sabato 29 aprile 2017

Lo Stranamore USA che aiuta a sganciare la bomba...


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La pantomina mediatica che si sta svolgendo intorno alla Repubblica Popolare Democratica Coreana è così surreale da chiedersi come facciano i giornalisti mainstream a dormire rilassati dopo avere riportato per dovere di cronaca le assurde dichiarazioni statunitensi.

Anzitutto la Corea del Nord è nazione non belligerante ormai da 64 anni (dall'armistizio del luglio 1953) quindi meriterebbe, al riguardo della pace mondiale, una menzione d'onore con lode da parte dell'Onu.
Degli U$A si deve dire l'esatto contrario: 222 anni di guerra su 239 di esistenza, la nazione più bellicosa del pianeta.


Ad ogni buon conto, una nazione ha diritto di costruire e sperimentare entro i propri confini le armi difensive che vuole, a meno che abbia sottoscritto qualche trattato internazionale limitativo al riguardo, e non mi pare che il Nordcorea abbia aderito a trattati di non proliferazione nucleare.


Il governo degli $tati Uniti ha innescato una crisi politica internazionale insensata, poiché non motivata da alcun fatto oggettivo, salvo la necessità di sviare l'attenzione dalla grave violazione del diritto internazionale compiuta con il pur fallimentare attacco missilistico su una base evacuata in Siria, oltretutto senza alcuna giustificazione difensiva, poiché la Siria non ha mai attaccato gli U$A, e con una motivazione, oltre che giuridicamente invalida, falsa, tant'è vero che persino l'Onu ha dovuto ammettere l'inesistenza di prove relative all'impiego militare di gas letali da parte di chichessia in Siria il 4 aprile scorso: non solo nessuno ha potuto provare responsabilità del governo di Assad, ma nemmeno che qualcuno abbia davvero impiegati sarin o altri gas militari.


Davanti alla fermezza russa e cinese gli U$A hanno cercato una esibizione di potenza con una superbomba sull'Afghanistan e immediatamente dopo minacciando Pyongyang con pretesti indifendibili.


L'unico risultato è che da tre settimane i due governi sono occupati a fare la faccia dura cercando di non sfigurare di fronte a una guera impossibile.


Non si tratta solo del fatto che entrambe le due nazioni sono stati atomici (per cui anche vincendo un ipotetico conflitto gli U$A rischierebbero per la prima volta di essere colpiti da armi nucleari), ma anche del fatto che chi scatenasse davvero la prima mossa bellica, cioè un attacco, andrebbe incontro ad un peggioramento devastante delle relazioni con Cina e Russia, che giustamente non vogliono assolutamente una guerra nella loro zona.


Quindi gli amerikani, che hanno innescato questa crisi, sono di fronte al problema di uscirne senza perdere la faccia, sapendo che ogni mossa sbagliata potrebbe essere fatale.
La situazione è terribilmente imbarazzante, perché l'economia U$A ha strutturalmente bisogno di imperialismo, e dunque di guerra.


Trump si è dichiarato, sia in campagna elettorale che ancor oggi, avversario di queste guerre e favorevole piuttosto a negoziati internazionali, ma anche il presidente U$A deve gestire le pretese delle potenze economiche interne alla sua nazione, e il peso del complesso industrial-militare si fa sentire.
Cos' Kim e Trump si lanciano fieri proclami minacciosi pur sapendo di non poter passare a vie di fatto, e partecipano ad un circolo visioso di cui non è chiara la via di uscita.


L'informazione mainstream difende a priori la posizione amerikana, ma priva di solidi argomenti.
Complessivamente, questa si chiama stupidità.


La stupidità amerikana di non volere né sapere costruire una alternativa al mito capitalista della continua valorizzazione del capitale, che conduce invariabilmente all'imperialismo come sfogo necessario.


Eppure, non possono continuare il gioco all'infinito, e non si tratta solo del problema Coreano.


Si tratta del fatto che l'Eurasia è ormai sufficientemente potente e solida da impedire ogni ulteriore sogno espansionista yankee.


E siccome anche il baricentro economico e finanziario, oltre che militare, del pianeta si sta spostando lentamente ma continuamente verso Est, gli U$A, volenti o nolenti, saranno costretti dai fatti a dover revisionare il loro modello di sviluppo, per impossibilità di ulteriore espansione.

Anche se la loro classe dirigente si rifiuta di farlo, è la realtà concreta del pianeta che li obbligherà a cercare nuove diverse soluzioni: il vecchio imperialismo occidentale funziona sempre meno.


A questo punto, le minacce di potenza militare assomigliano sempre di più ad una vecchia comica mal riuscita:giunti al confine nucleare, tutti sanno di non poter procedere oltre, pena l'autodistruzione.

E il capitalista può essere cattivo, ma non così stupido da volersi autodistruggere.


Sarebbe ora, dunque, che i governi (finora impresentabili) dell'Euramerika cominciassero a pensare cose serie, smettendo di giocare con la benzina ed i fiammiferi.


Per esempio , immaginando un modello di sviluppo sostenibile e non capitalista.
Il socialismo ancora oggi attende di essere realizzato.


Vincenzo Zamboni

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venerdì 28 aprile 2017

La madre dello "ius soli" è sempre incinta


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“Fate cinque figli, il futuro dell’Europa è vostro” (Erdogan)

In attesa dei primi risultati delle presidenziali francesi, rileggo le cronache dell’ultimo attentato del “multiculturalismo” al nostro stile di vita, quello che è costato la vita a un poliziotto sugli Champs Elysées. Secondo l’agenzia di stampa dell’ISIS, lo avrebbe compiuto tale Abu Yussef al-Belgiki, dove al-Belgiki sta per “il belga”. Errore – strilla la stampa d’oltralpe, riecheggiata dalla nostra – perché l’assassino del poliziotto “è un francese”.

