Questi articoli che seguono sono anteriori al golpe (vero o confezionato ad arte) che ha offerto ad Erdoğan il pretesto per sradicare con incredibile brutalità ogni manifestazione di dissenso.
Ancòra una volta, unisco storia e attualità per tracciare il profilo di un Paese. Con una sottolineatura d’ordine politico: la Turchia (a parte alcuni aspetti della breve parentesi kemalista) è Asia e non Europa; ed ogni progetto per associarla a questa pur traballante Unione Europea è un atto di folle autolesionismo politico.
Michele Rallo
SOMMARIO
- Premessa:
Prima
del golpe 05
- Vita e morte dell’Impero Ottomano
(“La
Risacca”, dicembre 2015) 07
- Mustafà Kemal:
un
cospiratore europeo nella Turchia asiatica
(“La
Risacca”, gennaio 2016) 13
- L’Impero in liquidazione e la nascita della Repubblica
(“La
Risacca”, febbraio 2016) 19
- La rivoluzione laica di Kemal Atatürk
(“La
Risacca”, marzo 2016) 29
- Il tradimento della rivoluzione laica
(“La
Risacca”, aprile 2016) 37
Venti
di guerra
(“Social”,
4 dicembre 2015) 43
“Mamma,
li turchi”
(“Social”,
25 marzo 2016) 47
Rievocazioni
di
Michele Rallo
TURCHIA:
UN REBUS
AI
CONFINI DELL’EUROPA
1a
parte:
VITA
E MORTE
DELL’IMPERO
OTTOMANO
[da
“La Risacca”, dicembre 2015]
Se c’è un Paese
che ha svolto e svolge un ruolo-chiave nella sequela delle tragiche
vicende che negli ultimi anni si susseguono al crocevia fra Europa,
Russia e mondo islamico, questo Paese è la Turchia. La Turchia di
oggi, beninteso. La Turchia del simildittatore Recep Erdoğan,
Presidente della Repubblica e capo dell’AKP, il partito islamico
“moderato” che vuole distruggere le fondamenta laiche dello Stato
creato da Kemal Atatürk e riportare il Paese indietro di un secolo,
all’epoca dell’Impero Ottomano.
Corsi e ricorsi
storici, diceva Vico. In effetti, mai come nel caso della Turchia gli
eventi sembrano ripetersi, quasi come un minaccioso “amarcord”
levantino. E non mi riferisco soltanto all’inquietante politica
interna di quel Paese, ma anche al suo forsennato attivismo in
politica estera, alla sua funzione di “porta” che consente ai
guerriglieri jihadisti di giungere in Siria o nel Caucaso russo, al
padrinaggio di vari governi islamisti “moderati” post-primavere
arabe: in particolare al deposto gabinetto dei Fratelli Musulmani in
Egitto, e ad uno dei due governi che attualmente [dicembre 2015] si
contendono il potere in Libia. Non è un caso che l’Impero Ottomano
abbia da sempre conteso alla Russia il dominio sul Caucaso e sul Mar
Nero; così come non è un caso che Siria, Egitto e Libia siano state
– fino a cent’anni fa – delle province di quello stesso Impero.
Certo, è difficile
condensare in poche righe una delle pagine più complesse della
storia europea, ma ci proverò; chiedendo fin d’ora scusa per
qualche necessaria semplificazione. Dunque, l’Impero Ottomano
nasceva nel lontano 1299 nella penisola anatolica, la patria
dell’etnìa turca che gli europei chiamavano “Asia Minore”. Nei
secoli successivi si espandeva su tutti e tre i Continenti del mondo
allora conosciuto (fino all’apogeo, toccato con il regno di
Solimano il Magnifico): in Europa acquisiva i territori dell’Impero
Bizantino e andava oltre, spingendosi a nord fino all’Ungheria e ad
est fino alla Russia meridionale e al Mar Nero; in Asia arrivava alla
riva occidentale del Mar Caspio e a sud inglobava la Mesopotamia e le
rive del Mar Rosso, giù giù fino alla Mecca; in Africa, infine,
prendeva quasi tutta la parte settentrionale del continente,
dall’Egitto all’Algeria.
Come tutti gli
Imperi, anche l’ottomano aveva necessariamente una
caratterizzazione multietnica e multiculturale, ma la sua identità
reale era quella del popolo egemone, il turco. Questo, a sua volta,
era stato prima soggiogato da un altro popolo, l’arabo, che si era
poi ritirato, non senza averlo però colonizzato culturalmente. Due i
segni tangibili di tale colonizzazione: la religione musulmana e le
forti influenze linguistiche. Fin dai suoi primi anni di vita, così,
l’Impero Ottomano veniva gradualmente ad assumere un ruolo
internazionale complementare a quello del Califfato arabo degli
Abbasidi e, quando questo nel 1517 si sgretolava, ne prendeva il
posto. L’imperatore turco – il Sultano
– assumeva anche il titolo religioso di Califfo,
cioè di “successore
di Maometto” alla
guida – teoricamente – dell’intero mondo islamico.
Naturalmente, la
stessa articolazione antropologica dell’Impero obbligava le
istituzioni sultanali-califfali ad essere abbastanza tolleranti. Ma
si trattava di una tolleranza molto relativa: le specificità
etnico-culturali esistevano e non si potevano cancellare, ma avevano
piena agibilità solo nella misura in cui non mettessero in pericolo
l’identità della società ottomana, che era e restava turca,
musulmana e tributaria della cultura araba.
Quando
nell’Ottocento i popoli sottomessi prendevano gradualmente
coscienza della propria identità nazionale, l’Impero iniziava a
perdere pezzi, anche perché alcune “grandi potenze” europee si
facevano un dovere di soffiare sul fuoco dei separatismi. I primi ad
andarsene erano i greci, nel 1830, dopo una lunga e sanguinosa guerra
d’indipendenza, che
peraltro avrà numerose appendici fino alla vigilia della prima
guerra mondiale. Idem
per Romania, Serbia e Montenegro nel 1878, mentre Cipro passava
“provvisoriamente” al protettorato dell’Inghilterra; la quale,
nel 1883, si prendeva anche l’Egitto, sempre “provvisoriamente”.
Nel 1908 il vassallo principato di Bulgaria si dichiarava pienamente
indipendente, e contemporaneamente l’Austria si annetteva un altro
spicchio del dominio balcanico, la Bosnia-Erzegovina. Il tutto,
inframmezzato da tre guerre
russo-turche
(1828-29, 1853-56, 1877-78), da una guerra
greco-turca (1897) e
da una lunga serie di conflitti civili in Macedonia e a Creta (ma
anche nelle isole minori dell’Egeo, in Epiro e in Erzegovina).
Frattanto, anche la
Francia aveva fatto la sua parte, prendendosi l’Algeria (1830) e la
Tunisia (1882).
A conclusione della
guerra italo-turca
(1911-12) pure l’Italia – ultima arrivata nel “concerto”
delle grandi potenze – dava il suo contributo alla dissoluzione
dell’Impero Ottomano, conquistando Tripolitania e Cirenaica (cioè
la Libia) e l’arcipelago egeo del Dodecanneso.
Infine, con il
riassetto seguìto alle due guerre
balcaniche (1912-13),
anche l’Albania raggiungeva l’indipendenza; la Grecia si
annetteva la Tracia occidentale, la Macedonia meridionale, Creta e
quasi tutte le isole minori dell’Egeo; la Serbia inglobava la
Macedonia settentrionale, il Sangiaccato (spartito col Montenegro) e
il Kosovo. L’Impero Ottomano era, così, quasi completamente
espulso dall’Europa, riuscendo a conservare soltanto la Tracia
orientale.
