Ci
sono dei dogmi mediatici, dettati dalla finanza internazionale e
veicolati dalla grande stampa, posseduta – guarda caso – dalla
finanza internazionale. Questi dogmi riguardano certi eventi-chiave,
gabellati come fenomeni epocali, cui non é possibile opporsi.
Perché? Perché sarebbero eventi ineluttabili, che non possono
essere fermati, ma soltanto “governati”, rassegnandosi a
convivere comunque con essi ed a subirne le nefaste conseguenze.
Ma vi é un altro fattore che ci viene
descritto come inevitabile, inarrestabile, irresistibile,
incontenibile, irrefrenabile, ineluttabile, ineludibile, e chi piú
ne ha piú ne metta. Questo fattore é la globalizzazione economica,
con il corollario di tutte le sue logiche conseguenze: massacro
sociale, disoccupazione, pensioni da fame, fine delle tutele e, in
sintesi, drastico ridimensionamento del modello sociale europeo.
Ogni
tanto, qualche episodio clamoroso viene a sottolineare degli aspetti
paradossali di questa infame camicia di forza con cui si vuole
imprigionare la vitalitá economica delle popolazioni europee. Ultimo
caso della specie è quello dei pastori sardi (e non solo sardi), cui
le industrie casearie offrono per un litro di latte 60 centesimi,
cifra che non copre neanche i costi di produzione.
Né
si creda che il fatto sia originato dalla ingordigia degli
industriali del settore, che vogliano ottenere guadagni maggiori a
spese dei produttori di latte. Gli industriali caseari, infatti, sono a loro
volta strozzati dal “mercato globale”, con guadagni ridotti
all’osso, costretti per sopravvivere ad acquistare il latte da chi
lo vende a prezzi stracciati. E chi pratica prezzi migliori –
statene certi – non possono essere i produttori italiani, gravati
da spese vive e da óneri burocratici e fiscali che sono quattro
volte superiori a quelli della maggior parte dei paesi del mondo.
La
conseguenza è logica: o i pastori vendono a prezzi “cinesi”, o
gli industriali dovranno comprare il latte dai cinesi (o dagli
indiani, o dai turchi, o dai brasiliani, e via di séguito).
Lo
stesso dicasi per tutte le altre nostre produzioni agroalimentari,
peraltro di grandissimo pregio. Oramai i prezzi offerti ai produttori
italiani sono pericolosamente vicini ai limiti di sopravvivenza;
mentre sempre piú spesso l’industria di trasformazione é
costretta a ricorrere al grano canadese o all’olio nordafricano o
ad altri prodotti a basso costo che, il piú delle volte, sono di
qualitá assai scadente.
Orbene,
tutto questo ci viene dipinto come un fatto acquisito, come una
realtá cui non ci si puó sottrarre, con cui si deve convivere
forzatamente; come se la nostra societá avesse contratto una brutta
malattia, di quelle da cui non è possibile guarire e di cui, tutt’al
piú, si possono combattere alcuni sintomi secondari con qualche
medicina.
Non è cosí. Non è affatto cosí. La globalizzazione economica si puó
semplicemente respingere, rifiutare. Esattamente come l’invasione
migratoria.
E
per farlo non è necessario tornare ai tempi dell’autarchia. Basta
ritornare gradualmente, prudentemente, saggiamente agli assetti
economico-finanziari di non molti anni fa, prima che i poteri
fortissimi della finanza usuraia tentassero di dare la spallata
finale agli equilibri del globo e di assumere in prima persona il
governo del mondo intero.
Naturalmente,
una svolta di tale portata sarebbe possibile solo a patto che vi
fosse un personale politico all’altezza della situazione. Non
soltanto capace di una autonoma elaborazione politica, ma anche
libero dai condizionamenti (e dai finanziamenti) di certe fondazioni
“benefiche”, di certe lobby “filantropiche” che sono la longa
manus
dei poteri che vogliono dominare il mondo.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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