Avete capito? Ai tempi bui degli Stati Nazionali e delle “società chiuse” i francesi si chiamavano Armand, Michel, Georges, Joseph, eccetera. Oggi – nell’epoca gaia della Open Society, dei miliardari-filantropi e di Papa Bergoglio – i francesi e i belgi posso chiamarsi Abu, Yussef, Alì o Babà. Basta che le loro genitrici li abbiano partoriti qui da noi, e il gioco è fatto: avranno acquisito per sempre il diritto alla cittadinanza (e all’assistenza sanitaria e alla previdenza e all’istruzione e all’edilizia popolare e a tutto il resto) di Francia, Belgio, Italia o Germania. È il meccanismo infame dello ius soli, cioè della cittadinanza acquisita per il semplice fatto di essere nati in un determinato paese. Storicamente, è il metodo adottato dai paesi nati dalla trasformazione post-coloniale in nazioni di nuovo conio, che avevano interesse ad accogliere gli stranieri perché ingrossassero le fila della popolazione bianca per sopravanzare e dominare (se non proprio annientare) quella indigena: fu così che tanti figli di italiani, francesi, irlandesi, polacchi, eccetera divennero cittadini degli Stati Uniti, dell’Australia o del Canada.

In Europa, invece, dove le nostre popolazioni non avevano interesse – per dirla con le stesse parole – a farsi sopravanzare e dominare (se non proprio annientare) da altre genti, continuò a vigere l’antico diritto della nostra civiltà, quello dello ius sanguinis; del diritto – cioè – ad ereditare la cittadinanza dei propri genitori (o di almeno un genitore). Questo fino a non moltissimi anni fa, quando cominciò a manifestarsi la manovra invasiva, sia pur ancòra in dimensioni contenute. Incredibilmente, era proprio da quel momento, da quando cioè il pericolo iniziava a materializzarsi, che i partiti di sinistra europei si attivavano per introdurre anche qui da noi quell’americanata dello ius soli. Obbedivano a un input che giungeva dall’estrema destra economica mondialista, come oggi è evidentissimo: basta vedere chi sono i finanziatori delle flotte ONG che svolgono il servizio taxi dalla Libia alla Sicilia. Input – quello della destra più reazionaria – che naturalmente era ammantato di parole d’ordine “progressiste”: buonismo, antirazzismo, “uguali diritti” e tutto l’armamentario delle castronerie veicolate dalla grande stampa posseduta dai poteri forti.

Non mancavano neanche gli interessi per così dire locali. Non ancòra il business dell’accoglienza (Buzzi docet), ma fin da allora il cinico calcolo che i voti dei neo-cittadini acquisiti potessero in un domani colmare le defezioni sempre più numerose che l’elettorato tradizionale della sinistra cominciava a registrare. Era il caso, in special modo, del partito laburista inglese, che ha da sempre favorito l’immigrazione di massa per basse alchimie elettoralistiche. E questo fino agli ultimi governi laburisti. Lo hanno detto e scritto qualificati esponenti della sinistra britannica. Per esempio, Andrew Neather, ex consigliere del premier Tony Blair, o lord Peter Mandelson, ex ministro del governo Brown: «Nel 2004, come governo laburista, noi non solo abbiamo accolto a braccia aperte chi veniva qui per lavorare, ma abbiamo mandato procacciatori affinché incoraggiassero gente a immigrare ed a prendersi il lavoro qui.»

Perché ricordo queste cose? Perché sono cose che dovrebbero essere tenute ben presente ogni qual volta un terrorista “in sonno”, o magari “radicalizzato” nelle nostre carceri, si sveglia e compie stragi a Parigi o a Bruxelles, a Londra o a Berlino o a Stoccolma. Non sono “immigrati” – squittiscono i buonisti di casa nostra – ma “francesi” o “belgi”; ovvero – come preferiscono chiamarli nel Califfato – al-Faransi o al-Belgiki.

Basta questo a far comprendere l’immensa, incommensurabile idiozia dello ius soli. Non è “accoglienza”, non è “salvare vite umane”, ma è trasformare milioni di stranieri in cittadini europei, con tutti i pericoli che ne derivano: da quelli di carattere sociale ed economico, a quelli di natura criminale. In fondo il responsabile vero dell’uccisione del poliziotto parigino non è lo sfigato che pensava di guadagnarsi il paradiso di Allà facendo una strage; ma chi, in una comoda aula parlamentare, ha legiferato per consentire a lui e a tanti altri come lui di diventare cittadini francesi.

Il problema non è l’accoglienza, il problema è la permanenza, è la perfida manovra di ingegneria etnica e sociale che sta a monte di una strategia immigrazionista, concepita e messa in opera da chi vuole distruggere l’identità dei popoli europei.

Michele Rallo - ralmiche@gmail.com



mercoledì 26 aprile 2017

Roma. Eudonna per un nuovo Pensiero Femminile - Programmi di Maggio 2017


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Il nostro impegno per la creatività delle Donne, attraverso il Magazine Eudonna, non può farci dimenticare la vocazione del circuito Eudonna, che forse rappresenta l'originalità del nostro Progetto: far maturare la consapevolezza di un nuovo pensiero Femminile, che superi le contraddizioni della Parità, e che sia al tempo stesso intellettuale e politico, il secondo al servizio del primo, entrambi capaci di contaminare le menti delle Donne, anche oltre i confini nazionali.

E con quale obiettivo? Quello di affrancare il Femminile da paradigmi
esistenti , ereditati da millenni di storia scritta da altri, perché
sia consentito alle Donne di riscriverla, la Storia, imprimendole un
autentico timbro eterosessuale e individuando nuovi parametri per la
società, l'arte, l'economia,la politica. Nuovi parametri e nuove
coordinate di riferimento...quelle che sono a cuore alle Donne di tutto il
mondo: CULTURA, PACE E VITA .

