mercoledì 4 luglio 2012

Canapa, la pianta che tutti ci invidiavano! E' morta? - Estratto dalla Botanica del Desiderio

Alchimia della natura

Cannabis sativa

La pianta proibita e le sue tentazioni sono più vecchie del giardino dell’Eden, risalgono a un epoca antecedente anche a noi, come pure la promessa, o la minaccia, che esse rappresentarono sempre per le creature che desideravano provarle: la promessa della conoscenza e la minaccia della morte. Se do l’impressione di parlare delle piante proibite e della conoscenza in senso metaforico, non è questa la mia intenzione. E non sono tanto sicuro che lo fosse per l’autore della Genesi.

Gli esseri viventi hanno sempre dovuto farsi strada in un giardino selvatico di fiori, piante rampicanti, foglie, alberi e funghi che non offrivano solo nutrimento, ma anche veleni mortali. Conoscere tali sostanze è essenziale per la sopravvivenza di qualsiasi creatura, eppure tracciare una linea divisoria del mezzo del giardino, come fece il Dio della Genesi, non sempre funziona. Il punto è che esistono piante che fanno qualcosa di più bizzarro che non sostenere o estinguere la vita. Alcune guariscono; altre eccitano, calmano o placano il dolore corporeo. Ma la cosa più straordinaria è che nel giardino vivono piante che fabbricano molecole con il potere di modificare l’esperienza soggettiva della realtà che chiamiamo “coscienza”.
A cosa dobbiamo una cosa simile? Perché l’evoluzione ha prodotto piante in possesso di tale magia? Che cosa le rende tanto irresistibili per noi (e per molte altre creature), quando il loro impiego può avere un prezzo molto alto? Qual è la conoscenza offerta da una pianta come la cannabis, e perché è proibita?

Iniziamo dalla divisoria, come deve fare ogni essere vivente. In che modo distinguere le piante pericolose da quelle nutrienti? L’assaggio procura la prima informazione. Le piante che non vogliono essere mangiate spesso producono alcaloidi dal gusto amaro; mentre quelle che lo desiderano di solito fabbricano una grande quantità di zuccheri e li concentrano nella polpa che riveste semi, come nelle mele. Dunque la regola generale è che dolce è buono, mentre amaro è cattivo. Eppure sono proprio alcune delle piante amare, cattive, a contenere la magia più potente, capace di esaudire il nostro desiderio di alterare la struttura e perfino il contenuto della nostra coscienza. In mezzo alla parola “intossicazione”, ce n’è racchiusa un’altra chiaramente leggibile: “tossico”. La linea di separazione tra cibo e veleno può anche funzionare, ma non quella tra veleno e desiderio.

I molteplici e sottili pericoli del giardino, per i quali il senso del gusto offre solo una mappa approssimativa, sono principalmente frutto della strategia escogitata dalle piante per difendersi dagli animali. Gran parte della loro ingegnosità, vale a dire gran parte del processo evolutivo di miliardi di anni, venne impiegata per apprendere (o meglio, per inventare) l’arte della biochimica, nella quale il mondo vegetale eccelle al di là di qualsiasi umana immaginazione. (Moltissime conoscenze indispensabili alla produzione di farmaci derivano direttamente dalle piante.) Mentre noi animali eravamo impegnati a perfezionare funzioni come la deambulazione e la coscienza, i vegetali, senza neppure alzare un dito o elaborare un pensiero, acquisirono una gamma di poteri straordinari e talvolta diabolici, scoprendo come sintetizzare molecole notevolmente complesse. Le più incredibili (almeno dal nostro punto di vista) sono quelle progettate espressamente per agire sul cervello degli animali, a volte per attrarre la loro attenzione (nel caso del profumo dei fiori, per esempio) e più spesso per respingerli o per sopprimerli.
Alcune di queste molecole sono veleni belli e buoni, progettati solo per uccidere. Ma una delle grandi lezioni della coevoluzione (lezione appresa solo di recente dai ricercatori di pesticidi e antibiotici) è che il trionfo assoluto di una specie su un’altra di solito è una vittoria di Pirro. Infatti una tossina potente e letale riesce a esercitare una pressione selettiva tanto forte sulla popolazione che ha preso di mira che presto diventa inefficace, perché il bersaglio sviluppa resistenza, mentre potrebbe essere una migliore strategia per respingere, rendere inoffensivo o confondere. Sarebbe questa la ragione della straordinaria invenzione delle piante velenose: l’ampio catalogo di orrori e curiosità chimiche che iniziarono ad apparire durante il Cretaceo, con la comparsa delle angiosperme. Lo stesso spartiacque evolutivo, il “mistero insopportabile” di Darwin – che inaugurò le prodigiose arti dell’attrazione floreale -, introdusse anche quelle più oscure della guerra chimica.

Le tossine di alcune piante, come la nicotina, paralizzano o provocano convulsioni ai muscoli degli insetti che le ingeriscono. Altre, come la caffeina, scardinano il sistema nervoso dell’insetto e gli stroncano l’appetito. Le tossine dello stramonio (del giusquiamo e di molti altri allucinogeni) conducono i predatori alla pazzia, immettendo nel loro cervello visioni tanto spiacevoli o orribili da indurli a rinunciare al pasto. Sostanze composte chiamate flavonoidi modificano il gusto della polpa della pianta sulla lingua di alcuni animali, rendendo aspro un frutto dolcissimo e dolce uno aspro, a seconda delle intenzioni della pianta. Fotosintetizzatori presenti in specie come la pastinaca selvatica, causano ustioni agli animali che li ingeriscono; i cromosomi esposti a queste sostanze mutano spontaneamente se esposti alla luce ultravioletta. Una molecola presente nella linfa di certi alberi impedisce ai bruchi che ne assaggiano le foglie di svilupparsi in farfalle.

Con l’esperienza, gli animali riescono a capire – a volte nel corso di eoni, altre di una sola vita – quali piante sono sicure da mangiare e quali proibite. Esistono anche le controstrategie evolutive: processi digestivi disintossicanti, tattiche nutritive che riducono i rischi (come quella della capra, che bruca molte piante differenti ma in quantità innocue) o potenziano capacità di osservazione e memoria. Quest’ultima strategia, in cui eccellono in modo particolare gli uomini, permette a un essere vivente di apprendere dai successi e dagli errori di un altro.
Naturalmente gli “errori” sono particolarmente istruttivi, finché non sono fatali. Infatti alcune tossine che in forti dosi uccidono, se assunte in piccole quantità e aumentate gradualmente possono avere effetti interessanti, sia per gli animali che per gli esseri umani. Secondo Ronald K.Siegel, un farmacologo che ha studiato gli effetti dell’ebbrezza sugli animali, è frequente che essi sperimentino con cautela le tossine vegetali; quando trovano una pianta tossica, vi tornano più volte, talvolta con esiti disastrosi. Il bestiame può sviluppare una predilezione per l’astragalo che in certi casi risulta fatale; le pecore delle Montagne Rocciose si spezzano i denti per grattare via un lichene allucinogeno dalle rocce sporgenti. Siegel suggerisce che alcuni di questi animali temerari abbiano rivestito per noi il ruolo di Virgilio nel giardino delle piante psicoattive. Le capre, che assaggiano un po’ di tutto, hanno forse il merito di avere scoperto il caffè: i pastori abissini, nel x secolo, osservarono infatti che i loro animali diventavano particolarmente vivaci dopo aver mangiucchiato le lucenti bacche rosse di un cespuglio. I piccioni, storditi dai semi di cannabis (uno dei cibi preferiti di molti uccelli), potettero avere suggerito agli antichi cinesi (o agli ariani, o agli sciti) le speciali proprietà di questa pianta. Secondo una leggenda peruviana, sarebbe stato il puma a scoprire il chinino: le popolazioni indigene osservarono che spesso i felini malati guarivano dopo avere mangiato la corteccia dell’albero della china. Gli indios tukano dell’Amazzonia notarono invece che i giaguari, di norma carnivori, mangiavano la corteccia dello yaje e avevano allucinazioni; coloro che ne seguirono l’esempio dicono che la pianta di yaje dà loro gli “occhi del giaguaro”.

Ogni volta che leggo notizie simili mi chiedo come si faccia a stabilire quando un giaguaro ha le allucinazioni. Poi penso a Frank, il mio ultimo, malconcio gatto domestico, che secondo me mangiava d’abitudine piante stupefacenti per avere allucinazioni. Ogni sera d’estate, alle cinque in punto, Frank si trascinava nell’orto per un aperitivo a base di Nepeta cataria, o erba gatta. Prima l’annusava, poi mordeva le foglie e le strattonava, quindi iniziava a rotolarsi sulla schiena in una parossismo simile all’estasi sessuale. Le pupille gli si restringevano fino a diventare capocchie di spillo e assumeva uno sguardo fisso leggermente impaurito, che precedeva un balzo su un nemico o – chi può dirlo – un’amante invisibile. Frank atterrava maldestramente, si rialzava, faceva qualche buffo passo laterale e poi ricominciava, fino a quando, esausto, si metteva a dormire all’ombra di una pianta di pomodoro.

Più tardi ho appreso che l’erba gatta contiene un composto chimico, il nepetalactone, che imita il ferormone presente nell’urina dei gatti durante la stagione degli amori. Questa chiave chimica sembrerebbe combaciare con un recettore afrodisiaco nel cervello del gatto e solo con quello. Era divertente osservare il mio gatto scombussolato da una pianta, ma anche sconcertante: per quel breve momento, Frank barcollava per il giardino come se fosse letteralmente fuori di sé. Eppure il giorno dopo era di nuovo lì, ma, cosa curiosa, mai prima delle cinque. Forse ritualizzava la pratica per tenerla sotto controllo; oppure gli ci voleva il momento migliore della giornata per ricordare dove cresceva quella pianta magica.
Avevo piantato l’erba gatta esclusivamente per il piacere di Frank, ma ripensandoci a volte mi domando si non fosse nel mio giardino anche in qualità di sostituto della pianta proibita che avrei voluto coltivare per me. Mi riferisco alla cannabis. Inebriante, curativa e utilizzabile come fibra tessile (ammetto che quest’ultimo impiego non mi interessa affatto), la cannabis è una delle piante più formidabili che potrebbero crescere in questi luoghi; ma, mentre scrivo, è anche la più pericolosa da coltivare. Ogni giorno, il rituale pomeridiano di Frank mi ricordava che il mio giardino poteva produrre molto più che cibo o bellezza, che poteva generare prodigi piuttosto interessanti per la chimica del cervello, e appagare così desideri più complessi.

A volte penso che abbiamo permesso che i nostri giardini fossero epurati e che abbiamo sacrificato il loro potenziale al culto della gradevolezza delle piante, oscurando verità più ambigue sulla natura, inclusi noi stessi. Non è sempre stato così e forse un giorno potremo considerare i giardini contemporanei luoghi quasi vittoriani a causa della repressione e delle soppressioni che vi sono state effettuate.

Per gran parte della loro storia, i giardini hanno avuto a che fare meno con la bellezza delle piante che con le loro proprietà; cioè con il loro potere di cambiarci in vari modi, nel bene e nel male. Nell’antichità, uomini di tutto il mondo coltivavano o raccoglievano piante e funghi sacri, che avevano il potere di ispirare visioni o permettere l’accesso ad altre dimensioni; gli sciamani facevano ritorno da questi “viaggi” con il tipo di conoscenze spirituali su cui si basano tutte le religioni. Il giardino del farmacista medievale non badava all’estetica, concentrandosi invece su specie che guarivano, inebriavano e, in alcuni casi, avvelenavano. Maghi e streghe coltivavano piante con il potere di “gettare incantesimi”: piante “psicoattive”, secondo il vocabolario contemporaneo. Le ricette delle pozioni richiedevano ingredienti come lo stramonio, il papavero da oppio, la belladonna, l’hashish, l’amanita muscaria e la pelle di rospo (che può contenere DMT, un potente allucinogeno). Questi ingredienti venivano combinati in un “unguento per volare” a base di olio di semi di canapa, che si dice le streghe assumessero per via vaginale utilizzando un pene artificiale. Era questo il “manico di scopa” con cui viaggiavano.

