L’uscita quasi inevitabile degli USA dal Trattato INF e il fallimento del Trattato di riduzione delle armi strategiche ci inducono a riflettere sul ruolo della deterrenza nucleare oggi e sulla possibile evoluzione di questo concetto. Sputnik si è occupato di studiare la questione.
Dalla corsa alle armi nucleari alla deterrenza nucleare
I primi 15 anni dell'epoca nucleare, cioè dallo sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, furono tempi in cui la guerra nucleare appariva ai suoi principali partecipanti come un processo praticamente inevitabile. In quel periodo l'accumulo di munizioni nucleari e la scoperta delle potenzialità delle armi nucleari, inclusi gli addestramenti delle truppe per l'impiego di armi nucleari negli USA e in URSS, furono parti integranti di un processo che prendeva le mosse dalla necessità di prepararsi al peggio.
In quel periodo le armi nucleari erano viste solamente come un mezzo bellico molto potente che era necessario imparare ad utilizzare. Le dichiarazioni sulle conseguenze disastrose delle armi nucleari e sulla necessità di un controllo su di esse sono state periodicamente rilasciate in diversi Paesi, ma non hanno praticamente esercitato alcuna pressione sullo sviluppo dei programmi nucleari.
Inoltre, gli USA in quel periodo consideravano le armi nucleari come un mezzo per l'attuazione della dottrina della "rappresaglia massiccia", che presupponeva un attacco nucleare contro l'URSS in risposta a una sua ipotetica invasione in Europa occidentale.
A sua volta, l'URSS, il cui arsenale nucleare nella prima metà degli anni '50 praticamente non poteva essere impiegato contro gli USA vista la mancanza di vettori di raggio sufficiente, cominciò a sviluppare programmi simili in patria basandosi sulla convinzione che fosse inevitabile uno scontro con gli USA e la NATO. Infatti, la loro supremazia nucleare grazie alle truppe americane dispiegate in Europa avrebbe permesso loro di attaccare per primi.
In quel periodo un ruolo importante lo svolse l'impiego attivo da parte dell'URSS della mimetizzazione strategica: nella seconda metà degli anni '50, quando gli USA già si erano dotati di una flotta di bombardieri intercontinentali in grado di raggiungere i territori sovietici a partire dalle basi aeronautiche statunitensi negli USA, Washington sopravvalutò le potenzialità dell'aeronautica strategica sovietica supponendo che fosse di diverse volte maggiore rispetto alle sue dimensioni reali. Più tardi questo errore venne effettuato da Washington riguardo al potenziale dell'arsenale missilistico sovietico durante la Crisi dei missili di Cuba: infatti, gli USA credevano che il proprio arsenale fosse molto più rifornito e potente di quanto in realtà non fosse.
La creazione di vettori intercontinentali per le armi nucleari fu il primo motivo per cominciare a riflettere sul possibile esito di uno scontro fra URSS e USA. La Crisi dei missili di Cuba del 1962 permise a entrambe le parti (in particolare USA e URSS, la quale si trovava nel mirino delle armi nucleari dispiegate in Europa e nei mari dell'Eurasia) di rendersi conto degli esiti catastrofici di un possibile scontro e della necessità di mutare il proprio approccio al nuovo strumento bellico.
Il primo segnale documentato di tale mutamento fu la sottoscrizione nel 1963 del Trattato sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari nell'atmosfera, nello spazio cosmico e negli spazi subacquei. Cinque anni dopo seguì il Trattato di non proliferazione nucleare.
Il concetto di deterrenza nucleare riportò la discussione riguardo al problema più sul piano psicologico e filosofico creando la dottrina della distruzione garantita reciproca.
Secondo tale dottrina gli immensi arsenali nucleari dei Paesi rivali avrebbero creato una situazione di cosiddetta parità nucleare: nessuna delle parti, cioè, avrebbe potuto attaccare l'altra senza rischiare di ricevere una risposta armata che avrebbe causato la propria distruzione.