E' in questa ottica che voglio attrarre la vostra attenzione sul coraggio
di Sholeh Mirfattah Tabrizi, aderente ad Eudonna dal 2009, oggi candidata
in Iran. Guardate le foto che la ritraggono (clicca qui) con il velo nero.
Da quelle parti è un obbligo indossarlo per evitare di essere "fuori dai
giochi". Un compromesso che non mina la fierezza di questa donna che noi
conosciamo da tanti anni per le sue battaglie sociali nella zona dei
Castelli romani.

Dal 27 aprile al 4 maggio con Eudonna Magazine saremo presenti alla 65a
edizione del Trentofilmfestival.

A Napoli , il 28 aprile , alla Basilica di San Giovanni Maggiore (ore
17 - 19.00) , saremo alla cerimonia "SOS PARTENOPE ". Ci aspetta Eugenia
Serafini, nostra affezionata simpatizzante, che insieme ad altri 99 artisti
dona una sua opera per sovvenzionare con un croudfunding la traduzione e
la pubblicazione di un libro che esalta la cultura e il patrimonio
artistico della citta' di Napoli


A Roma il 28 aprile , alla Sala Petrassi dell'Auditorium della Musica,
per le ore 21.00 un'altra amica del nostro circuito, Lisa Bernardini,
professionista della Comunicazione con L'ASSOCIAZIONE l'Occhio dell'Arte,
ci propone "Le chiamavano colonne sonore" un caleidoscopio di performances
del Maestro Franco Micalizzi, celebre compositore degli anni 70 e 8


Dal 28 al 29 aprile saremo a Frascati per una collettiva dove espongono
diverse donne, tra cui la nostra Daniela Tiberi


Alla Fiera di Roma , il 1 maggio, in occasione del festivaldell'
oriente.com , saro' relatrice per il Mandir della Pace dalle 20.00 alle
21.00, insieme al Prof Andrea Fiorentini psichiatra, sul tema "Il
conflitto di coppia: una criticità solo occidentale". Vi aspetto alla Fiera
di Roma anche per divertirci insieme attraverso un percorso gastronomico,
musicale e di spettacoli vari , all'insegna di un'atmosfera etnica , dai
sapori e dagli odori spiccatamente orientali


A Roma il 4 maggio al Teatro Elettra, in Via Capo d'Africa 32, ci
aspetta Pamela Cavalieri, aderente al nostro Movimento. Pamela ha il suo
lavoro ma non trascura la passione di sempre. E' attrice e ci presenta
la sua ultima fatica teatrale : "La signorina Papillon" di S. Benni.
Aspetto le vostre conferme per ritrovarci ad applaudirla in gruppo alle ore
21.00

Giovanna Sorbelli

martedì 18 aprile 2017

Roma, 19 aprile 2017 - Con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame per la dignità e la libertà


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19 Aprile 2017 - Roma, ore 17-19, Largo Argentina. Con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame per la dignità e la libertà

