Shylock
.Avevo forse dieci anni quando un giorno mio padre m’indicò l’orizzonte — i palazzi, i monumenti, le fabbriche, i campi, le montagne — e mi disse, non che un giorno tutto quello sarebbe stato mio, ma al contrario che il nostro paese aveva circa tre fantastiliardi di debiti. La cifra era spaventosa, tuttavia mio padre mi rassicurò: non c’è da preoccuparsi, così va l’economia. O meglio così andava nel secolo ventesimo. Nel frattempo, beh, il meccanismo si è inceppato e oggi ci ritroviamo i creditori sotto casa, come in una commedia di Goldoni. Quel debito, che a lungo era sembrato naturale, oggi è diventato un serio problema.
Di tutta evidenza il problema non è il debito in sé. Il problema è che i creditori hanno iniziato a dubitare che fossimo in grado di restituirlo. Insomma ci troviamo nella situazione del Mercante di Venezia. Nella pièce di Shakespeare, Antonio chiede un prestito di tremila ducati all’usuraio Shylock — ebreo malefico come imponevano le convenzioni del genere. Il prestito servirà a Bassanio per corteggiare la bella Porzia. All’inizio della commedia, Antonio è piuttosto tranquillo: attende il ritorno di tre sue navi cariche di ricchezze. Ma le navi tardano. Al secondo atto, gira voce che una sia affondata, e la tensione comincia a salire. Quando poi al terzo atto si scopre che tutte le navi sono colate a picco, ecco che il debito di Antonio è diventato un serio problema, e la commedia rischia di trasformarsi in tragedia. Al nostro paese è successo circa questo: abbiamo tre navi disperse in alto mare, e nessuno è in grado di stabilire se e quando arriveranno in porto. Ma la verità è che sono affondate da tempo.
In seguito alla bancarotta di Antonio, il mercante e l’usuraio si affrontano in tribunale per stabilire su chi deve ricadere la perdita (incarnata, alla lettera e per il massimo divertimento del pubblico, da una famigerata “libbra di carne”). Malgrado l’antipatia del personaggio e il pregiudizio etnico della corte, il tribunale non trova alcun argomento contro Shylock. Il contratto era chiaro, e Antonio ha accettato il rischio. Soltanto una sofisticata arguzia salverà l’incauto debitore dal suo tragico destino.
Un simile processo potrebbe avere luogo oggi, tra creditori e debitori, per stabilire chi debba “pagare la crisi“. I primi vogliono, ovviamente, recuperare il loro prestito e i loro interessi. Ma i secondi, colpo di scena, sostengono di essere stati raggirati. Il debito che hanno contratto potrebbe essere illegittimo ovvero, come si dice in diritto internazionale, “odioso“. Certo il prestito è stato formalmente accettato. Ma a che condizioni? Con quali margini di libertà? Celando quali informazioni fondamentali?
Secondo questa prospettiva, il debito ha preso il posto del salario come forma principale dell’asservimento degli individui al capitale, nonché come strumento di governance geopolitica mondiale. Il debito come nuovo contratto sociale che fonda una società iniqua e oscena. Di questa trasformazione del capitalismo la cosiddetta crisi è il momento apocalittico. Questa rivelazione interviene dopo decenni nei quali si è cercato di forzare i limiti dello sviluppo, drogando la domanda perché corrispondesse all’offerta, accumulando in questo modo un impressionante debito pubblico e privato. Questo è forse ciò che i teorici del signoraggio e altri poundiani tentano di evocare con le loro sghembe involontarie metafore, che fanno dell’ebraismo di Shylock un carattere sostanziale ed espiatorio. Ma è anche quanto si capisce leggendo un buon keynesiano come Stiglitz: errori imperdonabili, non sempre in buona fede, sono stati commessi da soggetti che emettevano credito come slot-machines impazzite.
Gli uffici marketing, da parte loro, ci spiegavano che tutto è permesso e che il lusso è un diritto, fintanto che fa girare l’economia. Le nostre navi non avrebbero retto le onde, ma questo non era certo un problema loro. Aveva ragione Guy Debord affermando che non c’è solo un’alienazione nel lavoro ma soprattutto un’alienazione nel tempo libero, ovvero nei consumi. Ma non possiamo fingere di essere stati plagiati: il nostro misero tornaconto lo abbiamo avuto vivendo sopra le nostre possibilità per almeno un decennio o due. Una connivente sincronicità liberale-libertaria si era instaurata tra la domanda e l’offerta, tra gli eredi del Sessantotto e i profeti della deregolamentazione. Abbiamo preso alla lettera le parole d’ordine dei maîtres à penserdel nuovo canone occidentale (tra i quali Debord stesso) e reso necessari i nostri lussi: la cultura, il bovarismo, la ribellione, i prodotti di nicchia, la libertà creativa, la conservazione del patrimonio artistico, eccetera. Ed è per tutto questo che ci siamo indebitati fino al collo, in tutta consapevolezza, perché ogni cosa ci sembrava necessaria, ed in effetti lo era — necessaria e bella, anche se non ce la potevamo permettere — proprio come l’amore di Bassanio per Porzia.
Porzia
(Fonte: http://www.eschaton.it/blog)
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