Schengen è un piccolo paesino, posto all’estremo sud-orientale del minuscolo Granducato del Lussemburgo. La sua esistenza – probabilmente – sarebbe oggi nota solamente agli specialisti di geografia del Benelux, se non fosse stato per un piccolo particolare, di quelli che una volta si chiamavano “accidenti della storia”: il convegno tenutovi, in un lontano giorno del 1985, fra i rappresentanti dei governi di Germania occidentale, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo, e l’accordo (detto appunto di Schengen) raggiunto in materia di “eliminazione graduale dei controlli” alle frontiere comuni fra i cinque Stati interessati; con l’obiettivo finale di costituire un’area comune di libera circolazione per uomini e merci. Obiettivo presto raggiunto, e codificato nel 1990 in un vero e solenne trattato internazionale – la Convenzione di Schengen – cui aderivano successivamente anche Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia; ma non l’Inghilterra.
Nel frattempo – nel 1992 – era nata l’Unione Europea, che nel 1999 recepiva la Convenzione e la acquisiva al proprio apparato istituzionale (Trattato di Amsterdam). Da quel momento, gli Stati che aderivano all’Unione aderivano automaticamente anche alle disposizioni della Convenzione di Schengen, ed erano quindi tenuti ad abolire i controlli alle frontiere “interne” ed a consentire la libera circolazione di persone e cose (e denari) all’interno dello “spazio Schengen”.
E non era tutto: perché – nella foia di ampliare a dismisura i confini di questa pseudo-Europa senza frontiere – i burocrati di Bruxelles concepivano l’allargamento dello “spazio” anche ad altri Paesi esterni all’Unione, che volessero accettare i dettami di Schengen. Era il caso – fra gli altri – della Svizzera, il cui governo aderiva nel 2008, ma che nel 2014 era costretto a fare precipitosamente marcia indietro; e ciò per l’esito del referendum popolare che aveva bocciato il libero attraversamento dei confini elvetici (vedi «Chi ha paura del referendum svizzero?» su “Social” del 21/2/14).
Quello elvetico era probabilmente il primo campanello d’allarme, anche se proveniente da un Paese estraneo all’Unione. Ma si preferiva ignorarlo, liquidandolo come un “referendum razzista”, da archiviare il più in fretta possibile insieme agli altri fastidiosi episodi di “populismo” anti-UE. La cupola europea continuava a far finta di nulla, ligia alle disposizioni che, dall’altra sponda dell’Atlantico, ordinavano che l’Europa finisse di essere “fortezza” e si aprisse al mondo: prima agli immigrati, che dovevano alterarne l’identità fisica e culturale; e subito dopo – beninteso – al trattato coloniale di libero scambio (il famigerato TTIP) che in un futuro prossimo dovrebbe distruggere i suoi ultimi scampoli di benessere.
Si è andati avanti così per un annetto, fra una giaculatoria di Papa Bergolio e i moccoli del giornalismo buonista, mentre l’ISIS ammassava in Libia un milione di “rifugiati” africani, che poi scaglionava nelle quotidiane spedizioni verso le coste siciliane, brillantemente collaborata dalle missioni di soccorso d’ispirazione vaticana (l’italiana “Mare Nostrum” e l’europea “Triton”). Si poteva far finta di nulla, perché quei fessi di italiani accoglievano i migranti che si proclamavano “rifugiati” (cioè tutti), li ospitavano spensieratamente per un annetto, e poi facevano finta di credere che si trattasse veramente di emaciati esuli politici e non di baldi giovani in cerca di fortuna.
A un certo punto, però, il meccanismo si è inceppato. Ciò è accaduto nell’autunno scorso, quando dalla Turchia di Erdoğan sono cominciati a partire contingenti sempre più folti di profughi siriani e di migranti economici di varie nazionalità asiatiche (ma con passaporto “siriano” made in Turkey) diretti – attraverso la Grecia e i Balcani – in Germania e nell’Europa settentrionale (vedi «Signori, l’invasione è servita» su “Social” dell’11/9/2015). Mentre i Paesi esteuropei, uno dopo l’altro, iniziavano ad alzare i loro bravi muri e mentre l’Inghilterra blindava il passo di Calais, la signora Merkel – improvvisamente e misteriosamente convertita al buonismo – apriva le porte della Germania ai profughi veri e falsi. Malgrado la mancia miliardaria promessa ai turchi per arginare l’esodo, in breve fiumi di migranti si riversavano sulle strade dei Balcani, inneggiando alla Kanzlerin ed alla sua magnanimità. Imbarazzati, i Paesi del Nordeuropa e dell’area germanica si allineavano disciplinatamente alla capofila, e si dichiaravano pronti ad ospitare quanti più immigrati possibile.
Ma questa disponibilità è durata lo spazio d’un mattino. Perché, sommersi da una vera e propria invasione, anche i nordici hanno alzato i loro bravi muri. Muri non materiali, non di mattoni, ma non per questo meno difficili da superare. Le loro barriere si chiamano pudicamente “controlli alle frontiere interne”, ma suonano comunque come un de profundis per le utopistiche regole di Schenghen. Alla fine, anche la Merkel ha dovuto fare una imbarazzante retromarcia e si è di fatto convertita alla causa dei controlli alle frontiere. Con il cerino in mano sono rimaste soltanto l’Italia di Renzi e la Grecia del convertito Tsipras, piene zeppe di immigrati che nessun altro è più disposto ad accogliere.
Ecco perché il Vispo Tereso si agita tanto e va dicendo che, se si archivia Schengen, l’Europa finisce. Perché sa benissimo – il tapino – che bloccare la “libera circolazione” nell’Unione Europea (anche soltanto per due anni, come da taluno proposto) significherebbe condannare l’Italia a tenersi per sempre quell’esercito di “rifugiati” che per ora si accontenta di bivaccare nei centri di accoglienza, ospitati, nutriti, vestiti e stipendiati con fondi in larga parte europei. Ma cosa succederà quando sarà passato il periodo previsto per l’esame delle richieste d’asilo e dall’UE non arriveranno più i contributi? Cosa succederà se, sospesa “provvisoriamente” Schengen, i “rifugiati” non potranno uscire dall’Italia? Come fare per rimpatriare l’esercito dei non aventi diritto all’asilo, senza affrontare rivolte e disordini di ampie proporzioni? E, se non si sarà in grado di rimpatriarli, come gestire centinaia di migliaia di nerboruti giovanotti che, in un modo o nell’altro, dovranno procurarsi il necessario per campare?
Ecco perché il Bulletto dell’Arno – insieme al Topolino del Pireo – si agita tanto. Sa benissimo che dalla sopravvivenza di Schengen dipende anche la sua personale sopravvivenza politica.
Michele Rallo – ralmiche@gmail.com
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