Dopo aver trascorso gli ultimi 15 anni in una prigione israeliana, sono stato sia un testimone, sia vittima, del sistema illegale di Israele di arresti arbitrari di massa e maltrattamenti di prigionieri palestinesi. Dopo aver esaurito tutte le altre opzioni, ho deciso che non c'era altra scelta che resistere a questi abusi cominciando uno sciopero della fame.
Circa 1.000 prigionieri palestinesi hanno deciso di prendere parte a questo sciopero, che inizia il 16 aprile 2017, giorno che qui celebriamo come Giorno dei prigionieri. Lo sciopero della fame è la forma più pacifica di resistenza a disposizione. Esso infligge dolore esclusivamente a coloro che vi partecipano e ai loro cari, nella speranza che gli stomaci vuoti e il sacrificio aiutino il messaggio a risuonare al di là dei confini delle buie celle.
Decenni di esperienza hanno dimostrato che il sistema inumano di occupazione coloniale e militare israeliana punta a sfibrare lo spirito dei prigionieri e della nazione a cui appartengono, infliggendo sofferenze sui loro corpi, separandoli dalle loro famiglie e comunità, utilizzando misure umilianti per costringere alla sottomissione. A dispetto di tale trattamento, non ci arrenderemo ad esso.
Israele, la potenza occupante, ha violato il diritto internazionale in molti modi per quasi 70 anni, ma gli è stata garantita impunità per le proprie azioni. Ha commesso gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra contro il popolo palestinese; i prigionieri, tra cui uomini, donne e bambini, non fanno eccezione.
Avevo solo 15 anni quando sono stato imprigionato per la prima volta. Avevo appena 18 anni quando un ufficiale israeliano mi ha costretto a divaricare le gambe mentre mi trovavo nudo nella stanza degli interrogatori, prima di colpire i miei genitali. Sono svenuto dal dolore, e la caduta conseguente ha lasciato una grande cicatrice che da allora segna la mia fronte. L’ufficiale mi prese in giro, dicendo che non avrei mai potuto procreare, perché dalla gente come me nascono solo terroristi e assassini.
Pochi anni dopo, ero di nuovo in una prigione israeliana, conducendo uno sciopero della fame, quando nacque il mio primo figlio. Invece dei dolci che di solito distribuiamo per celebrare simili eventi, ho distribuito agli altri prigionieri del sale. Quando aveva appena 18 anni, mio figlio a sua volta è stato arrestato e ha trascorso quattro anni nelle prigioni israeliane.
Il più anziano dei miei quattro figli è ora un uomo di 31. Eppure, io sono ancora qui, continuando questa lotta per la libertà insieme a migliaia di prigionieri, milioni di palestinesi e il sostegno di così tanti in tutto il mondo. L'arroganza dell‘occupante oppressore e dei suoi sostenitori li rende sordi a questa semplice verità: prima che riescano a spezzare noi, saranno le nostre catene ad essere spezzate, perché è nella natura umana rispondere al richiamo della libertà a qualsiasi costo.
Israele ha costruito quasi tutte le sue carceri all'interno dei propri confini, piuttosto che nel territorio occupato. In tal modo, ha illegalmente e forzatamente trasferito civili palestinesi in cattività, usando questa situazione per limitare le visite dei familiari e per infliggere sofferenze attraverso lunghi trasferimenti in condizioni crudeli. I diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti dal diritto internazionale - tra cui alcuni dolorosamente guadagnati attraverso precedenti scioperi della fame – sono stati trasformati in privilegi che l’amministrazione penitenziaria può decidere di concedere o sottrarre.
I prigionieri e detenuti palestinesi hanno subito torture, trattamenti inumani e degradanti e negligenza medica. Alcuni sono stati uccisi durante la detenzione. Secondo gli ultimi dati, circa 200 prigionieri palestinesi sono morti dal 1967 a causa di tali azioni. I prigionieri palestinesi e le loro famiglie rimangono anche un obiettivo primario della politica di Israele di imposizione di punizioni collettive.
Nel corso degli ultimi cinque decenni, secondo l’organizzazione per i diritti umani Addameer, più di 800.000 palestinesi sono stati imprigionati da Israele - pari a circa il 40 per cento della popolazione maschile del territorio palestinese. Oggi, circa 6.500 sono ancora in carcere, tra i quali alcuni che detengono il triste primato dei più lunghi periodi di detenzione dei prigionieri politici al mondo. È difficile trovare una sola famiglia in Palestina che non abbia patito la detenzione di uno o più dei suoi componenti.
Come dar conto di questo assurdo stato di cose?
Israele ha stabilito un regime giuridico duale, una forma di apartheid giudiziaria, che garantisce potenziale impunità per gli israeliani che commettono crimini contro i palestinesi, mentre criminalizza la presenza e la resistenza palestinese. I tribunali di Israele sono una parodia della giustizia, palesi strumenti di occupazione coloniale e militare. Secondo il Dipartimento di Stato, il tasso di condanna per i palestinesi nei tribunali militari è del 90 per cento circa.
Tra le centinaia di migliaia di palestinesi che Israele ha arrestato, ci sono bambini, donne, parlamentari, attivisti, giornalisti, difensori dei diritti umani, accademici, esponenti politici, militanti e familiari dei detenuti. Tutto con un unico obiettivo: seppellire le legittime aspirazioni di un'intera nazione.
Al contrario, le prigioni di Israele sono diventate la culla di un duraturo movimento per l'autodeterminazione palestinese. Questo nuovo sciopero della fame dimostrerà ancora una volta che il movimento dei prigionieri è la bussola che guida la nostra lotta, la lotta per la Libertà e la Dignità, il nome che abbiamo scelto per questo nuovo passo nel nostro lungo cammino verso la libertà.
Le autorità israeliane e il servizio carcerario hanno trasformato i diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti dal diritto internazionale in privilegi da concedere o sottrarre discrezionalmente. Israele ha provato ad etichettare tutti noi come terroristi per legittimare le sue violazioni, tra cui gli arresti di massa arbitrari, le torture, le misure punitive e le rigide restrizioni. Come parte dello sforzo di Israele di minare la lotta palestinese per la libertà, un tribunale israeliano mi ha condannato a cinque ergastoli e 40 anni di carcere in un processo farsa che è stato denunciato dagli osservatori internazionali.
Israele non è la prima potenza occupante o coloniale a ricorrere a tali espedienti. Ogni movimento di liberazione nazionale nella storia ricorda pratiche simili. Questo è il motivo per cui così tante persone che hanno lottato contro l'oppressione, il colonialismo e l'apartheid sono dalla nostra parte. La campagna internazionale per 'la liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi' che l'icona anti-apartheid Ahmed Kathrada e mia moglie, Fadwa, hanno lanciato nel 2013 dalla ex cella di Nelson Mandela a Robben Island ha avuto il sostegno di otto vincitori del Premio Nobel per la Pace, 120 governi e centinaia di dirigenti, parlamentari, artisti e accademici di tutto il mondo.
La loro solidarietà smaschera il fallimento morale e politico di Israele. I diritti non sono elargiti da un oppressore. La libertà e la dignità sono diritti universali che sono connaturali all’umanità e devono essere goduti da ogni nazione e da tutti gli esseri umani. I Palestinesi non saranno un'eccezione. Solo porre fine all’occupazione potrà cessare questa ingiustizia e segnare la nascita della pace.

Marwan Barghouti, 16 aprile 2017 


Grazie a Luigi Daniele   per la traduzione

lunedì 17 aprile 2017

Chiesa cattolica apostolica romana.... "lasciate che i poveri vadano altrove..."


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Duemila miliardi di dollari: questo è il valore solo del patrimonio immobiliare della Chiesa Cattolica in tutto il mondo.

Poi ci sono le riserve di oro (c’è chi parla di oltre 60.000 tonnellate in depositi situati in varie parti del mondo) e, non ultimo lo IOR, la famigerata Banca Vaticana.


Inoltre le riserve finanziarie del Vaticano sono composte anche da azioni ed obbligazioni di società di tutto il mondo, con la partecipazione alle attività economiche più svariate, industriali, agricole e del terziario.


In particolare l’APSA (Amministrazione Patrimonio Sede Apostolica), che, almeno in teoria, dovrebbe gestire solo il mantenimento della Curia Romana, ha mediamente disponibile una liquidità immediata di circa un miliardo di euro, oltre ad azioni, oro ed obbligazioni varie.


Incalcolabile poi il valore delle opere d’arte custodite in chiese, cappelle, conventi e monasteri.


Ma poi c’è un universo di ordini religiosi, confraternite, congregazioni, fondazioni, enti morali che possiedono imperi economici sparsi in tutto il mondo, il cui immenso valore nessuno è in grado di valutare.