Neanche il tempo di
tirare il fiato che, l’anno seguente, iniziava la prima
guerra mondiale. Gli
ottomani vi si gettavano a capofitto, ma scegliendo la parte che
risulterà poi perdente. Il conto sarà salatissimo. L’armistizio
di Mudros (30 ottobre 1918) stabiliva – fra l’altro – il ritiro
della Turchia da tutti i suoi possedimenti extra-anatolici e la
completa “liberazione” degli Stretti. La Grecia occupava gran
parte della Tracia orientale, fino alla linea di Ciatalgia, a soli 50
chilometri dalla capitale imperiale Costantinopoli (che i turchi
chiamavano Istanbul). L’unicum
formato da Costantinopoli e dalle rive degli Stretti (compresa
l’asiatica) era provvisoriamente occupato dall’Inghilterra, che
covava il proposito di installarvisi permanentemente.
Quanto ai
possedimenti asiatici (quelli africani erano già spariti da tempo),
passavano direttamente all’Intesa o – meglio – all’Inghilterra;
qualche briciola alla Francia, e niente all’Italia. E non finiva
lì, perché i vincitori si ritagliavano ampie “zone d’interessi”
nella stessa penisola anatolica, oltre ad incoraggiare la nascita di
una Grande Armenia e di un Kurdistan indipendente che avrebbero
dovuto (ma non sarà così) espandersi ai confini orientali
dell’Anatolia.
In sintesi: non
solo l’Impero Ottomano era scomparso, ma la stessa Turchia sembrava
destinata ad essere cancellata dalla carta geografica. Se ciò non
avverrà, lo si dovrà soltanto ad un uomo: il generale Mustafà
Kemal Atatürk, padre di una Turchia che egli sognava laica e
liberata dalle influenze asiatiche dell’arabismo: l’esatto
contrario della Turchia di oggi.
Rievocazioni
di
Michele Rallo
TURCHIA:
UN REBUS
AI
CONFINI DELL’EUROPA
2a
parte:
MUSTAFÀ
KEMAL:
UN
COSPIRATORE EUROPEO
NELLA
TURCHIA ASIATICA
[da
“La Risacca”, gennaio 2016]
In origine, la
vicenda politica di Mustafà Kemal (il futuro Atatürk) coincideva
quasi con quella del cosiddetto Movimento
dei Giovani Turchi. I
Giovani Turchi erano – all’epoca – una sorta di gruppo di
pressione, nato nelle province balcaniche dell’Impero Ottomano con
una netta impronta riformista, se non addirittura rivoluzionaria, ma
che ben presto – trasformatosi in partito – diverrà espressione
delle istanze reazionarie della burocrazia sultanale e del clero
musulmano.
Quando,
nel 1906, il giovane Mustafà Kemal bey1
usciva dall’Accademia Militare di Costantinopoli con il grado di
capitano di stato maggiore, il futuro Atatürk era soltanto uno dei
tanti giovani ufficiali ottomani che manifestavano il loro
apprezzamento per le idee riformiste e modernizzatrici di provenienza
europea.
Durante
il corso dei suoi studi, Kemal era entrato in contatto con elementi
europei, con le loro idee aperte, con la loro mentalità volta al
progresso. Ed era entrato in contatto, soprattutto, con la loro
letteratura politica. Aveva letto gli Enciclopedisti, se ne era
innamorato, aveva sognato che la Turchia potesse scegliere di unirsi
all’Europa progredita e progressista, abbandonando il mondo
– che
gli appariva oscuro e oscurantista
– dell’Asia
e del retaggio arabo e persiano.
All’epoca,
queste erano posizioni comuni a larghi strati di intellettuali,
studenti, militari, e soprattutto a quella emigrazione politica
ottomana che aveva scelto le capitali europee come sedi privilegiate
del proprio esilio: qui era entrata in contatto con un mondo politico
e culturale che si rifaceva agli ideali risorgimentali, alle società
segrete di matrice mazziniana e massonica, ad un mix affascinante di
positivismo,
laicismo, nazionalismo, liberalismo.2
Da
questo crogiolo erano nati – all’estero e in un secondo tempo
anche in patria – i diversi movimenti, comitati, società più o
meno segrete, nuclei studenteschi, leghe militariste, circoli
intellettuali, dal cui insieme sarebbe sorto poi il Movimento o
Partito cosiddetto “dei Giovani Turchi”, ovvero – nella
denominazione ufficiale – il Comitato
Unione e Progresso.
Il
capitano Kemal bey era dunque parte di questo mondo, cui contribuiva
anche in prima persona con una società segreta militarista
denominata Patria
e Libertà,
che costituiva nel 1906 a Damasco, sua prima sede operativa.
Facciamo
adesso un salto di quattro anni, e arriviamo al 1910, anno in cui le
strade di Kemal e dei Giovani Turchi (frattanto giunti al potere) si
separavano. Questi ultimi – infatti – abbandonavano
l’orientamento nazionalista e innovatore, per abbracciare
un’impostazione che ne faceva sostanzialmente una versione
aggiornata dell’ottomanismo. Sparita ogni spinta innovatrice ed
ogni propensione al rinnovamento di matrice laica ed europea, il
movimento si avviava a recepire le istanze dell’apparato sultanale,
del clero islamico e degli altri poteri forti ottomani. Ciò
comporterà – tra l’altro – la rottura con le nazionalità non
turche dell’Impero, con conseguenze che, specie nel caso degli
armeni, saranno drammatiche.
Le
scelte di Mustafà Kemal bey rimanevano invece quelle della vigilia
rivoluzionaria: continuava a guardare all’Europa e non all’Asia;
continuava a guardare al laicismo e non all’islamismo; continuava a
guardare al nazionalismo e non ad un imperialismo mascherato;
continuava a sognare una Turchia moderna, progredita, libera e
liberata dall’arretratezza e dalla miseria.
Seguivano
otto anni di guerre (quella italo-turca, le due balcaniche ed il
conflitto mondiale) che lo vedevano impegnato in prima linea su tutti
i fronti, e che vedevano soprattutto – nel 1915 – la sua
magistrale difesa della penisola di Gallipoli e della via per
Costantinopoli, capolavoro strategico che faceva del colonnello Kemal
un vero e proprio eroe nazionale.
A
conclusione della prima guerra mondiale, la Turchia subiva un
armistizio durissimo, che avrebbe potuto preludere non soltanto alla
perdita di tutti i suoi domìni imperiali, ma anche alla dissoluzione
del suo stesso nucleo centrale anatolico. Gli inglesi volevano
impadronirsi di Costantinopoli e degli Stretti, confinando la Turchia
in un residuale Stato centroanatolico, stretto fra l’appendice
asiatica di una “Grande Grecia” ed una nascente Repubblica
Armena, per tacere delle “zone di interessi” francese e italiana.
Il
debole sultano Maometto VI e il suo governo (i Giovani Turchi erano
stati frattanto epurati) non avevano la forza né il coraggio per
opporsi agli occupanti inglesi, e seguivano una linea sostanzialmente
collaborazionista. In tale contesto – ovviamente – occorreva
sbarazzarsi di quanti potevano opporsi ad una politica di resa a
discrezione, ragion per cui il parlamento veniva sciolto, mentre i
militari più intransigenti erano allontanati da Costantinopoli e
destinati a sedi periferiche.