I giardini medievali delle streghe e degli alchimisti furono estirpati con la forza e dimenticati (o perlomeno resi irriconoscibili per mezzo di eufemismi), ma anche i successivi giardini ornamentali, assolutamente benigni al confronto, furono provvisti di angoli tenebrosi per onorare l’aspetto più oscuro e misterioso della natura. I giardini gotici inglesi e italiani, per esempio, fecero spazio ai segni della mortalità e al brivido della paura, magari inserendo un albero morto o una lugubre grotta artificiale. Anch’essi erano concepiti per alterare la coscienza individuale, ma più come un film dell’orrore che come una droga. Soltanto in epoca moderna, dopo che la civiltà industriale ha stabilito (in modo alquanto prematuro) che le forze della natura non costituivano più un degno avversario i nostri giardini sono divenuti luoghi benevoli, solari e ambientalmente corretti, dai quali gli antichi pericoli (come pure le tentazioni) della natura sono stati eliminati.
O, se non eliminati, quasi intenzionalmente dimenticati. Perfino nel giardino della nonna possiamo trovare stramonio, ipomee violacee (alcuni indiani utilizzano i loro semi come allucinogeno sacro) e papaveri da oppio: proprio gli ingredienti di un unguento per volare delle streghe o di un vecchio tonico farmaceutico. Tuttavia, la conoscenza che un tempo accompagnava queste piante prodigiose è quasi scomparsa. E non appena la conoscenza di una pianta viene riportata alla coscienza – per esempio, non appena qualcuno decide di incidere la testa di un papavero da oppio per farne uscire il lattice – ricompare anche il tabù. Fatto curioso, coltivare Papaver somniferum in America è legale, a meno che ciò non sia fatto con la consapevolezza di coltivare una droga: allora come per magia, lo stesso, identico atto fisico diviene il reato di “produzione di una sostanza controllata”. A quanto pare, l’Antico Testamento e il codice penale associano entrambi piante proibite e conoscenza.

Una volta coltivai papaveri da oppio in giardino: ebbene sì, con intento criminoso. Coltivai anche marijuana, quando ancora non era un grande affare. Continuo a coltivare uva e luppolo, entrambi trasformabili in sostanze inebrianti legali (finché non le vendo) e, nel giardino delle erbe aromatiche, iberico (un antidepressivo), camomilla e valeriana (entrambe blandi sedativi).
Forse dovrei giustificare il mio interesse per queste piante, che almeno all’inizio aveva meno a che fare con il mio desiderio di usare droghe, il quale è sempre stato moderato, che con un impulso che penso sia comune a chi ama dedicarsi alla terra. Infatti, quando nei primi anni ottanta piantai qualche seme di cannabis, già non la fumavo più: in tutta onestà l’erba mi ha sempre reso paranoico e stupido. Ma avevo appena incominciato a occuparmi del mio giardino ed ero ansioso di provare tutto: per me la magia di una rosa Bourbon o di un pomodoro cuore di bue equivaleva a quella di una pianta psicoattiva. (La penso ancora allo stesso modo.) Così, quando il ragazzo di mia sorella mi chiese se potevo piantare alcuni semi che aveva recuperato da , decisi di fare un tentativo, se non altro per vedere se ero capace di coltivarla.

A qualsiasi altro appassionato di giardinaggio non sembrerà una cosa strana, siamo tutti così: impazienti di tentare l’improbabile (anche solo per raccogliere una bella storia), di vedere se riusciremo a far crescere un carciofo sotto zero o a preparare un infuso casalingo con le radici della nostra echinacea purpurea. In fondo in fondo, sospetto che molti di noi si considerino alchimisti dilettanti, capaci di trasformare gli scarti del compost (più acqua e luce solare) in sostanze preziose, bellissime e dai poteri straordinari. Forse, a un certo livello, siamo ancora in contatto con la forza dei giardini antichi. Un altro aspetto interessante del giardinaggio è che rende indipendenti: dal fruttivendolo, dal fiorista, dal farmacista e, in alcuni casi, dallo spacciatore. Non c’è bisogno di “tornare alla terra” per sperimentare la soddisfazione che si prova sottraendosi agli ingranaggi dell’economia. Ebbene, sì: ero curioso di vedere se sarei riuscito a coltivare un po’ di “erba bella potente” nel mio giardino del Connecticut. Mi sembrava un’occasione per sperimentare un tipo di alchimia particolarmente emozionante. Ma, da come si svolsero gli eventi, il mio esperimento di coltivazione della marijuana si rivelò analogo alla mia esperienza di fumatore: paranoico e stupido sono i termini appropriati.

Mi pare che fosse la primavera del 1982, quando sparpagliai una manciata di semi di marijuana sopra un tovagliolo di carta inumidito; nel giro di qualche giorno due erano germinati. Non appena fece un po’ caldo, interrai le piantine all’aperto: non proprio in giardino, ma dietro a un granaio cadente sul retro della casa, in un mucchio di vecchio letame ereditato dal contadino che una tempo aveva allevato mucche da latte.

Praticamente me ne dimenticai fino a qualche mese più tardi, quando ritornai al granaio e trovai due piante che sembravano alberi di Natale, alte almeno due metri e mezzo, che sovrastavano le erbacce di fine estate: due cespugli verde smeraldo, lussureggianti e piene di foglie che si allungavano cercando avidamente la luce settembrina che andava affievolendosi. Nessuno sosterrebbe mai che la marijuana sia una gran bellezza, eppure un amante del giardinaggio non può fare a meno di ammirarne l’assoluta esuberanza vegetativa. È una torre imponente di foglie palpate, distese al sole nell’estasi della fotosintesi, che possiede il vigore e la tenacia di un’erbaccia.

Anche se le gelate erano dietro l’angolo (una volta persi i pomodori già a metà settembre), le piante non avevano la minima intenzione di fiorire. Rimasi deludo ma non ne feci una tragedia, perché all’epoca si usava ancora fumare le foglie di cannabis. (Al giorno d’oggi, come è noto, solo i fiori femminili non impollinati, detti “sensimilla”, sono considerati utilizzabili; i coltivatore buttano stelo e foglie tra gli scarti.) Eppure decisi di aspettare ancora alcune settimane per vedere se riuscivo a raccogliere qualche cima.

Le piante continuarono a crescere ad un ritmo impressionante, aggiungendo almeno trenta centimetri alla settimana di altezza e circonferenza, tanto che alla fine di settembre erano ben visibili da ogni punto della proprietà. Eccole lì: una coppia di allegri giganti verdi appostati dietro il granaio, mentre io ero in un costante stato di ansia e terrore. Avevo letto sul giornale che a volte la polizia effettuava ricognizioni aeree per individuare le coltivazioni di marijuana, così ogni volta che sentivo sulla testa il ronzio di un piccolo aeroplano mi precipitavo fuori per vedere se la rotta passava sopra le mie piante. Ogni auto che rallentava sulla strada di casa mia bastava a innervosirmi. Quell’autunno soppesavo ogni giorno i rischi della detenzione, e di una gelata mortale, contro la ricompensa di qualche cima fiorita.

Un episodio ad alto rischio pose fine alla mia carriera di coltivatore di marijuana. Avevo ordinato una catasta di legna da un uomo che aveva affisso un volantino in città. Si presentò con la prima metà della legna una domenica mattina, un tipo corpulento con i capelli a spazzola, e mi domandò dove volevo che la ammucchiasse. Anche se aperto su due lati, il granaio in rovina aveva almeno un tetto e concordammo che fosse il luogo migliore dove depositare la legna. Ma prima di metterci al lavoro, facemmo un po’ di conversazione appoggiati al cofano caldo del furgone, godendoci la pungente aria mattutina di ottobre. Parlando del più e del meno, gli chiesi se vendesse la legna per vivere. Mi rispose ridacchiando che quel commercio era solo un’attività secondaria, insieme alla pulizia dei viali d’accesso durante l’inverno.

"Dalle nove alle cinque sono il capo della polizia di New Milford."

Tutt’a un tratto le mie gambe iniziarono a squagliarsi. Mi resi conto che non sarei più riuscito a pronunciare una frase senza sforzarmi di muovere i muscoli delle labbra. Il granaio era una semplice struttura di assi e a nessun ufficiale di polizia, una volta al suo interno, sarebbero sfuggite le due gigantesche piante che si intravedevano attraverso la parete posteriore. Ma che cos’altro avrei potuto fare? Impilare la legna in qualunque altro luogo che non fosse il granaio era illogico.

Purtroppo, alla mia mente sconvolta non sovvenne nessuno stratagemma che non fosse ridicolo. Mi limitai a dire che, ripensandoci, preferivo sistemare la legna proprio lì, nel del mezzo del viale d’accesso.
disse il capo della polizia, mentre si accingeva a risalire sul furgone. "Non mi costa niente. La porterò fino al granaio."
"No…no!" Posso solo immaginare il tono della mia voce. "Qui è perfetto. Vicino alla casa…così la brucio subito."
"Okay, magari una parte ma non tutto il carico." Mise in moto il furgone.
"Sì, invece! Tutto! Qui!" Ormai stavo urlando. "E’ proprio dove lo voglio!" E prima che potesse inserire la retromarcia, balzai sul paraurti posteriore e come un forsennato iniziai a lanciarmi i ceppi alle spalle, sul viale e sul prato dietro al furgone, per bloccargli l’accesso al granaio. L’uomo ridiscese, mi diede un’occhiata in tralice e poi, finalmente, grazie al cielo, alzò le spalle. Le parole: "Se va bene a lei" non mi erano mai sembrate tanto dolci.
Non appena il furgone fu scaricato, il capo della polizia ripartì per andare a prendere la seconda metà della catasta, mentre io, temporaneamente fuori pericolo ma ancora in preda al panico, rovistavo nel capanno degli attrezzi in cerca di un’ascia. Dopotutto non c’erano cime. Abbattei le due piante, che avevano il tronco grosso quanto il mio avambraccio, tagliai a pezzi i rami e ficcai quella massa di foglie fragranti in un paio di grossi sacchi della spazzatura che trascinai nel sottotetto del solaio; ci misi in tutto cinque minuti. Una volta seccato, il raccolto rese un chilo di foglie che avevano l’odore dei calzini vecchi. Quando le fumai qualcosa successe, ma l’effetto, più che all’ebbrezza, assomigliava al mal di testa da sinusite.

Come forse potrete immaginare, racconto spesso la mia storia nei dopocena tra amici, e di solito posso contare su qualche risata. Una ragione è il lieto fine, l’altra, per cui assume le caratteristiche della commedia leggera, è che la suspense su cui è imperniata, che non manca davvero, non è una questione di vita o di morte. Se il capo della polizia avesse notato le piante, la cosa per me sarebbe stata piuttosto spiacevole, ma non avrei dovuto andare in galera. Nel 1982 tutto quello che un piccolo coltivatore di marijuana aveva da temere era un leggero rimprovero legale e forse un po’ di imbarazzo. (Che cosa avrei detto ai miei genitori? E al mio principale?) Solo qualche anno prima, dopotutto, un presidente americano, Jimmy Carter, aveva proposto di liberalizzare la marijuana (anche i suoi figli fumavano), e Bob Hope raccontava barzellette sugli spinelli in prima serata. Ai tempi la marijuana era innocua, divertente e, agli occhi di tutti, sembrava a un passo dall’accettazione sociale.

A partire da quegli anni, in America ci fu un cambiamento abissale riguardo alla cannabis. Alla fine del decennio improvvisamente acquisì, o le furono attribuiti, nuovi poteri straordinari, che, tra le altre cose, resero la mia storia un emblema dell’epoca, pittoresco nella sua stupidità e da non ripetersi. Un paio di fatti illustrano il cambiamento: dal 1988, in questo Stato, la pena minima per la coltivazione di un chilogrammo di marijuana (le dimensioni del mio raccolto, più o meno) ammonta a cinque anni di detenzione. (Altri Stati sono ancora più duri: in Oklahoma coltivare una quantità qualsiasi di marijuana è passibile dell’ergastolo.)
Se fossi tanto pazzo da ripetere l’esperimento, il carcere non sarebbe la mia unica preoccupazione. Se il capo della polizia di New Milford scoprisse oggi che nel mio giardino cresce marijuana, sarebbe autorizzato a sequestrarmi casa e terreno, indipendentemente dal fatto che io venga riconosciuto colpevole. Questo perché, secondo le leggi federali per la confisca dei beni, il mio giardino potrebbe essere giudicato colpevole di violare le leggi sulle droghe anche se io non lo sono.