Solo come esempio, il patrimonio di Propaganda Fide (il ministero delle missioni) è stimato in 10 miliardi di euro.


Il patrimonio immobiliare della Chiesa Cattolica è costituito da interi fabbricati, singoli appartamenti, terreni, scuole private ed università a pagamento, alberghi, case di accoglienza per pellegrini a pagamento, musei con ingresso a pagamento, negozi, supermercati, centri commerciali, case di riposo a pagamento, ospedali etc ….


Solo in Italia, circa il 22% del patrimonio immobiliare è di proprietà della Chiesa Cattolica !


Innumerevoli poi sono le società finanziarie e commerciali controllate soprattutto da ordini religiosi e fondazioni cattoliche.


A questo patrimonio vanno poi aggiunti ovviamente chiese, cattedrali, conventi, monasteri, case generalizie, missioni e seminari che però non danno reddito.


E ancora ci sono le donazioni, alcune anche molto consistenti, le offerte ed elemosine che i fedeli danno in tutto il mondo nelle chiese e, non ultime, le “offerte” richieste per messe di suffragio, cerimonie funebri, cerimonie nuziali etc …. i cui proventi in tutto il mondo sono tutt’altro che da sottovalutare.
In alcuni santuari famosi, le cassette dell’elemosina si trovano perfino nei bagni ….


Nel caso particolare dell’Italia, non si può poi trascurare che la Chiesa Cattolica incassa circa un miliardo e duecento milioni di euro all’anno grazie all’otto per mille dell’IRPEF.


Istituzioni simili al nostro otto per mille esistono anche in Spagna ed in qualche altro paese nel mondo.


Un altro grande affare per la Chiesa sono le migliaia di istituzioni disseminate in tutto il mondo che affittano camere per il cosiddetto “turismo religioso” nei più famosi luoghi di pellegrinaggio. Queste “case di accoglienza” fatturano circa 4 miliardi di euro all’anno.


Un discorso particolare merita infine lo IOR, la Banca Vaticana, che gestisce un patrimonio di circa sei miliardi di euro, implicato in decine di casi di riciclaggio di denaro sporco, scandali finanziari, episodi oscuri e perfino omicidi.


Ricordiamo soltanto lo scandalo del Banco Ambrosiano al quale sono collegate le misteriose morti del finanziere Roberto Calvi e della sua segretaria, la scoperta dei fondi neri amministrati dall’arcivescovo Marcinkus, i rapporti col finanziere Sindona, strettamente legato ad ambienti della mafia siciliana, anch’egli morto misteriosamente, l’omicidio del finanziere Giorgio Ambrosoli, lo scandalo Enimont all’epoca di tangentopoli, lo scandalo “calciopoli” nel quale si è appurato che i fondi neri della Gea World di Alessandro Moggi erano depositati presso lo I.O.R., lo scandalo “grandi opere” nel quale si è appurato che Angelo Balducci avesse i suoi fondi neri depositati presso lo I.O.R, i rapporti non chiari dello I.O.R. con decine di Banche Italiane.


Chiudiamo con un passo del Vangelo: “Gesù entrò poi nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e disse loro: La Scrittura dice: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri” ( Vangelo di Matteo 21,12-13)