Kemal
paşhà3
(divenuto
nel frattempo generale, il più autorevole e prestigioso generale
dell’esercito ottomano) era nominato ispettore generale della III
Armata di stanza nell’Anatolia nord-orientale, e comandato di
recarsi colà per ristabilire l’ordine nelle province dell’Armenia
e del Mar Nero, formalmente assegnate alla sovranità ottomana ma in
realtà destinate a far parte di una Repubblica Armena che avrebbe
dovuto riunire sotto un protettorato inglese o americano i due
tronconi (l’ottomano ed il russo) di quello sfortunato paese.
Il
19 maggio 1919 – così – il generale Kemal giungeva a Samsun,
importante porto della costa orientale del Mar Nero, sotto
occupazione britannica. Da quel momento, iniziava la grande
rivoluzione nazionale kemalista che avrebbe portato alla fine
dell’Impero Ottomano e alla nascita della Turchia moderna.
Rievocazioni
di
Michele Rallo
TURCHIA:
UN REBUS
AI
CONFINI DELL’EUROPA
3a
parte:
L’IMPERO
IN LIQUIDAZIONE
E
LA NASCITA DELLA REPUBBLICA
[da
“La Risacca”, febbraio 2016]
Avevamo
lasciato – alla fine della scorsa puntata –
Kemal paşhà
a Samsun, remota cittadina dell’estremo nord-orientale
dell’Anatolia, dove nel maggio 1919 il gabinetto ottomano aveva
trasferito l’irrequieto generale. Era un momento di grande
sconforto per l’intera Turchia.
Da pochi giorni era avvenuta l’occupazione di Smirne da parte dei
greci, un’occupazione che i turchi temevano al massimo, perché –
contrariamente alle altre – non era considerata temporanea ma
diretta a staccare definitivamente un pezzo di Anatolia dalla Turchia
e ad annetterlo ad un paese straniero. Questi timori erano avvertiti
con particolare drammaticità dai turchi dell’Anatolia
nord-orientale, e vissuti quasi come una anticipazione della
paventata annessione della regione alla Repubblica Armena.
Era
– questo – lo scenario ideale per il progetto di Kemal, che
giungeva in Anatolia orientale con un disegno ben preciso: unire i
primi movimenti di resistenza nazionale, ridare fiducia alle forze
armate, e creare un’autorità politica alternativa a quella del
governo di Costantinopoli, da lui giustamente considerato come
inabile a contrapporsi alle forze che operavano per lo smembramento
della Turchia. Ricorderà lui stesso, più tardi: «Bisognava
a tutti i costi insorgere contro il governo ottomano, contro il
sultano, contro il califfo di tutti i musulmani, e incitare alla
rivolta l’esercito e l’intera nazione.»
Kemal
non si fermava a Samsun che pochi giorni; poi si allontanava verso
sud e successivamente verso est, verso i territori non presidiati
dall’esercito inglese: Havza, Amasya, Sivas e infine Erzurum, sede
del XV Corpo d’Armata ottomano, dove fissava il suo primo quartier
generale in Anatolia.
In
queste città si svolgevano le prime tappe della rivoluzione
nazionale kemalista, tappe che la tirannia dello spazio mi consente
soltanto di enumerare: a giugno la dichiarazione di Amasya, che
proclamava l’illegittimità del governo di Costantinopoli; a luglio
il Congresso4
regionale di Erzurum, che varava un Patto
Nazionale
che sanciva una scelta nazionalista, nettamente distante dalla
vecchia visione imperiale dell’ottomanismo; a settembre il
Congresso nazionale di Sivas e le sue statuizioni
(l’ufficializzazione della scelta nazionalista con conseguente
rinunzia all’impero, la creazione di un’autorità paragovernativa
anatolica e di un Movimento
Nazionale5
unitario agli ordini di Kemal). E poi ancòra: le elezioni generali
indette dal governo di Costantinopoli per dicembre e la vittoria
elettorale kemalista, l’insediamento nella capitale ottomana di una
nuova Assemblea Nazionale (gennaio 1920), il voto parlamentare di
adesione al Patto
Nazionale
kemalista, lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale, la rottura
totale fra il Sultano e Kemal (culminata nel fallito tentativo di
arresto del leader nazionalista), la creazione della Grande
Assemblea Nazionale
e di un governo provvisorio nazionalista ad Ankara. Sul piano
internazionale: le prime intese del governo kemalista con la Russia
comunista ma anche con l’Italia e con la Francia (maggio),
l’ulteriore spinta invasiva della Grecia in Anatolia e il
conseguente inizio della “guerra in Asia Minore” (22 giugno), e
infine – il 10 agosto a Sèvres – la firma del trattato di pace
che ufficialmente poneva termine alle ostilità della prima guerra
mondiale fra l’Intesa e l’Impero Ottomano; trattato firmato e
accettato dal governo di Costantinopoli, ma rigettato da quello di
Ankara.
IL TRATTATO DI SÈVRES
Queste
le statuizioni del trattato di Sèvres: 1) internazionalizzazione
degli Stretti6
e di Costantinopoli, formalmente ancòra sotto sovranità ottomana;
2) acquisizione da parte inglese (e in piccola parte francese) del
dominio sulle province arabe dell’Impero Ottomano; 3)
riconoscimento all’Inghilterra anche del protettorato sull’Egitto
e dell’acquisizione di Cipro (entrambi risalenti al 1914); 4)
acquisizione da parte greca della Tracia Orientale fino a 50 km da
Costantinopoli (linea di Çhataljia), dell’Anatolia
sud-occidentale, delle isole dell’Egeo, del Dodecanneso (che però
gli italiani non avevano alcuna intenzione di lasciare); 5)
riconoscimento alla Francia anche di una vasta zona d’influenza in
Cilicia (Anatolia sud-orientale); 6) riconoscimento all’Italia di
una minore zona d’influenza soltanto economica nella regione di
Antalya, previa rinunzia al Dodecanneso; 7) riconoscimento
all’Armenia della piena indipendenza, sotto il mandato degli USA
ma sotto il controllo effettivo della Gran Bretagna; 8)
riconoscimento al Kurdistan nord-occidentale (rimasto in territorio
turco) di un’ampia autonomia sotto un protettorato di fatto della
Francia.
Era
evidente che – oltre a sancire l’abbandono delle colonie
imperiali ottomane – il Trattato di Sèvres significava anche il
completo smembramento della Turchia e il suo asservimento agli
stranieri. La sua accettazione da parte del governo di Costantinopoli
era pertanto un’inamovibile pietra tombale sul residuo prestigio
del Primo Ministro collaborazionista Damad Ferid ed un colpo
durissimo anche alla credibilità dello stesso sultano Maometto VI,
nei cui confronti l’attenuante di essere “prigioniero” degli
inglesi non bastava più a coprire la rassegnazione se non la
codardia.
Ma,
se la sottoscrizione del trattato iugulatorio di Sèvres
rappresentava il punto più basso raggiunto dal Sultano e dal governo
di Costantinopoli, in termini speculari significava un aumento
esponenziale del prestigio di Kemal e del governo di Ankara.
I
kemalisti – infatti – contrapponevano al Trattato di Sèvres i
postulati del Patto
Nazionale:
separazione dei destini del territorio nazionale turco (cioè
l’Anatolia e la Tracia orientale) da quelli dei territori imperiali
extraanatolici; creazione di uno stato nazionale di tipo europeo, più
piccolo rispetto al mastodonte ottomano ma certamente più compatto
ed omogeneo; sua difesa armata contro potenze straniere e movimenti
secessionisti che tentassero in qualunque modo di intaccarne
l’assetto politico e territoriale.