I titoli dei procedimenti condotti secondo questo principio, più che l’esercizio della giurisprudenza americana, sembrano esercizi di animiamo medievale: Gli Stati Uniti contro una Cadillac Eldorado berlina del 1974. Se il capo della polizia scegliesse di condurre un’azione simile (Il popolo del Connecticut contro il giardino di Michael Pollan), dovrebbe soltanto dimostrare che il mio terreno è stato utilizzato per commettere un crimine, per farlo diventare proprietà del dipartimento di polizia di New Milford e disporne a suo piacimento. Oggi in america la situazione è tale che, cedendo alla tentazione di una pianta proibita, non solo non potremmo accedere al nostro giardino per un dato periodo, ma rischieremmo di perderlo per sempre.

Questo cambiamento repentino, la demonizzazione di una pianta che meno di vent’anni fa stava per essere tollerata da tutti, di sicuro disorienterà gli storici del futuro. Si chiederanno perché la “guerra alla droga” degli anni ottanta, novanta e duemila combatté gran parte della sue battaglie contro la marijuana.1 Si chiederanno perché, in questo periodo, gli americani arrestarono più cittadini di qualunque altra nazione della storia, e perché uno su tre era forse imprigionato per questioni di droga e quasi cinquantamila per crimini che implicano la marijuana. E si chiederanno perché il popolo americano fosse disposto a rinunciare a tante libertà duramente conquistate per combattere contro questa pianta, dal momento che negli ultimi anni del xx secolo una serie di sentenze della Corte suprema e di azioni governative riguardanti la marijuana comportarono un consistente aumento del potere del governo a spere del Bill of Rights.2

Come risultato della guerra alla cannabis, oggi gli americani sono senza dubbio meno liberi.

Saranno gli storici del futuro a decidere perché la guerra alla droga si sia focalizzata sulla marijuana e perché il proibizionismo si sia accanito contro questa particolare pianta, invece che contro la coca o i papaveri. La marijuana costituiva una grave minaccia alla salute pubblica, o era l’unica droga illegale tanto diffusa da giustificare una guerra così ambiziosa?3 Comunque sia, è difficile credere che un simile tabù avrebbe attecchito se la marijuana non avesse già avuto un forte valore simbolico. Di certo la sua immediata identificazione con la controcultura l’ha resa obiettivo primario di una guerra alla droga che, al di là di tutto, è stata parte della reazione politica e culturale agli anni sessanta del Novecento. A ogni modo, alla fine del xx secolo questa pianta e il relativo tabù avevano notevolmente cambiato la vita degli americani per ben due volte: la prima in modo piuttosto blando, con la popolarità diffusa della marijuana a partire dagli anni sessanta, la seconda, forse più profondamente, diventando il casus belli nella guerra alla droga.

Dai tempi della mia breve carriera di coltivatore, c’è stato un altro cambiamento drammatico nella storia della marijuana, ovvero il mutamento della pianta. Quando ci si accinge a scrivere la storia naturale della cannabis, la guerra alla droga in America si presenta come uno dei capitoli più emblematici, insieme all’introduzione della cannabis nel continente americano da parte degli schiavi africani, o alla scoperta degli antichi sciti che la canapa poteva essere fumata.4 Intatti il moderno proibizionismo nei confronti della marijuana ha causato una rivoluzione sia nella sua coltura che nella sua genetica. Ironia della sorte, la guerra alla droga e la creazione di un nuovo, potente tabù contro la cannabis hanno portato alla creazione di una pianta molto più potente.

È decisamente più difficile ricostruire la recente storia naturale della marijuana che quella sociale: essa infatti si è svolta in segreto, clandestinamente; i suoi Johnny Semedimele si rintanano chissà dove mantenendo l’anonimato. Ma qualche anno fa, dopo avere scoperto (da un amico di un amico) quanto si fosse evoluta la coltivazione della cannabis dagli anni del mio vago tentativo e quanto fosse diventata più potente l’erba americana, provai a rintracciarli. Questo amico una volta aveva collaborato a progettare e installare una serie di serre casalinghe. Una sera, mentre lo ascoltavo parlare del suo lavoro, dilungandosi sui rispettivi vantaggi della lampade al sodio o delle alogene, sul numero ottimale di talee per kilowatt e sulla complessità degli ibridi di indica e sativa, mi resi conto che questo era esattamente quanto di meglio avessero fatto in tutti quegli anni i coltivatori della mia generazione: avevano perfezionato la cannabis lavorando in clandestinità.

Per una coltivatore di marijuana, Amsterdam negli anni novanta era un po’ come Parigi negli anni venti per uno scrittore: un luogo dove esuli espatriati potevano dedicarsi in pace alla propria arte e stringere legami con una comunità di spiriti affini. Coltivare marijuana in Olanda non è legale nel vero senso della parola, ma diverse centinaia di coffee shop sono autorizzati a venderla, e così una coltivazione su piccola scala che fornisca questi locali è ufficialmente tollerata. A partire dalla fine degli anni ottanta, mentre gli Stati Uniti intensificavano la loro campagna contro la marijuana, i profughi americani della guerra alla droga iniziarono a trasferirsi ad Amsterdam. I coltivatori portarono con sé semi e competenza, e questo flusso migratorio, unito al genio olandese per l’orticoltura risalente alla tulipomania, ancora una volta, rese Amsterdam il luogo dove andare se ci sta particolarmente a cuore una pianta.

Mi recai ad Amsterdam per scoprire la storia recente della marijuana in America e per vedere – e per provare, lo ammetto – quello che i coltivatori avevano elaborato negli anni seguiti al mio precipitoso pensionamento. Arrivai a fine novembre, all’epoca della Cannabis Cup, la manifestazione ed esposizione annuale (sponsorizzata dalla rivista High Times) che attira molti “luminari” nel campo. I coltivatori americani vi partecipano per fare quello che è consuetudine per tutti gli agricoltori del mondo quando si riuniscono a fine stagione: scambiarsi semi, storie e tecniche nuove e fare sfoggio dei migliori esemplari. Alcuni dei pionieri della marijuana moderna erano disponibili, e scoprii che, se mi presentavo come un collega, erano più che felici di condividere con me esperienze e conoscenze.

Nel giro di qualche giorno avevo incominciato a ricostruire la storia dei coltivatori americani: come, operando dell’ombra di una spietata guerra alla droga e senza il vantaggio di una formazione professionale, fossero riusciti a trasformare l’erba nostrana (detta homegrown, un termine ironico degli anni settanta che indicava la marijuana casalinga di terza categoria) in quello che oggi è il fiore più premiato e più costoso del mondo.5 Ma se l’ingegno e l’intraprendenza dei coltivatori contribuirono in larga parte al successo di questa avventura, altrettanto si può dire dell’ingegnosità e delle risorse della pianta stessa. Dal punto di vista della cannabis, la guerra americana alla droga ha rappresentato un’opportunità per ampliare la propria influenza in Nord america, dove essa scarseggiava. (Fatta eccezione per la canapa, una diversa forma di cannabis non psicoattiva, che prima del proibizionismo era largamente coltivata per produrre fibre tessili.) Per diffondersi in Nord America, la cannabis dovette fare due cose: dimostrare che poteva gratificare un desiderio degli uomini in modo talmente efficace che essi avrebbero corso grossi rischi per coltivarla, e trovare la combinazione genetica giusta per adattarsi a un nuovo ambiente molto particolare e del tutto artificiale. Ecco cosa accadde.

Fino alla metà degli anni settanta quasi tutta la marijuana fumata in America era cresciuta in Messico. Poi il governo messicano, obbedendo alle direttive degli Stati Uniti, iniziò a innaffiare le piantagioni con un diserbante, il Paraquat. Nello stesso periodo, il governo americano cominciò a usare la mano pesante con gli spacciatori d’erba. Con la diminuzione dei rifornimenti esteri e il pericolo di tossicità della marijuana messicana, da un giorno all’altro fiorì un ampio mercato di erba di produzione locale. Si può dire che il rapido sviluppo dell’industria nazionale della marijuana abbia rappresentato il trionfo del protezionismo.
All’inizio l’erba nazionale era di gran lunga inferiore a quella d’importazione. In parte questo problema era dovuto al fatto che molti coltivatori inesperti fecero il mio stesso errore: piantarono semi provenienti dall’erba cresciuta in climi più caldi. Si trattava di semi di Cannabis sativa, una specie equatoriale che si adatta malamente alle latitudini settentrionale. La sativa non sopporta il gelo e, come ho visto io stesso, di solito non produce infiorescenze a nord del tredicesimo parallelo. Utilizzando questi semi, i coltivatori riuscivano a ottenere un raccolto di buona qualità (soprattutto la sinsemilla) solo in California e nelle Hawaii.
Bisognava cercare un tipo di marijuana che prosperasse, e fiorisse, più a nord, che fu trovata alla fine del decennio.

Gli hippies americani che viaggiavano attraverso l’Afghanistan tornarono lungo “la via dell’hashish” con i semi di Cannabis indica, una specie vigorosa e resistente al gelo che era stata coltivata per secoli dai produttori di hashish sulle montagne dell’Asia centrale. Questa specie è molto diversa dalla sativa (un netto vantaggio per i suoi coltivatori): raramente cresce oltre il metro e mezzo (una bella differenza rispetto agli imponenti quattro e mezzo della sativa), e le sue foglie verde violaceo sono più tozze e rotonde delle lunghe dita affusolate della sativa.
L’indica ha inoltre dimostrato di essere molto potente, anche se si dice che il fumo sia più acre e l’effetto più debilitante per il fisico di quello della sativa. Ciò nonostante, l’introduzione dell’indica in america si rivelò provvidenziale, permettendo per la prima volta ai coltivatori di tutti gli Stati di produrre sinsemilla. Alcune qualità di indica riescono a fiorire perfino in Alaska.
All’inizio, l’indica fu coltivata tale e quale. Ma ben presto alcuni coltivatori intraprendenti scoprirono che, incrociandola con la sativa, era possibile produrre ibridi vigorosi che combinavano le caratteristiche migliori di entrambe le piante diminuendo le peggiori.

Per esempio, era possibile combinare il gusto più dolce e lo “sballo lucido” della sativa, alla potenza e alla robustezza dell’indica. Il risultato fu quello che Robert Connell Clarke, un esperto di marijuana che conobbi ad Amsterdam, definisce “la grande rivoluzione” genetica della cannabis.6

La moderna marijuana americana nacque grazie a un’ondata di nuove ibridazioni effettuate intorno al 1980, per la maggior parte da estimatori che lavoravano in California e nel Pacifico nordoccidentale. Ancora oggi, gli ibridi di sativa x indica sviluppatisi in quel periodo – tra cui la Northern Light, la Skunk n°1, la Big Bud e la California Orange – sono considerati i punti di riferimento per la coltivazione moderna della marijuana; rimangono le linee genetiche principali con cui lavorarono la maggior parte degli ibridatori successivi. Attualmente il patrimonio genetico della cannabis americana è il migliore del mondo, come sottolinearono prontamente i coltivatori americani che conobbi ad Amsterdam, ed è alla base del fiorente commercio di semi di cannabis in Olanda. Ma senza gli olandesi a salvaguardare e diffondere queste varietà, con ogni probabilità l’importante lavoro svolto dagli ibridatori americani sarebbe andato perduto, gettato al vento dalla crociata antidroga.

Fino ai primi anni ottanta, quasi tutta la marijuana coltivata in America cresceva all’aperto: sulle colline della contea di Humboldt, in California, nei campi di mais della fascia agricola (cannabis e mais hanno le stesse esigenze), in cortili – molti più di quanti si possa immaginare – sparsi un po’ ovunque. Nel 1982 l’amministrazione Reagan scoprì con disappunto che la quantità sequestrata di marijuana nazionale superava di un terzo la stima ufficiale della produzione complessiva. Ben presto, per annientare l’industria della cannabis, l’amministrazione lanciò un ambizioso programma su scala nazionale, che comprendeva enti governativi locali e, per la prima volta, l’esercito.
Anche se la campagna del governo non riuscì a sradicare la coltivazione di marijuana, cambiò le regole del gioco, obbligando pianta e coltivatori a adattarsi: mi spiegò un coltivatore dell’Indiana. E fu lì, sotto le accecanti lampade alogene, che la Cannabis sativa x indica raggiunse la perfezione.