Giuseppe Merlino 

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venerdì 14 aprile 2017

Le armi chimiche ... ci sono e non ci sono... secondo le convenienze


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Assad non ha armi chimiche nel suo arsenale, esattamente come non le aveva Saddam. L’uno e l’altro erano semplicemente degli ostacoli sulla strada del “Grande Medio Oriente” disegnato dalla strategia mondialista dei poteri forti, fortissimi che comandano a Washington come a Tel Aviv, come in certe monarchie petrolifere del Golfo.
Ma torniamo alle armi chimiche, che i paesi industrializzati hanno regolarmente utilizzato fino alla guerra cino-giapponese (1937-45), continuando poi a produrle ed a stoccarle sin quasi alla fine del secolo scorso. Dal 1997 sono state messe al bando da una Convenzione Internazionale sulle Armi Chimiche, ma alcuni paesi (compresi gli USA) non si sono sbarazzati di tutte le rimanenze, ancorché senza più farvi ricorso.
L’ultimo paese a fare uso di aggressivi chimici è stato negli anni ’80 (quindi prima del bando) l’Iraq di Saddam Hussein, al tempo sostenuto dagli Stati Uniti nella sua guerra contro l’Iran komeinista e contro la dissidenza kurda filoiraniana. Da allora, le armi chimiche sono state utilizzate soltanto da gruppi terroristici, e con non poche difficoltà: l’unico episodio notevole è stato quello dell’attacco con gas sarin alla metropolitana di Tokio nel 1995 (12 morti e 5.000 intossicati).
Fin qui la “scheda tecnica”. Venendo invece all’attualità politica, v’è da dire che – quando la Siria nel 2011 fu invasa da potenze straniere che si celavano dietro i “ribelli” – furono in molti a sperare che Assad potesse far ricorso alle armi chimiche, in modo da avere il pretesto per un “aiutino” un po’ più esplicito ai tagliagole (come in Libia). Ma, poiché il Presidente siriano si guardava bene dal farlo, ecco che – provvidenzialmente – un episodio del genere ebbe comunque a verificarsi nel 2013. Se nonché emerse chiaramente che ad usare le armi chimiche non era stato Assad, bensì “l’esercito degli insorti”, probabilmente allo scopo di offrire una scusa ad Obama per ripetere le gesta di Libia. Lo disse anche la magistrata elvetica Carla Del Ponte, ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale per i crimini di guerra in Jugoslavia e, all’epoca, componente autorevole della commissione ONU che indagava sui crimini di guerra in Siria: «Stando alle testimonianze che abbiamo raccolto – dichiarò la Del Ponte – i ribelli hanno usato armi chimiche.» E ancora: «Per quanto abbiamo potuto stabilire, al momento sono solo gli oppositori al regime ad aver usato il gas sarin.» Il Premio (ig)Nobel per la Pace fu quindi costretto a richiamare i bombardieri ed a fare buon viso a cattivo gioco.
A quel punto, onde evitare che qualcuno potesse ripetere il trucchetto, Assad si sbarazzò di tutte le armi chimiche che erano ancora conservate negli arsenali siriani. Americani e russi si accordarono perché gli ordigni venissero consegnati ad un custode certo non amico di Assad, la NATO, che nel giugno 1994 li imbarcò su una nave danese appositamente attrezzata, e li diede alle fiamme in pieno Mediterraneo (suscitando anche le proteste degli ambientalisti). Peraltro – ricorda in questi giorni Giulietto Chiesa – l’avvenuta consegna fu certificata anche dall’allora portavoce del Pentagono, John Kirby.
Dunque, dal giugno 1994 la Siria non possiede armi chimiche.
Ma, allora, chi – il 4 aprile scorso – ha fatto esplodere l’ordigno chimico a Idlib? La risposta logica non può essere che una: gli stessi che fecero il servizio tre anni fa, e cioè i “ribelli”, con il medesimo obiettivo: giustificare un intervento americano. Allora si sussurrò che a fornire armi chimiche ai tagliagole fossero stati i servizi segreti turchi. Ma si disse anche che quelle armi provenissero dai servizi americani: eravamo in piena stagione mondialista, con la Clinton al Dipartimento di Stato; e gli USA – si ricordi – non avevano (e non hanno) dismesso il proprio arsenale chimico. Tutte voci di corridoio – naturalmente – senza elementi che potessero essere oggettivamente riscontrati.
In questa occasione, ragionevolmente, i fornitori potrebbero essere stati gli stessi di tre anni fa. Ma – con ogni probabilità – non lo si saprà mai con certezza.
La cosa incredibile è che oggi, dopo la figuraccia del 2013, il Presidente americano abbia fatto partire una rappresaglia. E con tanta fretta, prima che una qualunque inchiesta dell’ONU potesse dimostrare che, anche questa volta, si era trattato della solita bufala ad uso dei creduloni.
Ma, a ben guardare, c’è anche un’altra differenza fra i due casi: allora c’era un Presidente che era in piena sintonia con l’ambiente bellicista delle “primavere arabe” e delle “rivoluzioni colorate”; oggi c’è un Presidente che in campagna elettorale s’era impegnato ad abbandonare quel mondo ed a cooperare con la Russia per distruggere l’ISIS e debellare il terrorismo.
Teoricamente, quindi, Trump avrebbe dovuto essere certamente più prudente di quanto non lo fosse stato Obama tre anni or sono. E, invece, è stato esattamente il contrario: missili sulla Siria, con obiettivo reale la Russia.

Il neo-presidente americano, evidentemente, è passato dall’altro lato della barricata. Là dove sono i “filantropi” che sognano la terza guerra mondiale.

Michele Rallo - ralmiche@gmail.com

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giovedì 13 aprile 2017

24 e 25 maggio 2017. Contro-vertice NATO - "Lassù qualcuno ci odia..."



Appello alla mobilitazione contro il vertice NATO

Il prossimo vertice NATO sarà il primo a cui parteciperà il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Si terrà il 24 e 25 maggio 2017 nei nuovissimi edifici della sede dell'Alleanza atlantica a Bruxelles, la città dove ha base la NATO e l'Unione Europea (UE), due istituzioni che collaborano strettamente nelle loro politiche militari. La NATO e gli Stati membri hanno preso parte a guerre e interventi militari illegali in Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Iraq, Siria, nel Mar Mediterraneo e nell'Oceano Indiano. Essi contribuiscono grandemente all'instabilità internazionale, alla corsa agli armamenti e alla militarizzazione.

La NATO resta legata alla più grande minaccia contro l'umanità: le armi nucleari. Di vertice in vertice la NATO perpetua, mette in opera ed estende la sua politica di guerra e di dominio. Il mondo intero è testimone delle conseguenze di questa politica: interi paesi sono devastati, milioni di persone diventano profughi, soffrono terribilmente o restano uccisi; l'ambiente si sta deteriorando in modo disastroso, l'estremismo violento e il terrorismo sono in aumento; tensioni e conflitti militari si moltiplicano; la proliferazione delle armi nucleari e il rischio di una guerra nucleare è in aumento.

La sola risposta della NATO di fronte a queste terribili conseguenze è quella di una accelerazione ulteriore del militarismo e della guerra. Tutti gli stati membri della NATO sono chiamati ad aumentare la loro spesa militare al 2% del PIL. In questo momento di crisi economica e di austerità, ciò equivale a ridurre sempre più gli stanziamenti destinati ai bisogni sociali, all'istruzione, alla giustizia, alla cooperazione internazionale e alla tutela dell'ambiente, che sono essenziali per costruire un mondo più pacifico e stabile.

Gli Stati membri della NATO utilizzeranno il 20% del loro bilancio per la difesa in attrezzature militari: navi da guerra, aerei da combattimento, droni, bombe, tecnologia. La potente lobby delle armi si strofina le mani in anticipo. La Nato accelera la corsa agli armamenti a scapito dei meccanismi diplomatici per la risoluzione dei conflitti.

La NATO sta aggravando le tensioni con la Russia, con il dispiegamento di truppe e armamenti al suo confine e l'installazione di un sistema di difesa anti-missili. Tutto questo rilancia lo sviluppo militare e impedisce la costruzione di relazioni pacifiche e una comprensione reciproca vantaggiosa.

La NATO e gli Stati membri moltiplicano gli interventi al di fuori dei loro territori e aumentano la loro presenza in tutto il mondo attraverso partenariati e "coalizioni dei volenterosi". Aumentano il loro dominio economico, politico e militare, piuttosto che investire politicamente e finanziariamente nelle Nazioni Unite per raggiungerne l'obiettivo di un mondo pacifico e più sicuro.