LA GUERRA IN ASIA
MINORE
Già
da qualche tempo, intanto, uno scenario guerresco aveva cominciato a
delinearsi nell’Anatolia sud-occidentale, dove i greci –
saldamente insediati nello Smirnense – erano stati espressamente
autorizzati dall’Intesa ad abbandonare le loro linee ed a spingersi
a nord verso Ankara, per ristabilire l’ordine, turbato dalla
resistenza kemalista; contrastati – ovviamente – dalle forze
turco-nazionaliste.
Era
la cosiddetta “guerra in Asia Minore”, iniziata già alcuni mesi
prima del trattato di Sèvres e adesso – stante la necessità di
dare pronta attuazione alle statuizioni del trattato stesso – in
fase culminante.
Era
in questi frangenti che Kemal riusciva a compiere un vero e proprio
miracolo operativo: riorganizzava le sparse forze militari, le
saldava ai gruppi di resistenza locali ed all’apparato politico
nazionalista, e dava vita ad un nuovo, grande e disciplinato esercito
turco, trasformando un insieme volontaristico piuttosto
raccogliticcio in un formidabile strumento di guerra.
Questo
nuovo esercito turco era protagonista di una serie di grandi
battaglie che si combattevano dal giugno 1920 al settembre 1922: la
prima e la seconda battaglia di Inönü (gennaio-marzo 1921), la
battaglia di Afyonkarahisar (luglio 1921), la battaglia del fiume
Sakarya (agosto-settembre 1921), la battaglia di Dumlupinar (agosto
1922); battaglie che segnavano la sconfitta degli invasori greci,
culminata con il caotico e drammatico abbandono di Smirne (11
settembre 1922).
Aveva
così termine la guerra in Asia Minore, e gli inglesi – lasciati
soli da italiani e francesi – dovevano rassegnarsi a gettare alle
ortiche l’inapplicato trattato di Sèvres ed a regolare gli affari
turchi secondo quanto avrebbe stabilito il nuovo trattato di pace, in
gestazione fra Grecia e Turchia.
IL TRATTATO DI
LOSANNA
Kemal
(nel frattempo insignito del grado di Maresciallo e dell’appellativo
di Ghazi,
il Vincitore) riusciva frattanto ad esautorare completamente il
Sultano e il governo di Costantinopoli (come si vedrà più avanti).
Conseguentemente, il governo nazionalista di Ankara era l’unico
interlocutore turco a partecipare alla laboriosa conferenza di pace
che si apriva a Losanna il 20 novembre 1922.
Dopo
otto mesi di difficili trattative, si giungeva infine al trattato di
pace del 24 luglio 1923.
L’aspetto
fondamentale del trattato era la trasformazione della Turchia da
impero multinazionale in stato nazionale, di dimensioni evidentemente
assai più contenute, ma etnicamente omogeneo7
e con confini certi. Dal punto di vista territoriale, la Turchia
comprendeva l’intera Anatolia più la Tracia orientale fino ad
Adrianopoli inclusa.
La
Grecia – oltre a rinunziare espressamente ad ogni aspirazione sullo
Smirnense, sul Ponto e sulla Tracia orientale – cedeva alla Turchia
le due isolette strategiche di Imbro e Tenedo, e doveva anche
prendere atto dell’assoluta indisponibilità italiana a ritirarsi
dal Dodecanneso. Veniva definitivamente accantonata ogni ipotesi di
indipendenza per l’Armenia e il Kurdistan, e Costantinopoli
ritornava alla piena sovranità turca; anche gli Stretti ritornavano
alla sovranità turca, ma (fino alla convenzione di Montreaux del
1936) in forma attenuata e sotto il controllo di una Commissione
Internazionale ad
hoc.
Dal canto suo, la Turchia prendeva atto di alcune presenze straniere
che segnavano i suoi confini: gli italiani nel Dodecanneso, gli
inglesi a Cipro e a Mosul, i francesi ad Alessandretta.
LA FINE DEL SULTANATO
Facciamo
adesso un passo indietro, ai giorni immediatamente precedenti
l’apertura della Conferenza di Losanna (novembre 1922). Era in quei
giorni – infatti – che iniziava il processo di formazione del
nuovo Stato turco.
Di
fronte al disegno inglese di far partecipare alla Conferenza i
rappresentanti dei due governi turchi di Ankara e di Costantinopoli,
Kemal rompeva gli indugi, ed imponeva alla Grande Assemblea Nazionale
– con metodi non proprio democratici – di dichiarare decaduto il
sultano Maometto VI ed abolito lo stesso Sultanato, cioè la
istituzione politica della monarchia imperiale (1° novembre 1922).
Ma non si era ancòra ad una esplicita scelta repubblicana, anche
perché permaneva la istituzione religiosa della monarchia, il
Califfato, che sarà affidato al principe Abdul Mejid.
Seguiva
un braccio-di-ferro con la componente monarchica e “liberale” del
Movimento Nazionale, protrattosi fino al settembre 1923, quando Kemal
otteneva il pieno controllo del Movimento Nazionale, ribattezzato
Partito
del Popolo
(poi Partito
Repubblicano del Popolo)
ed avviato a ricoprire un ruolo sostanzialmente di partito-unico.
In
conclusione, il 29 ottobre 1923 la Grande Assemblea Nazionale
proclamava la Repubblica Turca, chiamando Kemal alla sua presidenza.
Dalla
proclamazione della Repubblica, iniziava un lento itinerario per
tappe che – nel giro di ben cinque anni – avrebbe condotto alla
instaurazione di un vero e proprio “regime” nazionalista,
statalista e laicista. Queste le tappe successive: l’abolizione del
Califfato (marzo 1924), l’emanazione della Costituzione (aprile
1924), l’attribuzione dei pieni poteri a Kemal (marzo 1925), ed
infine la cancellazione dell’islamismo come religione di Stato
(maggio 1928). Ma di questo parleremo nella prossima puntata.
Rievocazioni
di
Michele Rallo
TURCHIA:
UN REBUS
AI
CONFINI DELL’EUROPA
4a
parte:
LA
RIVOLUZIONE LAICA
DI
KEMAL ATATÜRK
[da
“La Risacca”, marzo 2016]
Era
sostanzialmente a partire dal novembre 1925, dopo avere assunto i
pieni poteri ed avere di fatto liquidato l’opposizione, che il
Ghazi iniziava pienamente un processo riformista assolutamente
rivoluzionario, con l’obiettivo di realizzare il suo coerente
progetto di sovversione del vecchio stato autocratico e teocratico
ottomano: cancellare la dominazione culturale arabo-persiana,
limitare l’influenza della religione islamica alla sola sfera
individuale dei singoli, e restituire la Turchia ai turchi, alla
cultura turca, al dinamismo turco che guardava verso l’occidente e
il progresso e non verso l’oriente e verso concezioni politiche
sorpassate ed anacronistiche.
Le
riforme di Kemal procederanno ininterrottamente per tredici anni (dal
novembre 1925 al novembre 1938 data della sua morte) ed
interesseranno tutti i settori della vita turca (dal campo religioso,
a quello civile, a quello economico).
La
prima riforma (votata dalla Grande Assemblea Nazionale nel novembre
1925) riguardava il divieto di ostentare in pubblico simboli
religiosi, con particolare riguardo all’abbigliamento: veniva
vietato l’uso del fez e del turbante per gli uomini e del velo per
le donne, mentre il Ghazi
invitava la popolazione turca ad abbandonare la vecchia moda
orientale per adottare «l’abbigliamento
internazionale dei popoli civilizzati».
Immediatamente
dopo, seguiva la riforma dell’insegnamento, attribuito in forma
esclusiva e con carattere di assoluta laicità alle scuole pubbliche.