La dottrina si basa su semplicissimi presupposti logici.
© AP PHOTO / CHARLIE RIEDEL
1. Il primo colpo proveniente da uno dei Paesi nuclearizzati contro un proprio avversario con potenzialità strategiche simili deve essere indirizzato innanzitutto contro le sue basi militari al fine di ridurne il potenziale bellico e idealmente raggiungere una supremazia schiacciante che lo porterebbe alla vittoria.
2. L'enorme e diversificato arsenale nucleare accumulato dal nemico (triade nucleare), tuttavia, non può di certo essere distrutto in un solo colpo, anche se molto potente, e una risposta diventa, quindi, inevitabile.
3. In tal caso l'obiettivo della risposta saranno molto probabilmente non gli arsenali nucleari del Paese che per primo ha attaccato, ma la popolazione civile concentrata in luoghi prevalentemente industriali, il che significa un attacco inaccettabile che priverebbe di significato la guerra stessa.
4. Si continuerebbe lo scambiо di attacchi reciproci grazie ai missili rimasti in arsenale e, infine, si arriverebbe a un insieme di danni inaccettabili per entrambe le parti.
5. Il rifiuto unilaterale dalle armi nucleari e dal loro impiego in determinati contesti non porterebbe tuttavia alla riduzione della probabilità di una guerra. Anzi, ne aumenterebbe il rischio perché permetterebbe al potenziale aggressore di fare affidamento sulla mancata risposta dell'avversario.
6. La stessa logica ha determinato la corsa agli armamenti: un rifiuto unilaterale in tal senso porterebbe ad esiti potenzialmente catastrofici.
Questa dottrina ha una serie di difetti che sono stati discussi ampiamente dagli esperti, ma per mancanza di migliori alternative ha continuato ad essere applicata costringendo le parti ad evitare una possibile ripetizione del conflitto in stile Guerra dei missili di Cuba.
Tentativi di limitazione
I tentativi di ricerca di una via d'uscita dalla distruzione reciproca garantita cominciarono già prima della creazione di questa dottrina. Alla fine degli anni '50 negli USA fu proposto il concetto di guerra nucleare limitata che presupponeva l'impiego di un piccolo numero di munizioni tattiche in contesti limitati: dal contenimento delle perdite delle proprie truppe in una guerra convenzionale all'intimidazione del nemico.
In seguito fu avanzato il concetto di reazione flessibile, ovvero che permette l'impiego di armi nucleari in un conflitto locale.
Idee simili per un po' di tempo furono considerate anche in URSS in cui l'impiego di armi nucleari tattiche da entrambe le parti era visto come inevitabile in caso di una guerra in Europa. Tuttavia, in seguito prevalse la visione per cui un impiego limitato di armi nucleari avrebbe comunque portato inevitabilmente a una escalation.
Infine, il concetto di guerra limitata non ha funzionato: in mancanza di qualsiasi garanzia da una futura escalation del conflitto il passaggio a una guerra nucleare su larga scala era considerato praticamente inevitabile e il fantasma della distruzione reciproca garantita riprese vigore.
Verso al fine degli anni '60 gli USA e l'URSS si resero conto che, visti la formazione in entrambe le parti coinvolte di una triade nucleare sviluppata e i vettori principali in loro possesso, era fondamentalmente esclusa la possibilità di un primo attacco disarmante.
La storia ha portato l'uomo a rendersi conto della necessità di inquadrare in qualche modo la corsa agli armamenti nucleari. Dunque, sono stati conclusi vari trattati: Trattato anti missili balistici (ABM), Trattato per la limitazione degli armamenti strategici (SALT-I, -II), Trattato sulle forze nucleari a medio raggio (INF) e infine il Trattato di riduzione delle armi strategiche (START).