La NATO presenta lo sviluppo delle sue politiche nucleari come "garanzia" suprema sicurezza dei suoi membri, nonostante il fatto che la maggioranza dei paesi del mondo stia intavolando negoziati per un trattato che bandisca le armi nucleari. Nel frattempo, le armi nucleari statunitensi di stanza in Europa - sotto la copertura della NATO - e altrove, sono ammodernate a colpi di decine di miliardi di dollari.

Non vogliamo la militarizzazione dell'UE, né di una superpotenza europea, come preconizzano sempre più insistentemente i dirigenti dell'Unione. La chiusura militare delle frontiere europee non è una risposta alla sfida dell'immigrazione. I rifugiati sono i benvenuti.

La NATO è la macchina da guerra più aggressiva al mondo. Abbiamo bisogno, con urgenza, di pace e di sviluppo durevole. Ci appelliamo a tutte le persone e alle organizzazioni amanti della pace a unirsi alle proteste contro il vertice NATO a Bruxelles e in tutto il mondo. Esercitiamo pressioni sui nostri governi perché investano nel benessere sociale, non nella guerra. Domandiamo apertamente ai nostri governi di lasciare la NATO e che la NATO venga sciolta. Sul sito www.stopnato2017.org si possono visionare i firmatari, firmare l'appello e partecipare al contro-vertice.

Bollettino trimestrale del Comité de Surveillance OTAN N°64
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

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Integrazione/commento di  Paolo Sensini

«**** è divenuto presidente degli Stati Uniti d'America il 20 gennaio ****. In campagna elettorale, il programma di politica estera di **** prevedeva [...] una forte riduzione dei coinvolgimenti statunitensi in azioni militari di "esportazione della democrazia" e di altre attività militari; i suoi primi provvedimenti, infatti, sembravano prospettare uno scenario quasi isolazionista per gli Stati Uniti, col disimpegno da alcuni importanti trattati internazionali». Chi è il presidente americano in questione? No, non è Trump e nemmeno Obama, che pure si era imposto così nel 2008. Si tratta di George W. Bush, detto Dubya, che nella sua campagna elettorale pre 11 settembre 2001 dichiarava queste stesse cose. E ci fermiamo ai soli ultimi tre presidenti. Insomma, programmi fotocopia per accalappiare gli elettori americani stufi di continue aggressioni militari (con relative spese astronomiche) in giro per il mondo. Poi sappiamo com'è andata: guerre, guerre e ancora guerre. Con Trump l'asticella retorico-adrenalinica per la messa in scena dello spettacolo presidenziale si è alzata solo un po'. E tutti ci hanno creduto. Creduto, appunto..."

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Commento di Marco Bracci: 

"Fino a poco tempo fa, in base alla logica del meno-peggio, avevo sostenuto D. Trump perché dichiarava di essere contro la guerra.
Ho dovuto ricredermi e chiedo perdono a coloro che eventualmente avessero preso spunto da alcuni miei scritti per sostenere anche loro Trump.
Vale quindi ancora di più quanto dissi subito dopo l’elezione di Obama: “O è come gli altri o lo ammazzeranno!” Sbagliai, Obama è stato peggiore degli altri e Trump si appresta a superarlo."


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mercoledì 12 aprile 2017

Quel che la Russia può fare per contenere l'aggressione USA




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Come governare un Paese obiettivo do guerra del capo pazzo della junta militare di un altro Paese? Non è la storia della scelta di Josif Stalin nell’agosto 1939, prima che lui e Adolf Hitler decidessero lo stratagemma per guadagnare tempo noto come Patto di non aggressione tedesco-sovietico. Né si tratta di una domanda su Bashar al-Assad e la Siria, o Kim Jong-un e la Corea democratica. E’ la domanda a cui il Presidente Vladimir Putin è obbligato rispondere sulle opzioni della Russia di fronte a un regime statunitense in cui, come il Cremlino ora riconosce, una giunta militare dirige il presidente Donald Trump. “Abbiamo già visto tutto”, dichiarava ieri Putin.Il presidente continuava dicendo che ha due idee su ciò che va fatto e con dispiacere dovrà prendere una decisione. Da un lato, secondo Putin, la junta degli Stati Uniti prepara nuove operazioni per l’escalation della guerra in Siria, così come contro la Russia. “Abbiamo informazioni da una varietà di fonti che tali provocazioni (non riesco a trovare un’altra definizione) sono in preparazione in altre parti della Siria, tra cui la periferia sud di Damasco, dove pensano di piazzare alcune sostanze e accusarne le autorità siriane dell’uso”. 

Dall’altra parte, Putin ha anche detto, “siamo pronti a sopportare un incontro, nella speranza che comporti una tendenza positiva nei rapporti. Nella politica interna statunitense vi sono ragioni per questo. In poche parole, gli oppositori politici del presidente ci sono ancora, e se succede qualcosa ne sarà incolpato. Non ho alcun dubbio su questo”. Se Putin non ha dubbi, allora perché la riluttanza a decidere cosa fare e l’esitazione nel dirlo? Dopo l’attacco degli Stati Uniti alla Siria, i Ministeri della Difesa e degli Esteri russi annunciavano rapidamente i risultati delle indagini e nuove misure politiche, tra cui l’avviso che la presenza militare statunitense in Siria sia tra gli obiettivi russi. Putin dice che “Cose come questa vanno accuratamente indagate. Vorremmo indirizzarci ufficialmente alle apposite istituzioni delle Nazioni Unite dell’Aia e invitare la comunità internazionale a indagare a fondo tali argomenti. Una decisione ponderata può quindi essere presa secondo le conclusioni dell’inchiesta”. 

