Nel programma elettorale di Donald Trump compariva in origine il proseguimento dell'assistenza militare al regime di Kiev, ma prima della convention repubblicana di Cleveland quella voce è stata cancellata.
L'orientamento relativamente pacifista (comparandolo a quello della rivale Killarykiller) del candidato repubblicano si è manifestato anche nella condanna delle guerre contro Irak e Libia, nonché nel progetto di amicizia e cooperazione con la Russia, ma non è dovuto tanto a posizioni ideologiche quanto piuttosto pragmatiche.
Esiste infatti una consistente ostilità della popolazione, e in particolare tra i repubblicani, al forte costo prolungato delle politiche di guerra imperiale, che comportano onerose tassazioni interne, giustamente vissute dalla gente comune come improduttive e lesive del benessere sociale (i forti profitti delle corporations di guerra favoriscono solo un ristretto ambito della popolazione).
A riprova di ciò, da molto tempo su internet le pagine propagandistiche di molti senatori repubblicani (in modo particolare Rand Paul) includono discussioni, proposte e progetti sul disimpegno militare internazionale con l'orientamento di spendere piuttosto i soldi pubblici nel miglioramento delle condizioni di vita interne al paese.
Il problema non è nuovo, ed ha anzi un precedente nell'era Nixon, quando nonostante le resistenze personali del presidente ("Non voglio essere il primo presidente degli Stati Uniti che abbia perso una guerra!") l'impopolarità delle tasse necessarie al sempre più costoso conflitto in Indocina costrinsero l'amministrazione ad uscire dalla disavventura militare vietnamita.
I politici americani devono render conto al complesso finanziario, militare e industriale, ma anche agli elettori, e il conservatorismo repubblicano è tradizionalmente sensibile all'idea di contenimento delle tassazioni come a quella di maggiore isolazionismo e disimpegno internazionale.
E' triste sapere che in ultima analisi le vicissitudini delle politiche di conflitto o distensione dipendano fortemente da ragioni di portafoglio, ma di fatto esse fanno più presa sull'elettorato medio statunitense che non le astratte questioni di principio etico.
Considerato che Trump si è addirittura dichiarato disponibile alla reintroduzione del Glass Steagal Act sulla separazione tra istituti di credito e di investimento, a difesa del cittadino comune contro l'avidità dei grossi gruppi finanziari, è possibile che la lunga crisi economica moltiplicatasi in intensità con il crak del 2007 stia lentamente cambiando il panorama politico degli States.
Sanders, pur avendo fallito l'obiettivo, ha comunque dimostrato, raccogliendo più consenso del previsto, che gran parte dell'elettorato è sensibile ai problemi economici e sociali interni (anche se poi la sua forza sembra essere andata in gran parte sprecata entro il partito democratico). Pur in modo diverso, anche l'elettorato repubblicano è sensibile agli stessi temi.
E l'isteria militarista della sciagurata Killarykiller potrebbe giocarle brutti scherzi in termini elettorali. "Esportare democrazia" oltre che essere in illogico immorale, costa, e molta gente ne è ampiamente stufa.
Oliver Stone ha dichiarato pubblicamente che il militarismo dell'attuale classe dirigente statunitense è un grave problema per il mondo intero, e Michael Moore ritiene che proprio per questo Trump batterà K.hillary.
Vincenzo Zamboni
“Avevo già espresso il mio parare riguardo alla competizione fra Hillary e Donald http://paolodarpini.blogspot.it/2016/02/usa-dalla-padella-trump-alla-brace.html -. E non ho cambiato opinione. E' sostanzialmente un gioco delle parti per far prevalere una serie di interessi finanziari sull'altra. Per fortuna non siamo chiamati a votare, la nostra condizione di “colonizzati” non ce lo consente. Possiamo solo ubbidire chi andrà al comando. Però, secondo la teoria del meno peggio, ho la sensazione che Trump vincerà (a meno che non lo facciano secco prima del voto o dopo qualche mese di presidenza) e questo porterà radicali cambiamenti anche nella colonia Italia...” (Paolo D'Arpini)
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