Armi che non verranno impiegate
Una nuova fase nei rapporti con le armi nucleari cominciò dopo la caduta dell'URSS. Nella Russia degli anni '90 l'arsenale nucleare era più che altro un attributo che segnalava l'appartenenza al circolo delle grandi nazioni e una garanzia d'accesso a rapporti privilegiati con gli USA. Negli USA, invece, lo si considerava un vecchio relitto della guerra fredda non più necessario. La grande macchina militare statunitense agiva con sempre maggiore sicurezza all'estero senza incontrare il benché minimo rischio di escalation del conflitto grazie all'aiuto dell'ennesimo "Paese-bersaglio" da parte di Mosca e grazie al conseguente probabile scontro diretto con il "potenziale nemico".
In quel periodo in Occidente le armi nucleari cominciarono gradualmente ad essere considerate "un mezzo che mai sarà impiegato" e il concetto stesso di contenimento nucleare apparve sempre più obsoleto.
A sostituire questo concetto se ne inserirono due nuovi: il concetto di deterrenza non nucleare, in seguito trasformatosi nel programma Prompt Global Strike (PGS: attacco rapido globale), e il concetto di difesa antimissilistica nazionale, volto a difendere il territorio degli USA da possibili e limitati attacchi nucleari da parte di altri Paesi "giovani" e fuorilegge del club nucleare (innanzitutto l'Iran e la Corea del Nord).
Nei confronti della Russia gli USA pensavano di continuare a ridurre gli arsenali strategici, "ma in tal senso qualcosa non è andato per il verso giusto".
La crisi del periodo di transizione
La crisi dei rapporti tra Russia e l'Occidente viene fatta iniziare in momenti diversi: c'è chi la fa iniziare dal discorso di Putin a Monaco, chi dagli eventi in Libia del 2011 e dal conseguente scoppio della guerra in Siria, chi dai fatti della Crimea del 2014. Tuttavia, in realtà la vera rivoluzione nei rapporti con l'Occidente di buona parte dei dirigenti russi si è verificata a cavallo tra gli anni '90 e 2000 ed è stata scatenata da diversi fattori: l'aggressione degli USA e dei loro alleati nei Balcani, l'annessione alla NATO degli ex Paesi dell'Europa orientale e delle Repubbliche Baltiche, la politica condotta in Ucraina e in altre repubbliche post-sovietiche per allontanare Mosca dalle posizioni da essa assunte e, infine, per farla uscire dal Trattato anti missili balistici. Tutti questi fattori sono stati accompagnati dai continui tentativi dei Paesi occidentali di intromettersi nella politica interna russa.
© SPUTNIK . VLADIMIR FEDORENKO
Il lancio del missile balistico intercontinentale RS-20 Voyevoda (SS-18 Satan)
In tali condizioni, considerata la significativa riduzione delle possibilità delle forze armate russe ordinarie, la parità nucleare fino ad allora conservatasi cominciò ad essere considerata l'unica garanzia che non si ripetesse il destino della Jugoslavia.
A loro volta, le proposte di una ulteriore riduzione degli arsenali nucleari, visto l'incremento di mezzi strategici non nucleari e di sistemi antibalistici, minacciavano l'insorgere in futuro di una situazione in cui un primo attacco senza risposta sarebbe diventato possibile nel caso in cui sistemi strategici non nucleari non regolamentati da alcun trattato uniti all'arsenale nucleare ordinario degli USA fossero stati impiegati per la distruzione dell'arsenale nucleare russo. Infatti, in questo caso i mezzi "superstiti" sarebbero stati troppo pochi per rispondere in modo efficace.
Questo punto di vista ha i suoi sostenitori e i suoi detrattori: in particolare, Vladimir Dvorkin, esperto del centro di sicurezza internazionale presso l'Istituto di Economia globale e di Relazioni internazionali di Mosca, nonché ex direttore del quarto Centro statale per la robotica e la cibernetica presso il Ministero della Difesa e maggior generale in pensione, sostiene che alle condizioni attuali sarebbe inaccettabile anche lo scoppio di una potente carica esplosiva in una grande città.