Erano proibite le vecchie scuole coraniche (le madrasse)
e vietato l’insegnamento religioso con tutte le sue materie (arabo,
persiano, diritto islamico, scienze islamiche, eccetera).
Terza
importante riforma adottata nel 1925 era quella che prevedeva lo
scioglimento delle potenti confraternite religiose e l’acquisizione
al patrimonio pubblico dei loro beni.
Venivano
infine adottati l’orario ed il calendario europei, la qualcosa
recideva il cordone ombelicale che legava la Turchia alla cronologia
islamica, avvicinandola ulteriormente ai costumi occidentali.
La
prima fase riformista continuava nel 1926: in febbraio la Grande
Assemblea Nazionale prendeva atto che, con la fine del Califfato e
l’abolizione dei due ministeri religiosi (la Sheria
e il Wakf),
era già venuta meno la vigenza della legge coranica;
conseguentemente, la GAN votava l’adozione di un Codice Civile e di
un Codice Penale di tipo europeo. Era una vera e propria rivoluzione:
non soltanto perché sottraeva agli ambienti religiosi
l’amministrazione della giustizia, ma soprattutto perché sanciva
l’eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini turchi, senza
distinzione di fede religiosa né di sesso. Veniva meno ogni
penalizzazione per i non-musulmani, e la stessa scelta religiosa non
era più effettuata dal genitore per conto dei figli minori, ma
demandata personalmente ad ogni cittadino al compimento della
maggiore età. La famiglia veteroislamica e poligamica cessava di
esistere, la donna turca era strappata alla sua condizione di
inferiorità istituzionalizzata, e veniva introdotto un modello
familiare europeo e laico (divorzio compreso).
Benché
adottati, tuttavia, i codici non entravano effettivamente in funzione
che nel 1928, dopo che – in aprile – una Grande Assemblea
Nazionale oramai pienamente kemalizzata aveva votato quella che
potremmo chiamare “la madre di tutte le riforme”, e cioè la
legge che abrogava l’articolo della Costituzione che contemplava
l’islamismo come religione di Stato. Veniva così meno la
concezione stessa dello Stato ottomano (concepito come una somma
delle diverse comunità religiose) ed era sancita la visione
kemalista della Turchia come nazione unitaria e completamente laica,
formata – secondo il dettato costituzionale – «da
tutti gli autoctoni della Turchia (…) senza alcuna distinzione di
religione o di razza».8
Ma
l’attivismo riformatore non conosceva soste, e già ad agosto il
Ghazi
iniziava a percorrere in lungo e in largo il paese per propagandare
la prossima riforma in cantiere: l’abolizione dell’alfabeto arabo
e l’adozione di quello latino. Proseguiva la marcia di
avvicinamento all’Europa, e proseguiva soprattutto la lotta per la
liberazione nazionale dall’influenza araba, considerata
responsabile di tutte le scelte d’indole politica, religiosa e
culturale che avevano allontanato la Turchia dall’Europa,
accomunandola all’Asia ed integrandola nell’Islam. Attenzione: la
riforma dell’alfabeto non era la riforma completa della lingua
turca (che sarà portata a compimento negli anni ’30), ma soltanto
il primo passo in quella direzione; era piuttosto il coronamento
della riforma dell’educazione nazionale, i cui ultimi tasselli
erano apposti proprio in coincidenza con la riforma dell’alfabeto.
L’obiettivo era duplice: quello già ricordato di liberazione
culturale dall’influenza araba, e quello della lotta contro
l’analfabetismo. Ai due ordini di scuole pubbliche (le medie che
risalivano ai tempi dei tanzimat9
ed i licei varati nel 1925) si aggiungevano adesso due nuovi istituti
scolastici pensati appositamente per l’immensa platea della
periferia rurale e montanara (fino ad allora quasi completamente
analfabeta): le Scuole
Rurali
per i ragazzi, e soprattutto gli Istituti
di Villaggio,
una specie di istituti magistrali diffusi sul territorio e dediti
alla formazione di maestri elementari laici e con orizzonti europei.
Completato
così il primo blocco di riforme, il periodo a cavallo tra la fine
degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 era caratterizzato da
un vivace dibattito politico-culturale circa la connotazione di
quello che oramai era un vero e proprio regime; dibattito che vedeva
schierati da una parte coloro che esaltavano la centralità di una
Costituzione ispirata a princìpi democratico-liberali, e dall’altra
quanti attribuivano maggior rilevanza al ruolo del Capo ed a quello
del partito-unico. Senza volere entrare nel merito della questione, è
opportuno qui sottolineare come Kemal (nel frattempo insignito anche
del titolo di Atatürk,
cioè Padre dei Turchi) utilizzasse le strutture del Partito
Repubblicano del Popolo
come strumento per la creazione di una nuova classe dirigente (con
connotazione politica e al tempo stesso tecnica), da sostituire a
quella di matrice ottomana, falcidiata dalla crisi dell’ottomanismo
e ridotta a pochi sopravvissuti di non eccelse qualità.
Per
il resto, la connotazione “ideologica” del regime era codificata
in sei punti, “le sei frecce di Atatürk” che lo stesso Kemal
presentava al congresso del 1931 del Partito Repubblicano del Popolo:
Repubblicanesimo, Nazionalismo, Populismo, Laicismo, Statalismo,
Riformismo/Rivoluzionarismo. Saranno queste “sei frecce” (e
segnatamente quella del nazionalismo economico, indicato come
“statalismo”) a determinare la rapidissima uscita della Turchia
dalla arretratezza e dalla miseria, e la sua portentosa crescita
economica.
Kemal
non abbandonava tuttavia la battaglia per la liberazione nazionale
della cultura turca, battaglia che anzi corroborava – agli inizi
degli anni ’30 – con la creazione di due strumenti di supporto:
l’Istituto
per la Storia Turca
e la Società
per la Lingua Turca.
Erano proprio questi due enti, con tutta la loro attività e
segnatamente con convegni internazionali di studi di alta levatura, a
fornire gli elementi necessari all’Atatürk per tracciare il
profilo storico, etnico e culturale di una nazione turca assai
diversa dal coacervo arabo-islamico-asiatico risultante dalla
tradizione ottomana. Kemal elaborava la teoria delle origini
sumerico-hittite della popolazione turca: origini che la accomunavano
alle grandi civiltà dell’antichità mediterranea e che la
allontanavano dal mondo asiatico; origini che esaltavano una qualche
contiguità alla cultura occidentale e respingevano le suggestioni
panasiatiche e panislamiche che avevano caratterizzato la società
turca ancòra durante il regime dei Giovani Turchi.
Strettamente
connessa alla tematica storica era la questione della lingua, sulla
quale il regime kemalista era già intervenuto con una prima riforma,
quella dell’alfabeto. Bisognava tuttavia andare oltre, e riformare
il vocabolario stesso della lingua turca, vocabolario imbastardito da
secoli d’influenza araba e persiana, al punto che i termini
autenticamente turchi ne costituivano – almeno nella lingua “colta”
– appena il 25%. Nel 1932 era quindi lanciata una vera e propria
epurazione dei vocaboli di origine straniera, il cui uso era vietato
inderogabilmente: anche Allah
non era più pronunciabile, ed in sua vece si doveva usare
l’equivalente turco Tanri.
Alla fine di questo processo (siamo ormai nel 1935) si perveniva
all’elaborazione di un’unica lingua nazionale turca – il
türkceh
– che prendeva il posto sia della lingua colta ottomana, sia della
lingua parlata che, soprattutto nelle zone più periferiche,
presentava in passato differenze dialettali assai ampie e complesse.
