Gli
inglesi – si sa – non amano l’Europa. E ancor meno amano
l’Unione Europea. Unione che – al contrario – è amatissima
dalla City, dalla Banca Rotschild, dai British
Invisibles
(quelli del “Britannia”) e da tutta l’onorata compagnìa che,
per il tramite di prestanome politici, detiene il potere reale nel
Regno Unito.
Quando
le forze occulte (ma non tanto) che volevano aprire il grande mercato
europeo alle merci e ai capitali americani, decisero la creazione
dell’UE, per l’Inghilterra si scelse una soluzione intermedia:
adesione all’Unione, ma non alla sua “moneta unica”. Si ai
parametri antisociali di Maastricht – dunque – ma mantenimento
della sterlina e rifiuto di scioglierla nell’acido corrosivo
dell’€uro. La Gran Bretagna – così – fa oggi parte
dell’Unione Europea, ma non della “zona Euro”; e neppure della
“zona Schengen”, il che le permette di sottrarsi elegantemente
alle regole europee in materia di immigrazione.
Nonostante
tutto ciò – comunque – in Inghilterra è nato un partito
anti-UE, in continua e costante crescita: il Partito per
l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP), guidato dal popolarissimo
Nigel Farage. Alle consultazioni europee del 2014 è stato il primo
partito, con il 27,5% e con l’elezione di 24 eurodeputati. Alle
elezioni nazionali – finòra – è stato lasciato al palo da una
legge elettorale che difende il bipartitismo conservator-laburista;
ma i risultati eclatanti delle ultime amministrative e di alcuni
turni suppletivi per la Camera dei Comuni, lasciano prevedere che
l’UKIP si prepari a fare man bassa anche alle prossime
consultazioni per il parlamento nazionale.
È
in questo clima che è maturata l’alzata di genio del premier
conservatore Cameron: promettere un referendum popolare con cui gli
inglesi potranno scegliere liberamente se restare nell’UE o venirne
fuori. Con la riserva mentale – è il mio personalissimo parere –
di ottenere dall’Unione qualche piccolo sconto, da dare poi in
pasto all’opinione pubblica britannica per tentare di erodere
consensi al fronte euroscettico.
Il
referendum avrebbe dovuto tenersi “entro il 2017”, e tutto
lasciava credere che il premier inglese avrebbe atteso fino
all’ultimo momento, prima di chiamare gli elettori a pronunciarsi
sull’ipotesi secessionista. A sorpresa – invece – il leader
conservatore ha anticipato di un anno la data per la consultazione
(fissata al prossimo 23 giugno) ed ha aperto le trattative con la
Commissione Europea per ottenere migliori condizioni per
l’Inghilterra. Un avvilente gioco delle parti. Alla fine, la
Commissione ha fatto finta di cedere, Cameron ha fatto finta di aver
ottenuto un clamoroso successo, e il governo inglese (non tutto, in
verità) ha fatto finta di credere che i vantaggi ottenuti potessero
consentire di chiedere agli elettori di votare per la permanenza
nell’Unione.
Se
questo è il contesto, è lecito chiedersi come mai David Cameron
abbia scelto di far svolgere il referendum un anno prima. Io mi sono
dato una risposta: perché è meglio – per conservatori e
laburisti, s’intende – votare adesso, con l’Unione Europea che
è soltanto all’inizio di quella che, con ogni probabilità, sarà
la sua crisi definitiva; e non l’anno venturo, quando la crisi avrà
prodotto i suoi primi effetti, con il sistema di Schengen
definitivamente sotterrato, con Italia e Grecia invase da una
migrazione che i loro governi non
vogliono fermare,
con il sistema creditizio europeo allo sbando, con le elezioni
presidenziali francesi alle porte e conseguente minaccia Le Pen
sempre più incombente, e con la fine del mito di Angela Merkel,
sfiancata dai previsti crolli elettorali se non anche dai futuribili
guai di una certa banca tedesca.
D’altro
canto, quello delle elezioni anticipate è un piatto tipico della
bassa cucina “democratica”. Chi detiene il potere, si riserva di
indire le consultazioni per il momento che giudica più conveniente
per le proprie fortune elettorali. Lo sa bene il conservatore
Cameron. Così come lo sa bene il sinistro Tsipras che, all’indomani
della vergognosa conversione alla causa dei figli di troika, si è
affrettato a convocare rocambolesche elezioni anticipate. Sapeva
benissimo – il topolino del Pireo – che, se si fosse votato alla
scadenza naturale, agli elettori greci sarebbe apparso chiaro che gli
“impegni con l’Europa” non potevano essere mantenuti, neanche
con un supplemento di macelleria sociale.
Senza
contare quello che – per Cameron e per Tsipras, per Hollande, per
la Merkel ed anche per il nostro Vispo Tereso – è un vero e
proprio incubo: il nefasto trattato transatlantico di libero scambio,
che gli americani vogliono a tutti i costi imporre all’Europa, ma
che è a tal punto contrario agli interessi europei da poter
determinare la fine politica di tutti i capi di governo che dovessero
sottoscriverlo o avallarlo.
Ecco
perché tanta fretta di consultare gli elettori inglesi. Ma non è
detto che la ciambella di Cameron riesca col proverbiale buco. Anzi,
il referendum di giugno potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.