacere di quelli dell’Alitalia,
sempre con la spada-di-Damocle delle incombenti riduzioni di
personale.
Eppure,
Giggino o’Guaglione
dovrebbe saperlo
perfettamente, giacché sono stati ben 149 i “tavoli di crisi”
che ha lasciato aperti al Ministero dello Sviluppo Economico.
Ministero da lui occupato nel governo Giuseppi I e precipitosamente
abbandonato per insediarsi – lui, esperto diplomatico di chiara
fama – al Ministero degli Affari Esteri del Giuseppi II. In tale
veste – ricordo – ha dichiarato in quel di Pechino che esiste un
preciso discrimine fra il comune uomo politico e lo statista,
lasciando intendere che lui – modestia a parte – era certamente
da ascriversi alla seconda categoria e non alla prima.
Ma
Giggino va compreso. Deve difendersi da Grillo, che chiaramente non
vede l’ora di gettarlo a mare. Deve difendersi da “amici” come
Di Battista, attento a ogni segnale, appollaiato su un ramo a
scrutare gli ultimi sussulti del “capo politico”. Deve difendersi
da quella parte del movimento che é sostanzialmente una
riverniciatura della sinistra piú estrema (fichi, fichetti e
fichidindia). Deve difendersi da una destra interna (Paragone &
Co)
che guarda con nostalgia all’alleanza con la Lega e lo attende al
varco sull’affare del MES. E deve difendersi soprattutto dai
parlamentari peones, i quali sanno perfettamente che la gran parte di
loro non fará mai ritorno sui banchi di Montecitorio e di Palazzo
Madama, falcidiata dal crollo verticale dei consensi ma anche dalla
riduzione del numero dei parlamentari, incautamente voluta proprio
dal Movimento 5 Stelle.
Grillo è venuto nei giorni scorsi a Roma per “blindare” Di Maio, ma a
patto che questi accettasse di non creare ostacoli sulla strada di
una collaborazione col PD che assicuri la sopravvivenza del governo.
Sembra che l’unica preoccupazione del comico genovese sia quella di
assicurare la sopravvivenza della legislatura, almeno fino alle
elezioni presidenziali del 2022. Più o meno, la stessa
preoccupazione di Renzi, quasi che entrambi obbediscano ad una comune
ispirazione celeste.
Nell’attesa,
ogni vertice di maggioranza diventa puntualmente una “notte dei
lunghi coltelli”, in un clima da basso impero, con fendenti in
tutte la direzioni e con il rischio che qualche colpo, magari
involontariamente, vada a scompigliare il paziente lavoro del
parrucchiere di Giuseppi II.
Ma
i contendenti sanno che sono ammessi tutti i colpi, tranne quelli
“proibiti”. E i colpi proibiti sono quelli che potrebbero
condurre, anche soltanto per caso, alla fine del regno di Giuseppi II
e, con esso, anche a quella della legislatura.
Che
si scambino pure coltellate e siringate di veleno, ma l’importante
é che non sia messo in pericolo l’obiettivo-principe, lo scopo
supremo di questa strana maggioranza minoritaria nel paese:
l’elezione di Romano Prodi al Colle piú alto. Accetto scommesse: é
lui il predestinato. «Vuolsi
cosí colá dove si puote ció che si vuole
– diceva padre Dante – e
piú non dimandare.»
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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