Anche se non lo dicono pubblicamente, Ministero della Difesa, Ministero degli Esteri, agenzie d’intelligence e servizi di sicurezza russi, sanno perfettamente dall’abbattimento del Volo MH-17 delle Malaysian Airlines in Ucraina nel 2014, che tale opzione comporta ad accusare i russi presso le Nazioni Unite e le corti internazionali europee. Il loro consiglio a Putin è smettere di proporre stratagemmi o altre cose impossibili. Parlando di “oppositori politici al presidente in carica” e “indagini internazionali”, Putin apre la porta a indecisione, ritirata e distruzione, per come ne viene avvisato il presidente. Per il presidente ciò appare una cattiva notizia. Le fonti vicine credono che a Putin “non piacciano le cattive notizie. Ancora meno quando vengono presentate per spingerlo a decidere qualcosa. Così si esclude dalla notizie isolandosi da chi si fidava nel parlare. Putin ha ora un squadra da ascoltare minore di quella di Stalin nel 1941. Inoltre, Putin non decide nulla”. 

Le fonti di tale valutazione aggiungono che a Putin manca l’opzione di Stalin nel comprendere le intenzioni e le provocazioni di Hitler durante la guerra, fingendo di evitarla e ritardare il più possibile il giorno della resa dei conti. “Stalin non sperava che la Germania non attaccasse la Russia”, dice una delle fonti. “Stalin ne era certo. Putin dice che spera che con gli Stati Uniti ci si possa accordare. Tutt’altro che certo”. Per prima cosa, dicono le fonti, le forze russe sono incomparabilmente più forti oggi di quanto non lo fossero nel 1939; per altro gli statunitensi sono incomparabilmente più deboli internamente e sui fronti di guerra dei tedeschi. Infine, Trump non può né comprendere né controllare i suoi generali. Hitler non era così irrazionale o impotente.



Così la grande domanda strategica resta: come governare la Russia di fronte alla junta di guerra degli Stati Uniti su più fronti? La risposta della Grande Strategia è rilanciare il Comitato di Difesa dello Stato (GKO) mettendo la Russia sul piede di guerra, e come fece Stalin nel 1941, ridistribuendo il potere che Putin ha finora trattenuto. Un regime militare in stile russo. Per capire come la squadra di Stalin operò prima, durante e dopo la guerra mondiale, leggasi questo. L’evidenza del processo decisionale collettivo di Stalin viene raccolta da testimonianze appena rilasciate, come la corrispondenza personale di Stalin e i diari delle riunioni d’ufficio. Una delle misure del processo decisionale collettivo, al tempo di Stalin, come di Putin, fu l’uso degli indirizzi russi, il Voi formale e il Tu informale. Un nucleo di cinque funzionari che si davano del tu con Stalin. 

Erano anche gli uomini che appaiono più di frequente nei diari di ufficio e nelle registrazioni della dacia. Dopo la guerra divennero sette; con la morte di Stalin, sei. Oggi, c’è il registro ufficiale degli incontri al Cremlino e quello segreto. Sottraendo le dovute ore agli eventi segnalati sul sito web del Presidente, dalle otto alle dieci ore per giornata lavorativa del presidente, evidentemente oggi almeno la metà delle riunioni di Putin è nascosta. Alla domanda con quali funzionari o amici Putin si da del tu piuttosto che del voi, numero e nomi non sono quasi mai riportati dalla stampa. In base a una pubblicazione di due anni prima, il conteggio del tu per Putin sarebbe inferiore a quello per Stalin. Quanti intimi di Putin sono amici nel mondo degli affari, i compari secondo l’Ufficio Controllo Risorse Estere (OFAC) del Tesoro degli Stati Uniti, non è noto. 

Tra i dirigenti economici che secondo fonti russe usano il tu vi è Aleksej Kudrin. Vladimir Jakunin, capo delle Ferrovie russe, si dava del tu con Putin fin quando fu licenziato, diciotto mesi fa. Igor Sechin, potente consigliere del Cremlino sulle risorse naturali e ora amministratore delegato di Rosneft, darebbe del voi a Putin; Aleksej Miller, capo di Gazprom, darebbe del tu. Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, userebbe pure il tu. La mattina del 7 aprile, dopo l’attacco degli Stati Uniti alla Siria, il servizio stampa del Cremlino rilasciava una dichiarazione alle 09:00. Il Ministero degli Esteri seguì con la propria dichiarazione alle 10:27. 

L’unico incontro ufficiale di Putin quel giorno, secondo il sito web del Cremlino, fu dopo mezzogiorno quando Putin incontrò il Consiglio di sicurezza. Nei registri delle riunioni del Consiglio di Sicurezza, diverse foto vengono inviate di solito mostrando funzionari seduti secondo il rango ai lati del tavolo, con Putin in testa. Il 7 aprile, tuttavia, appariva solo Putin. Dei partecipanti solo due del Consiglio di Sicurezza, il Primo ministro Dmitrij Medvedev e l’ex-capo dello staff presidenziale Sergej Ivanov, avrebbero dato del tu a Putin. Le forme d’indirizzo tra Putin e gli altri otto restano un segreto di Stato. Il nuovo capo dell’ufficio russo al Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, Fiona Hill, riconobbe nel suo rapporto del 2013 su Putin, che lei e le sue fonti non l’avevano chiesto e non lo sapevano.


Se le minacce militari degli Stati Uniti intensificano la pressione su Putin nell’adottare la postura di Stalin, l’approccio collettivo del periodo di guerra, superando i momenti d’isolamento ed indecisione, quale sarebbe la reazione russa se Putin seguisse Stalin e il Consiglio di sicurezza diventasse il GKO in caso di guerra? La risposta, secondo il sondaggio nazionale del Levada Center dello scorso luglio, è più positiva che negativa, molto più positiva rispetto a quanto Stati Uniti ed alleati in Europa e Asia calcolino. Per i risultati del sondaggio, leggasi questo.




John Helmer,  11 aprile 2017
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora