Alcuni giorni addietro, avendo appreso della decisione di Zingaretti di dimettersi da segretario del PD, sono rimasto esterefatto ed incredulo. Essendo io iscritto al PD, da parecchi anni, ed avendo a suo tempo sofferto per l'ascesa del "rottamatore", renzie, ed avendo tentato il possibile all'interno del PD per favorire un ritorno ad una politica di sinistra, fui uno di coloro che videro con favore l'ascesa di Zingaretti e la sua elezione a segretario del Partito. Purtroppo l'idillio è stato alquanto breve, ben presto mi resi conto che, con il suo atteggiamento gattopardiano, anch'egli proseguiva nel percorso di allontanamento dagli ideali che avevano contraddistinto la vera "sinistra". Il PD ormai non può più considerarsi l'erede del glorioso Partito Comunista, al massimo, e solo parzialmente, arriva a rappresentare una maschera socialdemocratica centrista.
Comunque avevo approvato (come un male minore) l'alleanza con il M5S e la formazione del governo Conte in cui, a parte le evidenti incapacità e cantonate prese da alcuni ministri, si tentava almeno di mantenersi su posizioni che non andavano troppo contro il volere "popolare".
All'improvviso, come un fulmine a ciel sereno, giunse la notizia dell'abbandono da parte di Zingaretti, ma ciò avveniva solo dopo la formazione del "governissimo" di Draghi (che univa in un abbraccio mortale il PD ed il M5S al Berlusconi ed al Salvini). La nascita del "governissimo" fu per me uno schiaffo morale al quale non posso porgere l'altra guancia e perciò ho definitivamente smesso di considerarmi un appartenente al PD. Ciò non toglie che non riesco ancora a comprendere le motivazioni dell'abbandono di Zingaretti. Ed anche la mia compagna Caterina spesso mi chiede "ma tu lo sai perché Zingaretti si è dimesso?" e cosa potevo risponderle?
Nessuna delucidazione chiara mi veniva dai comunicati del PD ed anche dai "compagni" di sezione e del Provinciale e del Regionale non giungevano risposte ma solo ambigui appelli al "restare uniti", mentre si facevano già i primi nomi di ipotetici successori. Le misteriose dimissioni di Zingaretti assomigliano tantissimo alle dimissioni di Ratzinger, avvenute senza un vero motivo, semplice "stanchezza"...?
Paolo D'Arpini
Confesso di non aver seguíto la carriera di Nicola Zingaretti sin dalle origini. Da quando, all’inizio degli anni ’90, cominció a fare politica. Qualcuno dice che, se non si fosse avvantaggiato della popolaritá del fratello Luca, “il fratello di Montalbano” sarebbe rimasto a sgomitare nelle quarte file del PDS, senza neanche sognarsi di poter diventare deputato al Parlamento Europeo (2004), presidente della Provincia di Roma (2008), presidente della Regione Lazio (2013) e, infine, segretario del Partito Democratico (2019).
Confesso di non sapere se la tesi dei detrattori di Zinga sia o meno fondata. So soltanto che, dall’indomani della sua elezione a segretario del PD, il poveretto non ha fatto altro che prendere legnate. Ha cominciato súbito con le elezioni europee dello stesso anno (-18% di voti rispetto alla volta precedente) ed ha continuato perdendo buona parte delle elezioni regionali che si sono tenute da allora (Piemonte, Umbria, Calabria, Liguria, Marche, Veneto).
Ma le batoste peggiori le ha prese nel campo – diciamo cosí – strategico. Quando il governo Conte 1 é andato in crisi (agosto 2019), l’interesse del PD sarebbe stato quello di andare súbito alle urne. Vero era che le elezioni avrebbero certamente visto la vittoria dell’asse Salvini-Meloni, ma era altrettanto vero che avrebbero probabilmente congelato la situazione a sinistra, con il PD saldamente egemone (prevedibilmente al 22-23%, contro un M5S al 16-17%) e senza il salasso della riduzione del numero dei parlamentari. Certe voci di corridoio, anzi, sostenevano che il buon Nicola si fosse segretamente accordato con Salvini per arrivare il prima possibile allo scioglimento delle Camere.
Succedeva, invece, che Zinga si allineasse ad interessi – diciamo cosí – europei. Sempre le stesse voci maliziose riferivano, in quei giorni, di forsennate pressioni sugli italiani “amici” da parte della cancelliera tedesca. La Merkel perseguiva una precisa strategia di dominio dello scenario europeo (poi sancita dall’elezione della Von der Leyen a Presidente della Commissione Europea); strategia che sarebbe andata a farsi benedire se, prima del rinnovo dei vertici UE, l’Italia si fosse data un governo poco incline ad avallare i piani germanici. Occorreva, quindi, scongiurare il pericolo di elezioni che avrebbero prodotto certamente un governo di Destra e, successivamente, l’elezione di un Presidente della Repubblica poco tenero con Berlino.
Vera o non vera che fosse questa ricostruzione, fatto sta che, improvvisamente, due personaggi particolari come Renzi e Grillo si inventavano il progetto incredibile di una nuova maggioranza fra due partiti che si detestavano vicendevolmente (Cinque Stelle e Partito Democratico), con l’unico obiettivo di non dare la parola agli elettori. E, a quel punto, il fratello di Montalbano si rimangiava tutti i magniloquenti proclami anti-grillini («colgo l’occasione per smentire per l’ennesima volta l’ipotesi di governi PD-Cinque Stelle (...) non esiste alcuna ipotesi di governo con i Cinque Stelle (...) lo diró per sempre, io mi sono perfino stancato di dire che non intendo favorire nessuna alleanza o accordo con i Cinque Stelle, li ho sconfitti due volte e non governo con loro»), archiviava frettolosamente ogni ipotesi di elezioni anticipate, e si acconciava mansuetamente a governare insieme agli odiati rivali.
E non solo questo, ma trangugiava disciplinatamente anche la designazione come premier di quello stesso “Giuseppi” Conte che aveva guidato il governo Lega-Cinque Stelle, e di fatto consegnava il PD alla strategia pentastellata. Avallava seraficamente tutte le piroette dei grillini, miranti a far credere al loro residuo elettorato che il M5S conservasse ancóra un barlume dell’antico giacobinismo anti-casta; ivi compresa una insensata riduzione del numero dei parlamentari, il cui primo risultato era la previsione di un robusto salasso di eletti piddini (e grillini).
In sostanza, la parola d’ordine zingarettiana era una e una sola: appiattimento. Appiattimento prima sull’oltranzismo filotedesco degli eurobbedienti; appiattimento poi sulle contorsioni grilline e sulla prospettiva di una alleanza strategica fra PD e Cinque Stelle; appiattimento, infine, sul Presidente del Consiglio, che Zinga incoronava addirittura come «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste», cioé come leader designato di una coalizione elettorale PD-Cinquestelle-LEU.
Tutte mosse sbagliate. Ma l’ultima soprattutto era la piú sbagliata, la piú improvvida e autolesionista, a un passo dalla istigazione al suicidio per il povero PD. Conte, infatti, mirava chiaramente a farsi un partito tutto suo o, in subordine, ad agguantare la leadership di quel che restava del M5S. Mirava cioé – nell’un caso e nell’altro – a fare concorrenza diretta al PD.
Nel PD, perció, crescevano timori e malumori. Timori e malumori che sono esplosi nei giorni scorsi, quando Giuseppi ha ripiegato sul piano B, optando per la leadership dei Cinque Stelle. A quel punto, un sondaggio ipotizzava uno scenario elettorale particolarmente nero per i democratici: la Lega saldamente al primo posto, Fratelli d’Italia e Cinquestelle+Conte in competizione per il secondo e terzo posto, e un PD dissanguato in quarta posizione.
Previsione forse sovrastimata per la coalizione grillino-giuseppina (raramente le unificazioni elettorali producono una somma dei rispettivi voti) e forse sottostimata per il PD. Ma, comunque, una previsione allarmante. I democratici lascerebbero sul terreno 6 punti percentuali (anche se i pentastellati ne recupererebbero solo 4). Sei punti offerti in grazioso omaggio alla concorrenza grillina ed al «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste».
Per tacere di tutti gli altri errori di valutazione del fratello meno sveglio di Montalbano. A cominciare dalla arcigna minaccia di elezioni anticipate nel caso di caduta del governo Conte-Arcuri-Casalino, senza aver capito che Mattarella non aveva alcuna intenzione di dare la parola agli elettori.
Alla fine, comunque, tutti i nodi sono venuti al pettine. E il povero Zinga si é ritrovato sul marciapiede, con in mano soltanto una scatoletta di Sardine.
Michele Rallo
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