Inoltre, Dvorkin che è parte attiva del corpo diplomatico-militare russo ha osservato che un punto di vista simile, quantunque meriti rispetto, non si può basare su alcun progetto di pianificazione nucleare.
"Il problema risiede nelle discrepanze esistenti tra desideri e possibilità. Da un lato, sì, teoricamente lo scoppio di anche solo una potente carica esplosiva in un momento in cui la vita umana ha un grande valore sarebbe terribile e inaccettabile. Inoltre, le parti continuano a partire dal presupposto che danni inaccettabili portino come minimo all'incapacità dell'avversario di continuare la guerra e, nel peggiore dei casi, all'incapacità di garantire la sopravvivenza di una società umana civilizzata e contemporanea all'interno dei suoi confini", ha osservato Dvorkin.
Nel corso degli ultimi 15 anni Mosca ha più volte tentato di dialogare con Washington riguardo allo sviluppo dei sistemi antibalistici e dei mezzi strategici non nucleari, ma non è stato raggiunto alcun risultato significativo: infatti, tale non può di certo essere considerata la menzione dell'interdipendenza degli armamenti strategici di difesa e di attacco nel preambolo del New START.
Uno dei risultati dell'attuale situazione è il passaggio di Mosca verso una deterrenza nucleare più ampia sancita nella dottrina militare nazionale e che permette l'impiego di armi nucleari in caso di un conflitto non nucleare che minaccia l'esistenza della nazione.
Un altro risultato è stato lo sviluppo in Russia di mezzi propri dei quali non si tiene conto nell'ambito degli accordi esistenti relativamente alla riduzione degli arsenali nucleari.
In particolare, si tratta di sistemi dotati di impianti ad ultrasuoni che non vengono riconosciuti dai missili balistici, dai sottomarini senza pilota Status-6 e da altri mezzi.
I problemi del Trattato INF in tale contesto appaiono secondari proprio come a suo tempo apparivano secondarie le questioni relative all'impiego di armi nucleari in Europa rispetto alla probabilità di uno scambio strategico di attacchi tra USA e URSS.
Punto di non ritorno
Parlare del ritorno all'architettura tradizionale della deterrenza nucleare con una distruzione reciproca assicurata, tuttavia, non è più possibile. Il problema è nuovamente psicologico: passata la generazione di politici per i quali la deterrenza nucleare era la realtà dei fatti imposta dalla Seconda guerra mondiale che loro stessi avevano vissuto sulla propria pelle o comunque a livello inconscio, la dottrina della deterrenza, prima assiomatica, smette di essere tale.
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L'esempio più lampante della mancata comprensione del presente è che si continuano a sviluppare mezzi strategici non nucleari e sistemi antibalistici. Come già detto, dal punto di vista della pianificazione bellica classica questo può portare a una situazione in cui un attacco disarmante può diventare verosimile o perlomeno così viene considerato.
Considerati l'attuale situazione anomala del dialogo tra Russia e USA sulla maggior parte delle questioni strategiche, la presenza di una serie di settori dove il conflitto di interesse fra i due Paesi è molto accentuato e il ritorno della "questione russa" nella politica interna americana, la situazione non infonde ottimismo.
L'ottimismo si riduce ulteriormente se si considera che l'esperienza "russa" in Occidente oggi è in larga misura ideologizzata e basata sui messaggi veicolati dai giornalisti corrispondenti esteri, la cui pessima preparazione riguardo alle reali capacità belliche russe si scontra con i loro preconcetti sulla Russia in generale. Ci sono eccezioni, molti esperti riconoscono determinati problemi, ma a livello decisionale questa consapevolezza stenta a venir fuori. "Anche da noi non amano documenti politicamente scomodi", ha affermato uno degli esperti americani sulla Russia.
© SPUTNIK .
I test del missile intercontinentale russo Sarmat
Questa situazione si è già verificata in passato. Ad esempio, negli anni '30 gli "esperti" tedeschi sull'URSS non brillavano per la qualità delle informazioni che trasmettevano.
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