Più
o meno contemporaneamente, venivano portate a compimento le riforme
“civili” iniziate negli anni ’20. L’emancipazione della donna
era completata dall’attribuzione dell’elettorato attivo (nel
1932) e di quello passivo (nel 1934). E il Codice Civile era
integrato dall’introduzione dello stato civile e dall’obbligo dei
cognomi secondo l’uso europeo. Significativamente, in immediata
applicazione di tale provvedimento, il 24 novembre 1934 la Grande
Assemblea Nazionale attribuiva ufficialmente a Kemal come cognome
quello di Atatürk, Padre dei Turchi.
Parallelamente,
cresceva l’attenzione verso le tematiche sociali, esaltate dal
rapido arricchimento del paese e dal conseguente innalzamento del
tenore di vita della popolazione. Nel 1936 era promulgato un Codice
del Lavoro, che – tra l’altro – introduceva la domenica come
giornata di riposo settimanale, in luogo del venerdì della
tradizione islamica.
Ultime
riforme significative erano quelle di sapore totalitario del 1936-37:
quella che attribuiva ai prefetti le segreterie provinciali del
partito, e quella che modificava la carta costituzionale per
accogliervi ufficialmente i postulati politici kemalisti. Così
commentava la direzione del Partito Repubblicano del Popolo: «Il
Governo ha il dovere di far proprie e di attuare le direttive del
Partito, mentre questo ha il compito di assistere in ogni modo e con
ogni mezzo il Governo. Lo Stato ha il timone della vita nazionale, il
Partito la bussola.»
Era un linguaggio del tutto simile a quello che, negli stessi anni,
echeggiava in Italia e in altre nazioni europee.
Le
scelte di politica interna, in ogni modo, non influivano minimamente
sulle scelte di schieramento internazionale della Turchia kemalista,
scelte improntate sempre e soltanto alla difesa dell’interesse
nazionale. Così il nostro Amedeo Giannini (fra i massimi studiosi
delle istituzioni internazionali del tempo) sintetizzava lo spirito
della diplomazia di Kemal: «Con
un gioco di equilibri e di audacie, sfruttando tutti i momenti
propizi, è riuscito a creare una Turchia amica di tutti e di nessuno
o, meglio, amica solo di sé stessa.»
Ma
il cammino della Turchia kemalista si interrompeva bruscamente il 10
novembre 1938, quando – all’improvviso – il Padre dei Turchi
veniva a mancare. I suoi funerali erano imponenti, e testimoniavano
un favore popolare autentico, assoluto, certamente ineguagliabile
nella storia turca.
Rievocazioni
di
Michele Rallo
TURCHIA:
UN REBUS
AI
CONFINI DELL’EUROPA
5a
parte:
IL
TRADIMENTO
DELLA
RIVOLUZIONE LAICA
[da
“La Risacca”, aprile 2016]
LA SECONDA GUERRA
MONDIALE
Il
dopo-Atatürk iniziava senza scosse. Nessuna vacatio: già il giorno
dopo la morte del Ghazi,
la Grande Assemblea Nazionale eleggeva il successore nella persona
del suo più fidato collaboratore, il generale Ismet Inönü (11
novembre 1938).
Inönü
era l’immagine della continuità, in politica interna come in
politica estera. La Repubblica Turca continuava a vivere sui pilastri
della dottrina kemalista: nazionalismo, statalismo, populismo,
laicismo, monopartitismo, modernizzazione, occidentalizzazione e,
nell’àmbito diplomatico, quella politica di stretta neutralità
che – si ricorderà – il nostro Giannini aveva così
sintetizzato: «una
Turchia amica di tutti e di nessuno o, meglio, amica solo di sé
stessa.»
Ma
sull’Europa soffiavano venti di guerra, e il pur energico Inönü
aveva qualche difficoltà a barcamenarsi fra spinte di segno diverso:
si era alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, e
tutti i protagonisti della scena diplomatica europea premevano sulla
Turchia per acquisirla al proprio campo.
Quando
il conflitto deflagrava (1° settembre 1939), Ankara guardava con
speranza al progetto di un Blocco
dei Neutrali
a guida italiana. Ma il Blocco – avversato dagli inglesi e in un
secondo tempo anche dai tedeschi – non prendeva forma, e la Turchia
si ritrovava impastoiata nelle clausole di un patto di mutua
assistenza militare con gli anglo-francesi; clausole che l’avrebbero
obbligata a scendere in guerra nel caso di un’estensione del
conflitto all’area mediterranea. Tuttavia, quando l’intervento
italiano determinava un tale scenario (10 giugno 1940), Ankara si
guardava bene dallo scendere in campo e resisteva imperturbabile alle
pressioni britanniche.
Così
come resisteva alle pressioni tedesche e italiane pochi mesi dopo,
quando Hitler invitava ufficialmente la Repubblica Turca ad aderire
al Patto Tripartito (14 febbraio 1941). Con la Germania, tuttavia, la
Turchia postkemalista stipulava un patto di non aggressione il
successivo 18 giugno, ovvero quattro giorni prima dell’attacco
tedesco alla Russia.
Salto
a piè pari l’elenco di tutti i successivi tentativi di Asse ed
Alleati per portare la Turchia dalla loro parte. Non senza aver
sottolineato, però, che entrambi quegli schieramenti mantenevano
amichevoli e discreti contatti con gli ambienti musulmani, ogni
giorno più insofferenti delle restrizioni poste alla loro attività
dal rigido laicismo che impregnava le istituzioni kemaliste.
A
un certo punto, quando – dopo Stalingrado e lo sbarco
anglo-americano in Nordafrica – le sorti del conflitto volgevano a
favore degli Alleati, una parte del Partito
Repubblicano del Popolo
(il partito unico kemalista) si convertiva alla democrazia e ad un
prudente islamismo, ed iniziava un frenetico forcing sul Presidente
Inönü
perché
la Turchia si schierasse con inglesi e americani.
Inönü
resisteva
fin che poteva, ma quando alle pressioni del fronte interno si
aggiungevano quelle – sempre più energiche – dei governi
alleati, capitolava: rompeva le relazioni diplomatiche con le potenze
dell’Asse (agosto 1944) e dichiarava loro guerra (febbraio 1945).
IL MULTIPARTITISMO
Ma
non era tutto, perché – a guerra finita – gli Alleati
costringevano la Turchia a “democratizzare” il proprio regime,
pena l’isolamento nel ghetto dei Paesi quasi fascisti, con Spagna e
Portogallo.
Ancora
una volta Inönü
era
costretto a piegarsi, archiviando il monopartitismo e consentendo che
la nuova fazione filoamericana (e filoislamica) dello storico partito
unico kemalista desse vita ad un nuovo Partito
Democratico Turco
(gennaio 1946).
Il
gioco era fatto: iniziava una lunga campagna diffamatoria contro il
governo, accusato di essere responsabile delle difficoltà economiche
che erano un’oggettiva conseguenza dei disequilibri del dopoguerra.
Il nazionalismo economico di Kemal era messo in stato d’accusa da
una nuova leva di politici (e di potentati economici) innamorati del
modello americano, in fraterna alleanza con i nostalgici reazionari
delle istituzioni sultanali e califfali. Il risultato era – alle
prime elezioni generali “libere” del 1950 – una netta vittoria
del Partito Democratico e il passaggio del Partito Repubblicano del
Popolo all’opposizione.
Il
kemalismo era di fatto finito, anche se ciò non era ben chiaro a
tutti. Così come era finita la tradizionale politica neutralista
della Repubblica Turca, che infatti nel 1952 aderiva alla NATO,
diventando a tutti gli effetti un pilastro dello schieramento
militare proamericano (e antisovietico).
Naturalmente,
il nuovo governo “democratico” iniziava a smantellare –
dapprima con prudenza – le istituzioni della Repubblica kemalista,
con particolare attenzione all’àmbito religioso. Nel 1953 – così
– nelle scuole pubbliche era reintrodotto l’insegnamento del
Corano e della lingua araba. Era uno sfregio arrogante alla memoria
di Atatürk.
Intanto,
la situazione economica non accennava a migliorare, malgrado
l’adesione agli alti ideali del liberismo americanista.
L’inflazione galoppava, ed altrettanto il debito pubblico. Nel
Paese cresceva il malumore, non disgiunto da un’aperta nostalgia
per le riforme degli anni ’30. Di questo stato d’animo si faceva
interprete l’Esercito, che si considerava il custode
dell’ortodossia kemalista, a iniziare proprio dai valori del
laicismo. Da qui una serie di colpi-di-Stato militari: nel 1960, nel
1971, nel 1980, nel 1997. Tutti finalizzati a garantire la fedeltà
delle istituzioni turche agli ideali kemalisti. E tutti rientrati
abbastanza rapidamente, dopo un’avvenuta normalizzazione.
Al
di là dei periodi di dittatura militare, comunque, in Turchia
continuava il braccio di ferro tra i partiti, sottolineato da
repentini cambiamenti elettorali. Inönü
e il Partito Repubblicano del Popolo tornavano
al governo nel 1961. Vi rimanevano fino al 1965, quando riprendeva il
sopravvento il Partito Democratico, ribattezzato Partito
della Giustizia (AP)
e con una connotazione più marcatamente islamista. Va tenuto
presente, tuttavia, che l’islamismo dell’epoca era assai diverso
da quello dei giorni nostri.
Il
Partito Repubblicano del Popolo tornava al potere nel 1973 con la
nuova leadership di Bülent Ecevit e con una nuova connotazione di
centro-sinistra, mentre il Partito della Giustizia si apprestava ad
occupare lo spazio del centro-destra: entrambi nel più classico
stile di un bipartitismo di matrice anglosassone.
IL REGIME DI ERDOĞAN
Seguivano
una serie di avvicendamenti che non vale neanche la pena di
enumerare. Ciò fino al 2002, quando le elezioni erano vinte dal
nuovo Partito
della Giustizia e dello Sviluppo (AKP),
guidato da Recep Erdoğan. A prima vista, la nuova formazione non si
differenziava granché dalle altre che avevano occupato il settore di
centro-destra del panorama politico turco: islamista, conservatrice,
“liberale” (alla turca) e, naturalmente, filoamericana.
Poco
a poco, tuttavia, cominciavano a palesarsi forti differenze rispetto
al passato. A incominciare dalla figura del leader, fermamente deciso
a mantenere il potere con ogni mezzo. Per far ciò, Erdogan epurava
innanzitutto le Forze Armate – baluardo del kemalismo – e la
magistratura. Si premuniva, così, contro la possibilità di un
intervento dei militari in difesa dell’ortodossia kemalista e dei
princìpi laici. Per tacere, naturalmente, della persecuzione contro
ogni forma di dissenso, soprattutto quella esplicitata attraverso la
stampa.
La
sua politica estera era (ed è) una somma di contraddizioni: da una
parte, il tentativo di far entrare la Turchia nell’Unione Europea;
dall’altra, una sorta di padrinaggio nei confronti dei Fratelli
Musulmani e di una parte non trascurabile del fondamentalismo
musulmano; per tacere del sospetto di supportare segretamente l’ISIS.
Il
resto è cronaca di oggi. Compresa la pretesa farsesca di traghettare
un Paese asiatico in Europa. Con la benedizione dei tedeschi, vecchi
alleati – si ricorderà – dell’Impero Ottomano.
Le
Opinioni Eretiche
di
Michele Rallo
DALLA
TURCHIA:
VENTI
DI GUERRA
[da
“Social”, 4 dicembre 2015]
Quello
che è successo lo sanno tutti. La Turchia ha abbattuto un aereo
russo che, molto probabilmente, non
aveva violato il suo spazio aereo. Quello che non si sa, invece, è
che da tre anni la Turchia ha – unilateralmente e contro ogni
regola del diritto internazionale – stabilito una No-fly-zone
larga 8 chilometri a sud della propria frontiera meridionale, cioè
all’interno
del territorio siriano.
Dal giugno 2012, in altri termini, Ankara fa finta che i cieli di un
pezzo di Siria le appartengano, e quindi si arroga il diritto di
“difendere” il nord della Siria come se fosse il sud della
Turchia. Dunque, con ogni probabilità il Su-24 russo è stato
abbattuto proprio su questo territorio, ove peraltro sono caduti i
rottami dell’aereo; e altrettanto probabilmente – aggiungo – a
violare lo spazio aereo di uno Stato sovrano (in questo caso la
Siria) sono stati proprio i due caccia-killer di Ankara.
I
motivi del comportamento turco – a parte la “normale” arroganza
– sono due, ed entrambi inconfessabili. Uno: colpire i guerriglieri
kurdi anti-Isis ed evitare ogni loro contatto con le province kurde
della Turchia. Due: tutelare la zona attraverso cui si realizza
l’interscambio semiclandestino Turchia-Isis (rifornimenti militari,
foreign
fighters,
contrabbando di petrolio, eccetera).
Altra
cosa poco nota (che i nostri media si sono ben guardati dal
diffondere) è che – anche a voler credere che l’aereo russo
fosse sconfinato – il diritto internazionale vieta che il Paese
“invaso” possa abbattere il velivolo “invasore”, a meno che
questo non sia in procinto di compiere azioni aggressive
(bombardamenti, mitragliamenti al suolo, eccetera). E ciò, pur con
tutta la protervia del caso, neanche i turchi osano affermarlo.
Terza
cosa, infine, più grave e preoccupante per le sue implicazioni,
anche questa taciuta al pubblico italiano. Fin dall’inizio del suo
intervento in Siria, la Russia comunica dettagliatamente
all’aviazione americana i piani di volo dei propri aerei, onde
evitare ogni possibile incidente o collisione con i velivoli della
“coalizione” a guida statunitense. Il sospetto – che Putin ha
esternato senza tanti complimenti – è che gli americani abbiano
comunicato i piani di volo russi ai turchi, mettendoli così in
condizione di predisporre l’agguato.
Perché
è particolarmente preoccupante questo ultimo fatto? Perché l’azione
turca era chiaramente una provocazione: si voleva che la Russia
reagisse, magari bombardando qualche obiettivo entro i confini
turchi. Dopo di che – ci scommetto – sarebbe scattata la
trappola: la Turchia avrebbe invocato l’articolo 5 del Trattato del
Nord Atlantico (quello che considera un attacco a un singolo
Stato-membro come un attacco alla NATO nella sua interezza) e la
Russia si sarebbe trovata automaticamente in guerra contro mezzo
mondo. In altri termini, un invito alla terza guerra mondiale.
La
Russia – si sa – non è caduta nella trappola, pur rafforzando la
propria presenza in Siria e mettendo all’angolo la Turchia. Ma ciò
non toglie che il tentativo di scatenare un conflitto devastante ci
sia stato. E sgomenta il fatto che, fra tutti i leader occidentali,
il solo Obama abbia trovato il coraggio di dire che «anche
la Turchia ha il diritto di difendere le sue frontiere»,
fingendo d’ignorare tutti i retroscena del caso.
Quasi
quasi si potrebbe pensare che la voglia di terza guerra mondiale non
appartenga alla sola Turchia. E quasi quasi si potrebbe pensare che
nei prossimi giorni possa verificarsi qualche altra provocazione.
Magari dalle parti dell’Ucraina.
Le
Opinioni Eretiche
di
Michele Rallo
“MAMMA,
LI TURCHI”
[da
“Social”, 25 marzo 2016]
“Mamma,
li turchi…”
gridavano gli abitanti delle zone rivierasche della Sicilia e
dell’Italia meridionale quando – nel ’400 e’500 dello scorso
millennio – le nostre coste erano sovente visitate dai pirati
“barbareschi”. Era un grido di terrore, perché gli scorridori
erano soliti abbandonarsi ad ogni bassezza: distruggevano,
incendiavano, uccidevano, torturavano, violentavano e, alla fine, si
portavano dietro i sopravvissuti, per venderli poi ai mercati degli
schiavi di Algeri, di Tunisi, di Tripoli.
Naturalmente,
i pirati non appartenevano ai ranghi ufficiali dell’Impero
Ottomano. Erano – se così posso dire – dei “privati”
provenienti dalle colonie turche del Nordafrica, che sbarcavano il
lunario come meglio potevano. Fatto sta – comunque – che il
fenomeno delle scorrerie “moresche” incominciò a scemare dal
1571, quando a Lepanto le navi della Lega
Santa
(formata dagli Stati preunitari italiani) infersero un colpo
durissimo alla flotta da guerra ottomana. In forma attenuata,
comunque, la cosa andò avanti ancòra per un bel pezzo, fino ai
primi decenni dell’800, quando ebbe inizio il lento ritiro turco
dall’Europa Orientale. E qui mi fermo, prima di essere trascinato
nel gorgo delle rievocazioni storiche: dalle spedizioni anti-pirati
del comandante trapanese Francesco Tedesco (1794), fino alla rivolta
popolare di Palermo contro la missione di propaganda della flotta
ottomana (1799).
Perché
questa lunga premessa di carattere storico? Semplicemente per
ricordare – nel momento in cui si celebra l’accordo “storico”
per i migranti fra la Turchia e l’UE – che la Turchia non
appartiene all’Europa, e che – anzi – è storicamente nemica
dell’Europa. Con una sola parentesi: quella del governo illuminato
del dittatore laico Kemal Atatürk, che voleva europeizzare la
Turchia liberandola
dal retaggio dell’islamismo.
Morto Atatürk (1938), la Turchia ha iniziato a scivolare lentamente
verso una restaurazione islamica, passo dopo passo, fino a
raggiungere l’apice in questi ultimi anni con il governo del
fondamentalista musulmano (presunto “moderato”) Recep Erdoğan.
In
ogni caso – ricordo a chi ha dimenticato la storia – basterebbe
una ripassatina di geografia: uno sguardo ad una qualunque carta
geografica mostrerà agli immemori che la Turchia fa parte dell’Asia
e non dell’Europa. Vero è che occupa ancòra un lembo di
territorio europeo (Costantinopoli e un pezzettino di Tracia
orientale) ma, con ogni evidenza, ciò è soltanto il rimasuglio di
un Risorgimento balcanico non portato alle sue ultime e logiche
conclusioni.
Veniamo,
dunque, all’accordo “storico”. Cosa prevede? Innanzitutto, una
barca di quattrini: 3 miliardi di euro sùbito, più altri 3 in
arrivo, che l’Unione verserà al governo di Ankara nel presupposto
che le somme vengano utilizzate per assistere i profughi. Ma allora –
mi permetto di obiettare – invece di riempire di soldi il dispotico
governo di Erdoğan, perché non versare la somma all’organizzazione
dell’ONU che assiste profughi e rifugiati (l’UNHCR) in tutto il
mondo?
Andiamo
avanti. La Turchia si riprenderà un numero X di immigrati irregolari
sbarcati in Grecia. Ma – attenzione – per ogni immigrato
irregolare espulso dal territorio europeo, l’UE sarà obbligata ad
accogliere un immigrato che, agli occhi del governo turco, sarà
considerato regolare. Quindi, l’accordo “storico” non
toglierebbe un solo immigrato dal territorio europeo. Solamente un
avvicendamento, alla pari.
Ma
questo sarebbe già un risultato eccezionale, perché il medesimo
accordo – sempre più “storico” – prevede l’abolizione dei
visti per i cittadini turchi che vogliano “viaggiare” nell’Unione
Europea. Tradotto dall’ipocrisia del linguaggio diplomatico, ciò
significa il completo spalancamento delle frontiere europee ai
migranti turchi, che dal prossimo 30 giugno potranno invadere
legalmente l’Europa, da perfetti “regolari”. Quanti abitanti ha
la Turchia? Circa 80 milioni. Senza contare i “turcofoni”, cioè
coloro che parlano una lingua di ceppo turco pur abitando in uno
Stato diverso, e che possono richiedere un passaporto turco: lo ha
deciso Erdoğan, per motivi che sarebbe difficile sintetizzare in
poche righe. Quindi, per “permutare” poche migliaia di profughi
accampati fra un confine e l’altro dei Balcani, apriremo le porte a
80 milioni di turchi, più gli eventuali turcofoni. Bell’affare
davvero.
Ma
non è finita qui, perché lo storicissimo accordo prevede anche
(punto 8° del trattato) che venga rilanciato il “processo di
adesione” della Turchia all’Unione Europea. Siamo alla follìa.
Perché, allora, non portare in Europa anche il Califfato? Si farebbe
prima, e si eviterebbero anche tante piccole ipocrisie.
Non
c’è che dire. Si tratta di un evento storico: mezzo millennio dopo
la Battaglia di Lepanto, la Turchia ha sconfitto l’Europa intera. E
senza sparare un solo colpo di cannone.
1
“Kemal” era in realtà un soprannome (significava “il
perfetto” o “l’eccellente”), ma – secondo l’uso ottomano
– era stato adottato come un secondo nome.
2
I termini “nazionalismo” e “liberalismo” vanno intesi,
naturalmente, nella loro accezione ottocentesca.
3
Il titolo onorifico (e non più nobiliare) di paşhà
si accompagnava al grado di generale, mentre quello di bey
veniva solitamente attribuito agli ufficiali inferiori.
4
Il termine “congresso” stava ad indicare non una riunione di
partito, ma una assemblea rappresentativa con funzioni simili a
quelle di un parlamento.
5
La dizione esatta era Movimento
[o Associazione]
Nazionale per la Difesa dei Diritti
dell’Anatolia e della Rumelia. Per Rumelia
si intendeva, all’epoca, la sola Tracia orientale.
6
Per “regione degli Stretti” (o semplicemente “gli Stretti”)
s’intende l’unicum
formato dai Dardanelli, dal Mar di Marmara e dal Bosforo. Tale
regione segna il confine tra l’Europa meridionale e l’Asia
Minore, oltre che il canale di comunicazione fra il Mediterraneo e
il Mar Nero.
7
L’omogeneità della composizione etnica della nuova Turchia era
assicurata peraltro da una convenzione che regolava crudelmente –
alla stregua quasi di una forma di pulizia etnica legalizzata – lo
scambio delle popolazioni alloglotte con la Grecia.
8
Va però osservato che la semplificazione etnica aveva già in
larga parte risolto il problema, riducendo le presenze non-turche a
quote poco più che simboliche.
9
I tanzimat erano le
riforme adottate in epoca ottomana.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.