Le prime coltivazioni al chiuso in pratica cercarono di ricreare condizioni e consuetudini presenti all’aria aperta: piante a grandezza naturale e un sistema di luci e nutrienti progettato per riprodurre quelli naturali. Ben presto però i coltivatori si resero conto che la lentezza dello sviluppo naturale impediva alle piante di dispiegare il proprio potenziale. Manipolando con cura i cinque principali fattori ambientali sotto il loro controllo – acqua, nutrienti, luce, livello di anidride carbonica e calore – e i geni della pianta, i coltivatori scoprirono che la marijuana, erba davvero gentile e compiacente, era capace di compiere meraviglie.
Gran parte delle ibridazioni necessarie per adattare la cannabis a crescere al chiuso furono effettuate nei primi anni ottanta da amatori che lavoravano sulla costa nordoccidentale del Pacifico. In queste condizioni, le varietà con un’alta percentuale di geni di indica avevano un’ottima resa, così le piante vennero ulteriormente selezionate per renderle più basse e ricche di cime, per anticipare la fioritura e per aumentare la potenza. Nessuno immaginava di cosa fosse capace questa pianta, ma alla fine degli anni ottanta si ottennero ibridi di sativa x indica con infiorescenze più grandi di un pugno su piante nane che non superavano il ginocchio. Per tutto il periodo, la genetica della cannabis migliorò al punto che spesso si ottenne sinsemilla con una percentuale di quasi il 15 percento di THC, il principale composto psicoattivo della marijuana. (Prima del giro di vite contro i coltivatori, il livello di THC della marijuana comune, secondo la DEA, andava da 2 al 3 percento; quello della sinsemilla da 5 all’8 percento.) Al giorno d’oggi si trovano concentrazioni di THC superiori al 20 percento.

La pianta si adattò al nuovo ambiente innaturale molto meglio di quanto ci si aspettasse. Per la cannabis, la guerra alla droga rappresenta quello che il riscaldamento globale significa per il resto del regno vegetale: un cataclisma che alcune specie trasformeranno in una grande opportunità per ampliare la propria diffusione. La cannabis ha sfruttato il tabù che la circonda come potrebbe fare un’altra pianta con un terreno particolarmente acido.

Insieme ai progressi nella genetica furono compiuti grandi passi avanti nella tecnologia. Secondo un coltivatore: . I tempi di crescita e la produzione fecero enormi progressi nel corso degli anni ottanta, quando i coltivatori scoprirono di poter accelerare la fotosintesi fornendo alle piante tutti i nutrienti, l’anidride carbonica e la luce possibili , ovvero un’enormità. (Dopotutto la cannabis è una pianta infestante.) I coltivatori si resero conto che le piante potevano assorbire centinaia di migliaia di lumen – una quantità di luce straordinaria – ventiquattro ore al giorno. Poi, riducendo all’improvviso il regime di luce a dodici ore giornaliere (e sostituendo le lampade alogene con quelle al sodio, la cui frequenza è più simile alla luce solare autunnale), riuscivano a indurre le piante a fiorire prima delle otto settimane di vita. Con l’attrezzatura giusta, un coltivatore poteva creare il luogo ideale per le sue piante, un habitat artificiale più idoneo di qualsiasi altro in natura ed esse, felicissime, lo avrebbero ricambiato crescendo.

Tante attenzioni assidue sarebbero state sprecate con le piante maschio, che nella produzione di sinsemilla non hanno alcuna utilità. Finchè la pianta femmina non riceve polline, continuerà a far germogliare nuovi calici, ad aumentare il volume delle infiorescenze e, in questo stato di perpetua frustrazione sessuale, a produrre in abbondanza resina, ricca di THC. Ma basta che pochi grani di polline raggiungano i fiori e il processo si interrompe bruscamente: la fabbricazione di resina e fiori si ferma e la pianta inizia a produrre semi (e la sinsemilla è rovinata).
I coltivatori che avviano la piantagione dai semi eliminano le piante maschio non appena sono riconoscibili, ma poichè ciò è possibile solo quando esse sono mature, sprecano tempo e spazio allevandole. La soluzione è utilizzare i cloni, ovvero le talee prese da una femmina. Dal punto di vista della pianta prescelta, questa tecnica è un privilegio evolutivo, perché può moltiplicare i propri geni senza mescolarli, come invece avverrebbe con la riproduzione sessuale. (Che la riproduzione per innesto sia un privilegio per la specie nel suo complesso non è altrettanto certo, come dimostra la storia della mela.) Dato che questi cloni sono geneticamente identici, le piante saranno per forza femmine. Inoltre saranno biologicamente mature fin dall’inizio, il che significa che anche una piantina alta dodici o sedici centimetri può essere indotta alla produzione di fiori.

Nel 1987 tutte queste tecniche confluirono in un sistema di coltivazione al chiuso all’avanguardia noto come Sea of Green: dozzine di piante ravvicinate e geneticamente identiche ricavate da talee poste sotto una luce ad alta intensità. Una coltivazione Sea of Green consiste in un centinaio di cloni, cresciuti sotto un paio di lampade da duemila watt in uno spazio non più grande di un tavolo da ping-pong, che, nel giro di due mesi, produrrà un chilo e mezzo di sinsemilla.

Prima di lasciare Amsterdam, desideravo visitare un moderno vivaio di marijuana, e l’ultima sera un coltivatore americano in esilio con cui avevo stretto amicizia accettò di mostrarmi il suo. Per giorni avevo cercato di ottenere un invito, e vedevo che era diviso tra la discrezione professionale del fuorilegge e l’irrefrenabile desiderio dell’appassionato che vuole vantarsi. Alla fine vinse il secondo.

Le piante erano in un quartiere operaio periferico mezz’ora a nord di Amsterdam, e sul treno il coltivatore mi spiegò di avere scelto quella particolare zona perché c’erano una fabbrica di dolciumi, un panificio e un impianto chimico. Le piante di marijuana, le indica in particolare, emettono un forte aroma pungente; ed egli sperava che la cacofonia di effluvi prodotta dai tre vicini coprisse l’odore inconfondibile delle piante.

Una volta arrivati a casa sua, mi condusse al piano superiore. Alla fine di un corridoio buio, stretto e ingombro di roba, spalancò una porta ermeticamente chiusa e immediatamente fui investito prima da un getto di luce accecante e poi da una puzza talmente intensa che mi sembrò un pugno. Fra l’odore di sudore, di vegetali e di zolfo: pareva di essere in uno spogliatoio in Amazzonia.

Dopo che i miei occhi si furono abituati alla luce, entrai in una stanza senza finestre non più grande di una cabina armadio, zeppa di attrezzatura elettrica, con un groviglio di cavi e tubi di plastica, completamente isolata dal resto del mondo. Oltre metà stanza era occupata dalla Sea of Grenn: un tavolo di due metri quadrati nascosto da una giungla di foglie scure e fitte che dondolavano gentilmente a una brezza artificiale. C’erano forse un centinaio di talee, tutte alte a malapena una trentina di centimetri, ma che già avevano un grosso dito di calici pelosi che si guardavano in giro inutilmente in cerca di qualche grano di polline portato dal vento. Una rete di tubicini in plastica riforniva le piante d’acqua, un serbatoio di CO2 addolciva l’aria, un radiatore di ceramica teneva al caldo le radici di notte e quattro impianti di luce al sodio da 600 watt le inondava di luce per dodici ore al giorno. Le altre dodici le trascorrevano al buio totale. Il coltivatore mi spiegò con la massima serietà che bastava un piccolo errore nei tempi di esposizione per rovinare tutto il raccolto.

Non c’era niente di bello in questo giardino. Se mai arrivasse la legalizzazione, nessuno coltiverebbe la cannabis per la bellezza dei suoi fiori, o per i suoi ciuffi forforosi, ricoperti di peluria e puzzolenti di sudore. C’era anche qualcosa di anomalo soprattutto in quella serra totalitaria, con una monocoltura di piante geneticamente identiche che crescevano in file serrate; un feroce controllo apollineo in un giardino idealmente consacrato a Dionisio.

Eppure in quella stanza claustrofobica erano molte le cose da ammirare. Credo di non avere mai visto piante dall’aspetto tanto entusiasta, nonostante fossero costrette a crescere in condizioni innaturali, in modo quasi perverso: ipernutrite, iperstimolate, accelerate e al contempo rimpicciolite. sembravano dire, aspirando CO2, ingozzandosi di fertilizzanti, tracannando acqua e lanciandosi verso le lampade talmente calde e luminose che fui costretto a distogliere lo sguardo. In cambio di un programma di incoraggiamento sconosciuto alla maggior parte delle piante, quei cento avidi folletti demoniaci avrebbero ricambiato il loro giardiniere con un chilo e mezzo di cime essiccate in meno di un mese, per un valore di 13.000 dollari.

Il tutto era piuttosto folle, e ben presto non vidi l’ora di andarmene educatamente e prendere una boccata d’aria. In treno, tornando ad Amsterdam, cercai di trovare un senso a quella pazzia. Certo, c’era stato un precedente storico, un episodio altrettanto coinvolgente che riguardava un’unica pianta. Durante la tulipomania, che per un breve periodo aveva stregato quella città (l’ultima volta in cui i fiori ebbero un simile valore commerciale), i coltivatori, preda di un’ossessione analoga, munirono le loro preziose piante di sistemi d’allarme e utilizzarono specchi per moltiplicarne la fioritura, senza riuscire a capire che il loro mondo si stava riducendo a un sogno febbricitante.

Qualcuno potrebbe affermare che il sogno febbricitante di allora è lo stesso di oggi, e che senza dubbio il miraggio della ricchezza è stato determinante sia per il tulipano seicentesco che per il fiore di marijuana del xx secolo. Certo, nel caso del tulipano, la ricchezza fu l’unico motore della follia solo alla fine, e non si può dire altrettanto di questi fiori molto meno attraenti. (Le cime sono assolutamente insignificanti: sembrano escrementi ricoperti di resina.) La tulipomania era sgorgata dal desiderio umano di bellezza e dal piacere visivo di un fiore esotico, ma non proseguì così. La bellezza cedette il posto al desiderio di prestigio sociale. Che spinse uomini altrimenti razionali a indirizzare la propria vita seguendo l’attrattività del tulipano. E infine la mera speculazione finanziaria estirpò anche quel desiderio, al punto che nessuno ci fece caso quando i fiori furono rimpiazzati da semplici promesse: le parole di un contratto a termine.
La follia nel giardino di marijuana è di altro genere. Pur essendo abbondantemente annaffiato dal denaro, rimane profondamente radicato nel desiderio umano di provare piacere: qualunque sia l’effetto che le sostanze che le sostanze chimiche contenute in questi fiori inducono nell’esperienza conscia di un individuo. Tale desiderio deve essere davvero potente, come dimostrano la passione e il prezzo di questo fiore, come pure la forza del tabù che lo riguarda. Da parte mia, sono consapevole di non avere ben afferrato la priorità di questo desiderio. Ma allora qual è, esattamente, la conoscenza offerta da queste piante, e perché viene proibita con tanto accanimento?

Fatta eccezione per gli eschimesi, non esiste popolazione sulla terra che non utilizzi piante psicoattive per causare un mutamento nella coscienza, e con ogni probabilità non è mai esistita. L’eccezione degli eschimesi conferma la regola: storicamente non hanno mai fatto uso di piante psicoattive perché nell’Artico non ne cresce nessuna. (Non appena i bianchi fecero loro conoscere il grano fermentato, gli eschimesi condivisero subito quel tipo di alterazione della coscienza.) a quanto pare, il desiderio di alterare la propria esperienza della coscienza è universale.

E tale desiderio non riguarda solo gli adulti. Andrew Weil, che scrisse due ottimi libri che trattano l’alterazione della coscienza “in quanto attività umana fondamentale”, sottolineò che anche i bambini vanno in cerca di stati di alterazione. Ruotano su se stessi fino ad avere le vertigini (producendo quindi allucinazioni visive), respirano volutamente più in fretta (iperventilazione), si strangolano a vicenda fino quasi a svenire, inspirano ogni fumo che trovano e, quotidianamente, cercano la carica d’energia fornita dallo zucchero raffinato (la droga preferita dei bambini).

Come suggeriscono gli esempi riferiti all’infanzia, l’uso di droghe non è il solo modo per raggiungere uno stato di alterazione della coscienza. Attività differenti come la meditazione, il digiuno, l’esercizio fisico, una visita al luna park, la proiezione di un film dell’orrore, la pratica di sport estremi, la deprivazione sensoriale o del sonno, la recitazione di un mantra o di una preghiera, la musica, mangiare cibi piccanti o correre un grave pericolo hanno il potere di modificare la struttura della nostra esperienza mentale. In conclusione potremmo scoprire che l’azione esercitata dalle piante psicoattive sul cervello, a livello biochimico, è simile all’effetto di queste attività.

Le culture umane ricorrono a un’ampia varietà di piante per gratificare il desiderio di alterazione mentale, ma tutte (tranne gli eschimesi) ne adottano almeno una, e immancabilmente, ne proibiscono altre con la massima severità. Tentazione e tabù sembrano procedere di pari passo. Il criterio che stabilisce di porre la linea di demarcazione in un punto o in un altro è radicato nei valori e nelle tradizioni di una determinata cultura, ed è quindi comprensibile all’interno di essa, non fuori. Ma le ragioni culturali che consentono una pianta e ne proibiscono un’altra sono molto fluide e mutano nel tempo e nello spazio: la panacea di una cultura spesso in un’altra è panpatogena (causa di ogni male): basta mettere a confronto il ruolo tradizionale dell’alcol nell’Occidente cristiano e nell’Oriente islamico. Inoltre, nell’ambito di una stessa cultura, col tempo una panacea può magicamente trasformarsi in panpatogena, come è accaduto con gli oppiacei in Occidente tra il XIX e il XX secolo.7

Gli storici possono spiegare questi cambiamenti molto meglio di quanto facciano gli scienziati, in quanto hanno più a che fare con il potere che una cultura attribuisce a determinate sostanze e con i suoi bisogni di cambiamento piuttosto che con le varie molecole interessate del processo. Nella cultura americana, in momenti storici diversi, la cannabis ha avuto il potere di incoraggiare la violenza (negli anni trenta) e indurre all’indolenza (oggi): stessa molecola, effetto opposto. Forse una cultura promuove alcune droghe e ne proibisce altre solo per definirsi o rafforzare la propria coesione. Non c’è da stupirsi che qualcosa di magico come una pianta capace di alterare i pensieri e le emozioni della gente possa diventare al contempo feticcio e tabù.

Innanzitutto, risulta difficile capire come mai praticamente tutti i popoli, più alcuni animali, abbiano acquisito un desiderio simile. Da un punto di vista evolutivo, quali vantaggi ottiene un essere vivente dal consumo di piante psicoattive? Probabilmente nessuno: è un errore credere che qualunque evento abbia una buona motivazione darwiniana. Il fatto che un desiderio o una consuetudine siano ampiamente diffusi o universali non significa necessariamente che abbiano un riscontro evolutivo.

In effetti, l’inclinazione umana per le droghe potrebbe essere l’effetto collaterale di due comportamenti adattivi del tutto diversi. Perlomeno è questa la teoria proposta da Steven Pinker nel suo Come funziona la mente. Pinker evidenzia come l’evoluzione abbia provvisto il cervello umano di due facoltà (apparentemente) distinte: una capacità superiore di risoluzione dei problemi e un sistema interno di risposte chimiche, tale per cui, quando un individuo compie qualcosa di particolarmente utile o eroico, il suo cervello è inondato di sostanze chimiche che gli procurano benessere. Se mettiamo in relazione la prima facoltà con la seconda, otterremo una creatura che ha capito come usare le piante per far scattare artificialmente il sistema di risposta del cervello.
Non è detto però che farlo sia positivo, Ronald Siegel, esperto di intossicazioni negli animali, dimostrò che gli animali in stato d’ebbrezza a causa delle piante erano più soggetti agli incidenti, più vulnerabili rispetto ai predatori e meno solleciti con la prole. L’ebbrezza è pericolosa. Ma questo non fa che approfondire il mistero: Perché il desiderio di alterazione della coscienza non si attenua davanti a tanti rischi? O, per dirla in altro modo, perché non si è semplicemente estinto, secondo il criterio della competizione darwiniana (la sopravvivenza del più sobrio)?

I greci compresero che la risposta alle domande sulle sostanze inebrianti (e su molti altri grandi misteri della vita) era sia positiva che negativa. Il vino di Dionisio era un flagello e una benedizione. Usate con criterio e nel giusto contesto, molte droghe vegetali sono senza dubbio vantaggiose per chi le consuma: ingannare la chimica del cervello può rivelarsi di grande utilità. Il sollievo dal dolore, benedizione di numerose piante psicoattive, è solo l’esempio più ovvio. Piante stimolanti, come il caffè, la coca e il khat, aumentano la capacità di concentrarsi e lavorare. Le tribù amazzoniche assumono droghe particolari che le aiutano nella caccia, aumentando la resistenza, la capacità visiva e la forza. Ci sono piante psicoattive che rimuovono le inibizioni, stimolano l’impulso sessuale, smorzano o accendono l’aggressività, e calmano le acque della vita sociale. Altre rilassano, aiutano a addormentarsi o a rimanere svegli oppure permettono di sopportare miseria e noia. Tutte queste piante sono, almeno in potenza, strumenti mentali: le persone che sanno come usarle nel modo giusto potrebbero affrontare la vita di tutti i giorni meglio di chi non lo fa.

Questi però sono esempi semplici, piante che alterano solo in minima parte la prosa della vita quotidiana, senza riscriverla. “Trasparenti” è il termine che si usa per definire le droghe i cui effetti sulla coscienza sono troppo sottili per interferire con la capacità individuale di affrontare la giornata e adempiere ai propri doveri. Droghe come il caffè, il tè e il tabacco nella nostra cultura, o le foglie di coca e di khat in altre, lasciano intatte le coordinate spaziotemporali del consumatore. Ma che dire delle piante più potenti, quelle che alterano l’esperienza dello spazio e del tempo al punto da “trasportare” i consumatori fuori dalla loro vita quotidiana, o perfino da loro stessi?

Tutte le culture tendono a essere più caute al riguardo, e per un’ottima ragione: queste piante rappresentano una minaccia per gli ingranaggi dell’ordine sociale. Forse è per questo che gran parte delle società più moderne e complesse hanno reputato conveniente proibirle. Anche le culture che le approvano le mascherano con regole e rituali complessi, quasi a contenerne e disciplinarne i poteri. Ma quali sono questi poteri, e che cosa li rende degni di approvazione (non solo per gli individui più intraprendenti, ma, in alcuni casi, anche per l’intera società)? Molte culture hanno decretato che queste piante fossero sacre.

Nessuno ha ancora scritto la storia naturale delle religioni del mondo, ma penso di avere qualche buona idea per un libro simile. Innanzitutto, ci costringerebbe a riconsiderare la relazione tra materia e spirito e, in particolare, tra le piante intese come materia e la spiritualità umana. Ci spiegherebbe come un piccolo gruppo di piante e funghi psicoattivi (tra i quali il cactus del pelote, l’amanita muscaria e gli altri funghi contenenti psilocibina, la segale cornuta, l’uva fermentata, l’ayahuasca e la cannabis) fosse presente nella creazione di molte religioni. Una delle prime religioni note del mondo fu il culto del soma, praticato degli antichi indoeuropei dell’Asia centrale; secondo il suo testo sacro, il Rig Veda, il soma era una sostanza inebriante dai poteri divini. La gente adorava la droga – che ora gli etnobotanici ritengono fosse l’amanita muscaria – perché permetteva l’accesso alla conoscenza divina.

Lo stesso processo ebbe luogo più e più volte in tutto il mondo antico, quando gli esseri umani, individualmente o in gruppo, provarono a trascendere la realtà contingente grazie al potere di piante che inducevano stati estatici, trasportandoli altrove. Scoprirono così che determinate piante e funghi (gli etnobotanici li chiamano “enteogeni”, che significa “la divinità dentro”) aprivano una porta d’accesso a un altro mondo. Le parole e le immagini riportate da questi viaggi – visite alle anime dei defunti e dei non nati, visioni dell’aldilà, risposte agli interrogativi esistenziali – erano così potenti da indurre a credere in un mondo di spiriti e, in alcuni casi, da servire come fondamento per intere religioni. Certo, le droghe vegetali non sono l’unico strumento dell’estasi religiosa; si possono ottenere risultati simili con il digiuno, la meditazione e la trance ipnotica. Ma spesso queste tecniche sono state impiegate per esplorare territori spirituali già scoperti con gli enteogeni.

Una storia naturale delle religioni dimostrerebbe che l’esperienza umana del divino ha le sue origini più profonde nelle piante e nei funghi psicoattivi, (Karl Marx potrebbe essersene ricordato quando definì la religione oppio dei popoli.) con questo non intendo sminuire nessuna credenza religiosa; anzi, il fatto che alcune piante evochino la conoscenza spirituale è esattamente ciò che molte persone religiose hanno creduto, e chi può dire che tale credenza sia sbagliata? Le piante psicoattive sono ponti tra il mondo della materia e quello dello spirito o, se vogliamo aggiornare il vocabolario, tra chimica e coscienza.

Che ingegnoso espediente per una pianta, produrre una sostanza chimica dagli effetti talmente misteriosi sulla coscienza umana da diventare un simbolo sacro, degno di essere adorato, tutelato e disseminato. Questo fu il destino dell’amanita muscaria tra gli indoeuropei, del peyote tra gli indiani d’America, della cannabis tra gli indù, gli sciti e i traci, del vino tra i greci8 e i primi cristiani.
Come il desiderio umano di bellezza e dolcezza provocò una nuova strategia di sopravvivenza da parte delle piante che potevano gratificarlo, così la brama di trascendenza creò nuove opportunità per un altro gruppo di piante. Nessuna pianta e nessun fungo enteogeno ha mai deciso di produrre determinate molecole con l’intento di indurre visiono negli esseri umani (la difesa dai parassiti è motivo ben più plausibile). Ma quando gli uomini scoprirono quali effetti avevano su di loro quelle molecole, una magia del tutto involontaria, all’improvviso alle piante che le producevano si offrì un nuovo modo per prosperare e diffondersi. E da quel momento è proprio ciò che fanno le specie con la magia più forte.

Il nostro desiderio di trascendere l’esperienza comune non si esprime solo nella religione, ma anche in altri ambiti, e pure questi, probabilmente, furono influenzati dalle piante psicoattive in modo ben più profondo di quanto pensiamo. Chissà, forse ci servirebbero anche una storia naturale della letteratura e della filosofia, o delle scoperte e delle invenzioni, a tenere compagnia sullo scaffale alla storia naturale delle religioni. Oppure basterebbe un unico volume: una storia naturale dell’immaginazione.

In questo ipotetico saggio, troveremmo di sicuro un capitolo dedicato al ruolo del papavero da oppio e della cannabis nell’immaginazione romantica. È noto che molti poeti romantici inglesi assumevano oppio, e che diversi romantici francesi provarono l’hashish, dopo che le truppe napoleoniche lo introdussero in Francia portandolo dall’Egitto. Più difficile è stabilire con esattezza quale ruolo abbiano giocato queste piante psicoattive nella rivoluzione della sensibilità umana che chiamiamo romanticismo. Il critico letterario David Lenson, per esempio, ritiene sia stato fondamentale. Secondo lui, il concetto, espresso da Samuel Taylor Coleridge, dell’immaginazione come facoltà mentale che “dissolve, diffonde e dissipa, per ricreare”, idea i cui riverberi non si sono ancora placati nella cultura occidentale, è incomprensibile se non si fa riferimento all’alterazione della coscienza indotta dall’oppio.

“Questo concetto di un’immaginazione secondaria, o trasformatrice, introdusse in Occidente un modello di creatività artistica che resistette dal 1815 fino alla caduta di Saigon” scrive Lenson. “Esso si fondava sull’annichilimento di ciò che Keats definì ‘stanchezza, febbre e inquietudine’ (il mondo degli oggetti fissi, morti), attraverso una sorta di ‘dissoluzione, diffusione e dissipazione’ che [spinge l’artista] verso il regno del caso, dell’improvvisazione e dell’inconscio.” Non solo la poesia romantica, ma il modernismo, il surrealismo, il cubismo e il jazz si nutrono dell’idea dell’immaginazione trasformatrice di Coleridge, e a sua volta quell’idea si nutrì di una pianta psicoattiva. “Per quanto la critica abbia tentato di rendere asettico questo processo,” scrive Lenson “dobbiamo riconoscere che alcuni dei nostri poeti e pensatori canonici, quando parlano dell’immaginazione, in realtà si riferiscono a un’alterazione della coscienza”9

Curiosamente, i romantici in un primo momento ritennero che le droghe intensificassero le loro facoltà filosofiche, più che quelle poetiche. Thomas De Quincey pensava che l’oppio desse al filosofo “lo sguardo interiore e il potere di intuire la visione e i misteri della natura umana”. Lo scrittore ottocentesco americano Fitz Gugh Ludlow descrisse un suo incontro significativo con un filosofo dell’antichità sotto l’effetto dell’hashish. A me sorge spontanea una domanda: E’ possibile che, a loro volta, alcuni filosofi dell’antichità abbiano avuto incontri significativi usando piante magiche?

Questo, perlomeno, fu il mio primo pensiero quando scoprii che molti pensatori della Grecia classica (tra i quali Platone, Aristotele, Socrate ed Euripide) avevano partecipato ai misteri eleusini. Ufficialmente festa del raccolto in onore di Demetra, dea dei cereali e dell’agricoltura, i misteri erano un rituale estatico nel corso del quale i partecipanti assumevano una potente pozione allucinogena. Il contenuto della ricetta rimane parte del mistero, ma gli studiosi ritengono che l’ingrediente attivo fosse un alcaloide prodotto da una muffa (Claviceps purpurea) della segale cornuta che infestava i raccolti e che assomiglia molto all’LSD sia per la composizione chimica che per gli effetti. Sotto l’influenza di questa pozione, le menti migliori della civiltà classica partecipavano a un rituale sciamanico collettivo talmente segreto e dal potere trasformativo così profondo che tutti coloro che vi prendevano parte dovevano giurare che non l’avrebbero mai descritto. Non c’è modo di conoscere che cosa riportassero da un simile viaggio un filosofo o un poeta. Ma è davvero fuori luogo chiedersi se una tale esperienza abbia contribuito a ispirare la metafisica di Platone, ovvero la convinzione che ogni cosa di questo mondo abbia la sua forma ideale e reale in un altro mondo al di là dei nostri sensi?

Alcune droghe influiscono sulla nostra percezione in modo da allontanarci e straniarci dagli oggetti che ci circondano, facendoci estetizzare le cose più banali al punto che appaiono come versioni ideali di se stesse. Sotto l’incantesimo della cannabis “ogni oggetto rappresenta con maggiore chiarezza tutti quelli della sua categoria” scrive David Lenson in on Drugs. “Una tazza ‘sembra’ l’idea platonica di tazza, un paesaggio sembra il quadro di un paesaggio, un hamburger rappresenta tutti i miliardi di hamburger serviti su questa terra, e così via.” Una pianta psicoattiva riesce ad aprire una porta su un mondo di forme archetipe, o che possono sembrare tali. Naturalmente è impossibile accertare se una pianta o un fungo abbiano agito in questo modo su Platone, ed è quasi empio anche solo pensarlo. Ma si potrebbe fare di peggio ricercando la fonte di una metafisica tanto visionaria e particolare quanto quella di Platone.

La tazza platonica e l’immaginazione di Coleridge sono entrambi “memi”, per usare un termine coniato dallo zoologo inglese Richard Dawkins nel suo libro del 1976 il gene egoista. Un meme non è altro che un’unità di informazione culturale memorizzabile.

Può essere piccolo come una melodia o una metafora, o grande come un sistema filosofico o un concetto religioso. L’inferno è un meme; come pure il teorema di Pitagora, il film dei Beatles tutti per uno, la ruota, l’Amleto, il pragmatismo, l’armonia, il celebre slogan di Wendy’s Where’s the beef? e naturalmente il concetto stesso di meme. Secondo Dawkins i memi stanno all’evoluzione culturale come i geni all’evoluzione biologica. (Ma, a differenza dei geni, i memi non hanno un fondamento fisico.) I memi sono i mattoni dell’edificio della cultura, trasmessi da cervello a cervello in un processo darwiniano che, per tentativi ed errori, conduce al progresso e all’innovazione culturale. I memi che si dimostrano meglio adattati “all’ambiente”, quelli più vantaggiosi da conservare nella mente, sono quelli che con maggiore probabilità sopravvivranno, si riprodurranno e saranno ampiamente considerati buoni, veri o belli. In ogni momento la cultura è la “vasca dei memi” in cui tutti noi nuotiamo o piuttosto che nuota attraverso di noi.
Ogni volta che un nuovo meme viene introdotto e si afferma, si verifica un cambiamento culturale. Si tratti del romanticismo, della contabilità a partita doppia, della teoria del caos o dei Pokèmon. (O dello stesso concetto di meme, che pare stia prendendo piede.) Ma da dove arrivano i nuovi memi? A volte sgorgano fulgidi dalle menti di artisti, scienziati, copywriter e teenager. Spesso alla creazione di un meme partecipa un processo di mutazione, per molti aspetti simile alle mutazioni naturali che possono produrre nuovi caratteri genetici vantaggiosi. I memi possono mutare quando si combinano in modi originali, oppure quando qualcuno che ne fa uso commette un errore: un’interpretazione scorretta di un vecchio meme produce qualcosa di diverso. Per esempio, oltre a essere di per sè un meme innovativo, l’immaginazione trasformatrice di Coleridge si rivelò uno strumento eccellente per creare ulteriori memi.

Mentre leggevo Dawkins, mi resi conto che la sua teoria offriva una prospettiva interessante nel considerare gli effetti delle piante psicoattive sulla cultura: mi riferisco al ruolo cruciale che esse giocarono in vari momenti nodali dell’evoluzione della religione, della musica (penso all’improvvisazione nel jazz e nel rock), della poesia, della filosofia e delle arti visive. E se queste tossine vegetali funzionassero come una sorta di mutagene culturale, dagli effetti non dissimili dalle radiazioni sul genoma? Dopotutto, sono sostanze chimiche con il potere di alterare i costrutti mentali, di proporre nuove metafore, nuove modi di guardare alle cose e, talvolta, intere nuove teorie. Chiunque le usi sa bene che producono anche un sacco di errori mentali, che in gran parte sono inutili, o peggio, ma che a volte, inevitabilmente, si rivelano germi di nuove intuizioni e metafore. (E della parte migliore della letteratura occidentale, se dobbiamo tenere fede all’idea di “errore creativo” del teorico della letteratura Harold Bloom.) Anche le molecole non aggiungono nulla al bagaglio di memi presenti in un cervello umano, non più di quanto le radiazioni aggiungano nuovi geni. Ma di sicuro i cambiamenti di percezione e di consuetudini mentali che provocano sono tra i metodi, e i modelli, a nostra disposizione per trasformare le convenzioni culturali e mentali con l’immaginazione (per cambiare i memi che abbiamo ereditato).

A rischio di screditare la mia stessa teoria, devo ammettere che essa è dovuta – non so in che misura – a una pianta psicoattiva. L’idea che le droghe potessero funzionare come mutageni culturali mi venne mentre leggevo il gene egoista sotto l’effetto della marijuana, cosa non necessariamente consigliabile. Ma, indipendentemente dal suo valore, almeno è un’idea originale (quasi una mutazione della stessa idea di meme di Dawkins), e dubito molto che mi sarebbe venuta se, leggendo Dawkins, non avessi fumato un po’ d’erba. (Vorrei poter dire lo stesso per la precedente riflessione su Platone, ma purtroppo in quel caso ero del tutto sobrio.)

E’ vero, ho detto che non mi piaceva fumare erba. Ma la ricerca è la ricerca, inoltre il mio rapporto con la cannabis subì una svolta epocale quando ero ad Amsterdam. Avevo sentito tanto parlare dei miglioramenti della marijuana che ritenni doveroso offrirle un’altra opportunità, e, por l’appunto, scoprii che non mi faceva sentire né stupido né paranoico.

Il fatto di non essermi sentito stupido credo sia spiegabile grazie ai progressi nell’ibridazione della cannabis, che hanno reso possibile lo sviluppo di varietà che provocano effetti mentali diversi. Ai vertici del mercato ciò ha portato a una miglior conoscenza della cannabis, non solo per quanto riguarda profumo e aroma, ma anche per le caratteristiche specifiche a livello psicologico. Alcune varietà (soprattutto quelle con una percentuale maggiore di geni di indica) hanno un effetto narcotico, che causa intorpidimento. Altre (di solito quelle con più geni di sativa) lasciano la mente lucida e sciolta, senza debilitare il corpo. Alcuni coltivatori da me incontrati parlavano di erba per “colletti bianchi” e per “tute blu”. Per quanto mi riguarda, apprezzai di più le qualità stimolanti che favorivano la speculazione mentale.

Quanto al fatto di non essere diventato paranoico, ricordiamoci che mi trovavo in un paese dove è possibile fumare marijuana apertamente e senza paura. Non c’è rischio di sopravvalutare l’effetto della guerra alla droga americana sull’esperienza del fumare marijuana, droga notoriamente suscettibile alla forza di suggestione. Nel 1966 Allen Ginsberg, nel suo contributo pubblicato in The Atlantic Monthly sugli “usi” intellettuali della marijuana (ora sarebbe un argomento inaccettabile: al giorno d’oggi è ammesso parlare di usi terapeutici, ma non “intellettuali”), affermava che le emozioni negative a volte indotte dalla marijuana, quali ansia, paura e paranoia, sono “riconducibili non tanto agli effetti della droga, quanto piuttosto a quelli della legge”. I ricercatori parlano di “set” e “setting” – situazione emotiva personale e ambiente circostante – come di fattori decisivi per dare forma all’esperienza individuale di qualsiasi droga, e la marijuana, quasi immancabilmente, soddisfa le aspettative, sia in senso positivo che negativo. Lenson la definisce “la grande consenziente, che conferma qualunque cosa stia accadendo senza aggiungere quasi nulla di suo”. Secondo la mia esperienza, la cannabis non va utilizzata per cambiare umore, ma solo per intensificarlo. Fumando in un coffe shop accogliente, in compagnia di una dozzina di persone che facevano la stessa cosa, non avevo nessuna ragione di essere paranoico, e con ogni probabilità è per questo che non lo ero.

Facendo riferimento a questo fenomeno, Andrew Weil definisce la marijuana un “placebo attivo”. Weil sostiene che la cannabis di per sè non crea ma semplicemente innesca la condizione mentale che identifichiamo con l’”essere fatti”. Lo stesso, identico stato mentale, fatta esclusione per il “disturbo fisiologico” della droga, può essere innescato in altri modi, come la meditazione o alcuni esercizi respiratori. Weil ritiene che sia un errore del pensiero materialistico moderno il fatto di credere (come fanno i consumatori e i ricercatori) che l’ebbrezza sperimentata dai fumatori sia un prodotto della pianta (o del THC), e non una creazione della mente, magari influenzata, ma da se stessa.

Come accade spesso, è plausibile che la verità stia nel mezzo. Di sicuro l’esperienza psicologica della marijuana varia troppo – non solo da persona a persona ma anche da momento a momento – per essere spiegata in termini puramente chimici. Allo stesso tempo, la chimica di questa pianta particolare ha certamente a che fare, per esempio, con la nuova percezione dello spazio pittorico di Cèzanne, descritta da Ginsberg nel saggio appena citato, con l’introspezione religiosa risvegliata dagli sciamani, e con le mie riflessione errabonde sui memi mutanti. Con ogni probabilità l’oppio indurrebbe nelle stesse menti un genere diverso di pensieri. Si presume che esista una relazione di causa ed effetto tra molecola e mente, ma nessuno sa veramente quale sia.

Come hanno capito gli stregoni, gli sciamani e gli alchimisti che le usarono, le piante psicoattive dimorano sulla soglia fra materia e spirito, là dove la distinzione tra i due non regge più. Certo, la coscienza è ciò di cui stiamo parlando in questa sede, ed essa è esattamente il confine in cui si ferma la nostra comprensione sempre. L’aspetto interessante di una pianta come la marijuana è che ci porta lungo quel confine e potrebbe insegnarci qualcosa in merito a ciò che si trova dall’altra parte. Forse sorridiamo con indulgenza a poeti come Allen Ginsberg, che considerava la cannabis uno strumento utile all’esplorazione della coscienza. Ma potrebbero avere regione.

A metà degli anni sessanta del Novecento, un giovane farmacologo israeliano, Raphael Mechoulam, individuò il composto chimico responsabile degli effetti psicoattivi della marijuana: il delta-9-tetraidrocannabinolo, o THC, una molecola con una struttura diversa da qualunque altra trovata in natura fino ad allora. Da anni Mechoulam era affascinato dalla storia della cannabis e dai suoi usi medicinali (panacea in molte culture, fino alla sua proibizione negli anni trenta del Novecento, veniva usata per curare dolori, convulsioni, nausea, glaucoma, nevralgie, asma, crampi, emicrania, insonnia e depressione), e decise che valeva la pena di isolarne il principio attivo. Ma furono la popolarità della marijuana come droga ricreativa negli anni sessanta, e le preoccupazioni dell’opinione pubblica, a liberare le risorse per condurre questo tipo li lavoro e per numerose altre ricerche sui cannabinoidi che, nel tempo, hanno fornito una conoscenza senza precedenti del funzionamento del cervello umano.

Nel 1988 Allyn Howlett, ricercatrice presso la St Louis University Medical School, scoprì un recettore cerebrale specifico del THC: una cellula nervosa alla quale il THC si lega, come una chiave con la sua serratura, attivandola. Queste cellule recettrici costituiscono parte di una rete di neuroni, analoga a quella dei sistemi cerebrali che coinvolgono dopamina, serotonina ed endorfine. Quando la cellula di una rete viene attivata dalla sua chiave chimica, risponde in vario modo: invia un segnale chimico ad altre cellule, inserisce o disinserisce un gene, oppure diviene più o meno attiva. A seconda della rete coinvolta, questo processo può innescare cambiamenti cognitivi, comportamentali o fisiologici. La scoperta della Howlett evidenzia l’esistenza di una nuova rete nel cervello.

I ricettori cannabinoidi scoperti dalla Howlett erano presenti in gran quantità in tutto il cervello (così come nel sistema immunitario e in quello riproduttivo), tuttavia si concentravano nelle parti responsabili dei processi mentali che sono notoriamente alterati dalla marijuana: la corteccia cerebrale (adibita alle funzione psichiche più evolute), l’ippocampo (memoria), i gangli basali (movimento) e l’amigdala (emozioni). Fatto curioso, l’unica area neurologica dove non ce ne sono è il cervelletto, che regola le funzioni involontarie come la circolazione sanguigna e la respirazione. Questo potrebbe spiegare la bassissima tossicità della cannabis e il fatto che non siano noti casi di decesso per overdose.

Partendo dal presupposto che il cervello umano non può aver sviluppato una struttura speciale con il preciso scopo di inebriarsi con la marijuana, i ricercatori ipotizzarono che esso dovesse produrre da sé una sostanza chimica simile al THC per qualche motivo ancora sconosciuto. (Il paradigma scientifico che agisce qui è quello del sistema endorfinico, che è attivato dagli oppiacei di origine vegetale o dalle endorfine prodotte nel cervello.) Nel 1992, dopo circa trent’anni dalla scoperta del THC, Raphael Mechoulam (in collaborazione con William Devane) trovò il cannabinoidi endogeno prodotto dal cervello e lo chiamò “anandamide”, dal sanscrito ananda “gioia
profonda”.

Quasi sicuramente Mechoulam e la Howlett riceveranno il premio Nobel, in quanto le loro scoperte aprono un nuovo campo della neurobiologia che promette di rivoluzionare la nostra conoscenza del cervello e condurre alla creazione di una classe del tutto nuova di farmaci. Proseguendo il loro lavoro, i neurobiologi attualmente sono concentrati sulla scoperta del funzionamento della rete dei cannabinoidi, ma soprattutto sulla ragione della sua esistenza.

Ho rivolto la domanda a Mechoulam, alla Howlett e a numerosi loro colleghi impegnati nella ricerca sui cannabinoidi, e le risposte, anche se puramente congetturali, sono state suggestive. Ho scoperto che la rete dei cannabinoidi è particolarmente complessa e varia nelle sue funzioni, in parte perché sembrerebbe regolare l’azione degli altri neurotrasmettitori, come la serotonina, la dopamina e le endorfine. Quando ho chiesto alla Howlett quale potesse essere la finalità di tale rete, mi ha elencato una serie di effetti diretti e indiretti dei cannabinoidi: sollievo dal dolore, perdita della memoria a breve termine, tranquillità e un lieve indebolimento delle capacità cognitive.

Esattamente tutto ciò che Adamo ed Eva avrebbero desiderato dopo la cacciata dall’Eden. Impossibile progettare un farmaco migliore per alleviare a Eva i dolori del parto o permettere ad Adamo di sopportare il duro lavoro fisico di tutti i giorni. La Howlett inoltre ha osservato che i ricettori dei cannabinoidi sono presenti nell’utero, e ha ipotizzato che l’anandamide non solo attenui i dolori del parto, ma aiuti anche le donne a dimenticarli. (Curiosamente, la sensazione di dolore è una delle più difficili da richiamare alla memoria.) La scienziata ritiene che il sistema umano dei cannabinoidi si sia evoluto per permettere di sopportare (e a volte dimenticare) le difficoltà quotidiane della vita in modo tale che possiamo svegliarci la mattina e ricominciare tutto da capo. E’ la droga prodotta dal nostro cervello per affrontare la condizione umana.

Da parte sua, Raphael Mechoulam pensa che la rete dei cannabinoidi partecipi alla regolazione di numerosi processi biologici, tra cui la sopportazione del dolore, la formazione dei ricordi, l’appetito, la coordinazione dei movimenti e, aspetto forse più interessante, l’emotività. "Non sappiamo quasi nulla della chimica delle emozioni" precisa Mechoulam, ma è convinto che alla fine scopriremo che i cannabinoidi partecipano al processo grazie al quale il cervello
"Se vedo mio nipote corrermi incontro, sono felice. Come traduco dal punto di vista biochimico la realtà oggettiva di un nipotino che mi corre incontro in un cambiamento soggettivo delle mie emozioni?" I cannabinoidi del cervello potrebbero essere l’anello mancante.

Ma quante sono le probabilità di scoprire che una molecola prodotta da un fiore (da una pianta insignificante originaria delll’Asia centrale) possiede la chiave necessaria per attivare il meccanismo neurologico che presiede a determinati aspetti della coscienza umana? Questa corrispondenza tra mente e natura è qualcosa di miracoloso, eppure deve esistere una spiegazione razionale. Una pianta non compie lo sforzo di produrre (e continuare a produrre) una molecola unica e complessa come questa se non ne trae un vantaggio dal punto di vista evolutivo. E allora perché la cannabis produce il THC? Nessuno lo sa per certo, ma i botanici offrono una serie di ipotesi parimenti interessanti, che non hanno nulla a che vedere con l’ebbrezza degli esseri umani (perlomeno alle origini della storia della pianta).

Il THC potrebbe servire a proteggere dalle radiazioni ultraviolette: a quanto pare, maggiore è l’altitudine alla quale la cannabis cresce, più THC produce. Il THC possiede anche proprietà antibiotiche, e quindi potrebbe offrire protezione dalle malattie. Infine, è plausibile che fornisca alla cannabis una sofisticata difesa contro i parassiti. Sono stati trovati recettori di cannabinoidi in animali primitivi come l’idra, e i ricercatori sperano di individuarli anche negli insetti. Plausibilmente, la cannabis produce THC per confondere gli insetti (e altri erbivori) predatori: tale sostanza potrebbe servire a disorientare una cimice (oppure un cervo o una coniglio), facendole dimenticare dove ha visto quella pianta deliziosa. Qualunque sia il fine del THC, è improbabile che "una pianta produca un composto chimico per far sballare un ragazzo di San Francisco" (sono parole di Raphael Mechoulam).

O no? Robert Connell Clarke, l’esperto di marijuana che conobbi ad Amsterdam, non considerava l’idea tanto inverosimile come lascerebbe intendere Mechoulam. Pensava che molte teorie a favore della funzione difensiva fossero inadeguate e concludeva che: "il più evidente vantaggio evolutivo che il THC abbia conferito alla cannabis sta nelle proprietà psicoattive, che hanno attirato l’attenzione del genere umano e le hanno permesso di diffondersi in tutto il mondo".

Naturalmente Mechoulam e Clarke potrebbero avere ragione entrambi. Qualunque fosse il fine originario del THC, non appena un certo primate con il dono della sperimentazione e dell’orticoltura si imbattè nelle sue proprietà psicoattive, l’evoluzione della pianta intraprese un nuovo percosso, guidato da quel primate e dai suoi desideri. Le varietà di cannabis con le infiorescenze che offrivano agli esseri umani maggiore piacere, o la medicina più potente, ora sono quelle più ampiamente diffuse. Quello che all’inizio poteva essere stato un incidente biochimico, dopo l’addomesticamento divenne il destino coevolutivo della pianta, o perlomeno uno dei suoi destini.

Ma, l’antico ideogramma cinese per “canapa”, rappresenta una pianta maschile e una femminile sotto un tetto: la cannabis all’interno dell’edificio della cultura umana. La cannabis fu una delle prime piante a essere addomesticate (probabilmente prima per la fibra, e poi come droga); si coevolvette con il genere umano per oltre diecimila anni, al punto che la sua forma originaria potrebbe non esistere più. Adesso la cannabis è il prodotto del desiderio umano quanto una rosa Bourbon: abbiamo solo un’idea vaga di come potesse essere prima che legasse il proprio destino al nostro.

L’aspetto inconsueto della coevoluzione della cannabis (rispetto alla rosa o alla mela, per esempio) è che ha seguito due sentieri divergenti, ognuno dei quali rispecchia l’influenza di una desiderio umano differente. Lungo il primo (che avrebbe avuto inizio nell’antica Cina per dirigersi a ovest, verso l’Europa settentrionale e verso le Americhe), la pianta fu selezionata per la lunghezza e la resistenza delle fibre. (Fino al secolo scorso, la canapa era una delle principale risorse per la fabbricazione di carta e vestiario.) Lungo l’altro (che ebbe inizio in Asia centrale e si sviluppò attraverso l’India, l’Africa e, da lì, fino alle Americhe con gli schiavi, e all’Europa con l’esercito di Napoleone), la cannabis fu selezionata per i poteri medicinali e psicoattivi. Diecimila anni dopo, la canapa e la cannabis si differenziano come il giorno e la notte: la canapa produce una quantità insignificante di THC, la cannabis una fibra che non vale niente. (Ma per il governo degli Stati Uniti, esiste ancora solo una pianta, così il tabù della droga ha condannato la fibra.) difficile immaginare una pianta domestica più versatile della cannabis: un’unica specie che risponde a due desideri tanto diversi, il primo di natura più o meno spirituale, il secondo del tutto materiale.

Gli scienziati da me consultati avevano molto da dire sull’origine e sulla biochimica della pianta, ma non si pronunciavano in merito ai suoi effetti su come sperimentiamo la coscienza. Quello che mi interessava sapere era che cosa significa esattamente, dal punto di vista biologico, dire che una persona è “sballata”. Quando rivolsi la domanda ad Allyn Howlett, la sua riposta fu laconica: "E’ una disfunzione cognitiva". Disfunzione cognitiva? Va bene, ma non è un po’ come dire che fare sesso aumenta le pulsazioni? Non fa una piega, ma non ci avvicina di un passo al cuore della questione, o del desiderio. John Morgan, un farmacologo che ha scritto molto sulla marijuana, mi fece notare che "se non abbiamo ancora compreso la coscienza da un punto di vista scientifico, non possiamo sperare di spiegarne i cambiamenti". Mechoulam rispose alla mia domanda su cosa significhi in senso biochimico essere “sballati” dicendo soltanto: "Spiacente ma per il momento siamo costretti a lasciare queste domande ai poeti".

A quanto pareva gli scienziati mi avevano lasciato a piedi, con un ampio bagaglio poco scientifico, una busta d’erba e la dubbia compagnia di poeti come Allen Ginsberg, Charles Baudelaire, Fitz Hugh Ludlow e (accidenti!) l’astrofisico Carl Sagan, ma in veste assolutamente profana. Infatti avevo scoperto che, nel 1971, Sagan pubblicò anonimamente un resoconto sincero e meraviglioso delle sue esperienze con l’erba, alle quali attribuiva “intuizioni devastanti” sulla natura della vita. 10
Eppure, mentre procedevo nella mia indagine letteraria e fenomenologica sull’esperienza con l’erba, capii subito che gli scienziati mi avevano fornito elementi preziosi. Senza volerlo, mi avevano indirizzato verso una comprensione più profonda di ciò che la cannabis causa alla coscienza umana e di ciò che forse ci può insegnare. In effetti, Allyn Howlett probabilmente era nel giusto con la sua risposta semplice, e un po’ brutale, perché sono arrivato a convincermi che il fulcro del problema sia proprio una “disfunzione cognitiva” di natura molto particolare. Ora mi spiego.

Gli scienziati con cui avevo parlato erano concordi nel citare la perdita della memoria a breve termine come uno dei principali effetti neurologici dei cannabinoidi. A loro modo, i “poeti” che cercarono di descrivere l’esperienza dell’ebbrezza da cannabis fecero altrettanto. Tutti parlano della difficoltà di ricostruire quello che è successo pochi secondi prima e di quale sforzo titanico sia necessario per seguire il filo di una conversazione (o di una brano di prosa) quando la memoria a breve termine non funziona in modo normale.

Ma gli scienziati affermano che il THC della cannabis imita soltanto l’azione dei cannabinoidi del cervello. È una cosa piuttosto curiosa: il nostro cervello produce un composto chimico che interferisce con la capacità di memorizzare, e non solo con il ricordo del dolore. Così scrissi un’e-mail a Raphael Mechoulam, domandandogli perché riteneva che il cervello secernesse una sostanza con un effetto tanto indesiderabile.

“Non essere tanto sicuro che dimenticare sia indesiderabile” mi rispose. “Sei sicuro di volerti ricordare tutte le facce che hai visto stamattina sulla metropolitana di New York?

L’osservazione forse ambigua di Mechoulam mi aiutò a capire che l’oblio è un’operazione mentale assolutamente sottovalutata: si tratta proprio di un’operazione mentale e non, come avevo sempre pensato, soltanto di un guasto della memoria. Già, non avere memoria può rivelarsi un flagello, specie con l’età. Ma è anche una delle operazioni più importanti compiute da un cervello sano, quasi quanto ricordare. Pensiamo a quanto rapidamente il volume totale e la molteplicità delle informazioni sensoriali che riceviamo in ogni minuto di veglia sopraffarebbe la nostra coscienza se non potessimo dimenticare ben più di quello che ricordiamo.

In ogni istante, i miei sensi riportano alla mia coscienza – l’“io” che percepisce – una valanga di dati che nessuna mente umana potrebbe assimilare del tutto. Per spiegarmi meglio, proverò a fissare qualche goccia di questa cascata percettiva, conservando una selezione trasversale di ciò che solitamente dimentichiamo. Ecco che cosa ho davanti agli occhi, anche senza muovermi: dritto di fronte a me, ci sono le parole che sto digitando su uno schermo di computer dallo sfondo blu e un groviglio di icone. Intorno, la grana del legno chiaro della mia scrivania, il tappetino del mouse (con immagini e parole stampate), un CD rosso che vedo girare attraverso la finestrella dello stereo, due scaffali con una ventina di dorsi di libri che potrei leggere con facilità ma non leggo, la griglia di plastica grigia del convettore, una raccoglitore azzurro (intitolato “Articoli erba”) infilato in un archivio in un angolo, due mani con un numero imprecisato di dita in movimento (cerotto su una, un bagliore dorato sull’altra), un grembo vestito di jeans, due polsi vestiti di verde, una finestra (il telaio verde inquadra un massiccio ricoperto di licheni, dozzine di alberi, centinaia di rami e milioni di foglie) e, a tracciare un margine impercettibile attorno al 90 percento del mio campo visivo, la montatura metallica degli occhiali.

E questi sono solo gli occhi. Il mio senso del tatto, in contemporanea, propone alla mia attenzione un lieve indolenzimento alla spalla, un leggero senso di bruciore sulla punta del dito medio destro (dove ieri mi sono tagliato) e l’aria fresca attraverso le narici. Il gusto? Tè nero e bergamotto (Earl Grey), un residuo leggermente salato di colazione sulla lingua (salmone affumicato), colonna sonora: Red Hot Chili Peppers in primo piano, seguiti dal sibilo del convettore sulla destra, il ronzio della ventola di raffreddamento del computer in basso a sinistra, i clic del mouse, il suono secco della tastiera, lo scricchiolio interno del collo quando inclino la testa da una parte e infine, fuori, qualche canto di uccello, il gocciolio metodico sul tetto e lo squarcio, in cielo, di un aereo a propulsione. Olfatto: Lemon Pledge, misto a legno umido. Non provo neppure a catalogare gli innumerevoli pensieri vaganti che mordicchiano la stesura di questo paragrafo come un branco di pesci piroettanti. (O forse lo farò: ondate di dubbi e pensieri secondari, che propongono una folla di parole e costruzioni grammaticali alternative, allettanti opzioni per il pranzo, piccoli buchi neri della coscienza dai quali tento di estrarre metafore, qualche scusa gridata a gran voce, una consapevolezza spugnosa del tempo che manca all’ora di pranzo, e così via…)
“Se potessimo sentire il battito del cuore di uno scoiattolo o il rumore dell’erba che cresce, moriremmo per il frastuono” scrisse George Eliot. La nostra salute mentale dipende da un meccanismo che cura l’oceano di dati sensori che momento dopo momento fluiscono nella nostra coscienza e li riduce a un piccolo flusso più docile di cose note e ricordate. La rete dei cannabinoidi sembra fare parte di tale meccanismo, che setaccia con cura la massa di impressione sensorie e ne trae il nucleo della percezione che ci serve ricordare per affrontare la giornata e svolgere le nostre mansioni.11 Dimenticare è una funzione molto importante.

Il THC contenuto nella marijuana e i cannabinoidi endogeni del cervello per molti aspetti lavorano nello stesso modo, ma il THC à molto più forte e persistente dell’anandamide, che, come molti neurotrasmettitori, è fatto per scomporsi subito dopo il rilascio. (Fra tutte le sostanze, il cioccolato sembra rallentare questo processo, il che spiegherebbe la sua sottile proprietà di modificare l’umore.) Forse allora fumare marijuana potrebbe sovreccitare la funzione automatica della dimenticanza, potenziandone la normale attività.
Non è cosa da poco. Mi arrischierei a dire che, più di qualsiasi altra qualità, sia questo implacabile dimenticare di momento in momento, questo svuotarsi della vasca delle impressioni sensorie man mano che si riempie, a conferire una consistenza particolare all’esperienza della coscienza sotto l’effetto di marijuana. Ciò aiuta a spiegare l’acutezza delle percezioni, l’aura di profondità in cui la cannabis immerge le considerazioni più comuni, e, cosa ancora più importante, la sensazione che il tempo rallenti o addirittura si fermi. Perché è solo dimenticando che riusciamo a ignorare la tirannia del tempo e ad accostarci alle esperienze della vita nel momento presente, di solito tanto elusivo. Alla base del desiderio umano di alterare la coscienza, sia con le droghe che con altri mezzi, sembrerebbe esserci proprio la meraviglia di quest’esperienza.

“Osserva il gregge che ti pascola innanzi” esordì Friedrich Nietzsche in un brillante saggio piuttosto stravagante del 1876, intitolato “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”.
“Esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, incatenato al momento con il suo piacere e dolore, e perciò né triste né tediato…”
“Un essere umano chiese una volta a un animale:’Perché non mi parli della tua felicità e mi guardi soltanto?’. L’animale voleva rispondere e dire: ‘Il fatto è che dimentico sempre quello che sto per dire’, ma subito dimenticò anche questa risposta e rimase silenzioso.”

La prima parte del saggio di Nietzsche è un’ode toccante e a volte spassosa sulle virtù dell’oblio, che egli considera requisito indispensabile alla felicità umana, alla salute mentale e all’azione. Senza sminuire il valore della memoria e della storia, sostiene (come Emerson e Thoreau) che consumiamo troppa energia a pensare alle ombre del passato, sotto il peso insulso delle convenzioni, di una saggezza vetusta accettata come vera e della nevrosi. Come i trascendentalisti americani, Nietzsche credeva che il nostro retaggio individuale e collettivo ci precludesse la gioia di vivere e la realizzazione di qualcosa di originale.
“L’allegria, la buona coscienza, l’azione gioiosa, la fiducia nel futuro: tutto ciò dipende […] dalla capacità di dimenticare al tempo giusto, quanto di ricordare.” Nietzsche ci esorta a liberarci “del grande e sempre più grande carico del passato” e a vivere invece come un bambino (o una mucca) che “gioca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro”. Riconosce che, vivendo il presente, si corre qualche rischio (si è soggetti “a considerare erroneamente le proprie esperienze originali”), ma ogni perdita in scaltrezza o sofisticazione è più che ripagata dall’aver ottenuto una maggiore energia.

Per Nietzsche l’”arte e il potere dell’oblio” consistono in una sorta di selezione radicale o di cancellazione dalla coscienza di tutto ciò che non serve allo scopo presente. Un uomo trascinato da una “violenta passione” o da una grande idea deve essere cieco e sordo a ogni cosa eccetto quella passione e quell’idea. Tutto ciò che percepisce, lo percepirà come mai prima: “tangibilmente vicino, colorito, risonante, come se lo afferrasse contemporaneamente con tutti i sensi”.
Quella descritta da Nietzsche è una sorta di trascendenza, uno stato mentale di assorbimento completo ben noto ad artisti, atleti, giocatori d’azzardo, musicisti, ballerini, soldati in battaglia, mistici e devoti in preghiera. Anche nel corso dell’attività sessuale può verificarsi qualcosa di simile, o sotto l’influenza di determinate droghe. Si tratta di una condizione che necessita della perdita di sé per un istante, e che di solito si raggiunge esercitando una potente e insondabile concentrazione su un unico oggetto. (O, nella tradizione orientale, sul nulla assoluto.) Se immaginiamo la coscienza come una lente attraverso la quale percepiamo il mondo, il drastico restringimento del suo campo visivo intensifica la lividezza di ciò che rimane all’interno del cerchio, mentre tutto il resto (inclusa la nostra consapevolezza della lente) scompare.

Alcune delle nostre gioie più grandi sopraggiungono in momenti simili, durante i quali è come se fossimo stati liberati dalla tirannia del tempo – dal tempo dell’orologio, certo, ma anche dal tempo storico e psicologico, e talvolta perfino dalla mortalità. Non che questo stato mentale non abbia i suoi inconvenienti; uno per tutti, non ci importa più delle altre persone. Eppure questo profondo assorbimento nel presente è la cosa di più vicina alla grande esperienza dell’eternità a cui noi mortali possiamo accedere ( lo dicono sia la tradizione religiosa occidentale che quella orientale). Boezio, filosofo neoplatonico del VI secolo, affermava che l’obiettivo del nostro sforzo spirituale è “trattenere e possedere la totale pienezza della vita in un unico istante, qui e ora, passato, presente e futuro”. Così pure nella tradizione orientale: “Risvegliandoci all’istante presente” scrisse un maestro zen “capiamo che l’infinito si trova nella finitezza di ogni istante”. Ma non possiamo arrivarci senza prima dimenticare.

Per natura non sono un grande osservatore. A meno che non compia uno sforzo consapevole, non noto il colore della camicia che indossate, la canzone trasmessa alla radio o se mettete una o due zollette di zucchero nel caffè. Quando lavoravo come reporter, dovevo continuamente costringermi a osservare i dettagli: camicia a quadretti, due zollette, Van Morrison. Non ho la minima idea del perché le cose stiano così; so solo che ho sempre la mente altrove, che sono incline a pensare a qualcos’altro, qualcosa del passato, proprio quando sto apparentemente vivendo un’esperienza nuova. Quasi sempre, la mia attenzione non può evitare di battere in ritirata, passando dal qui e ora al pensiero astratto, per balzare dai dati sensoriali alle conclusioni.

In realtà è ancora peggio. Molto spesso le conclusioni o i concetti vengono prima, permettendomi di fare del tutto a meno dei dati sensoriali o di notare solo quello che combacia. È una forma di impazienza rispetto alla vita vissuta, e anche se potrebbe sembrare sintomo di una mente attiva, in realtà temo sia solo pigrizia. Mio padre era avvocato, e quando una volta gli fecero i complimenti per la sua capacità di prevedere tre o quattro mosse nel corso di una trattativa, spiegò che la ragione per cui preferiva giungere subito alle conclusioni era che così poteva tornare a casa presto e riposarsi. Io mi comporto nello stesso modo nelle mie trattative con la realtà.

Credo che il mio sia solo un caso acuto di un disturbo dell’attenzione più o meno universale. Vedere, ascoltare, odorare, sentire o assaporare le cose come “realmente sono” è sempre più difficile, se non impossibile (in parte perché, come aveva capito George Eliot, facendolo verremmo sopraffatti), quindi percepiamo ogni istante multisensoriale attraverso uno schermo protettivo di idee, esperienze passate o aspettative. “La natura indossa sempre i colori dello spirito” scrisse Emerson, e intendeva dire che non vediamo mai il mondo con semplicità, ma solo attraverso il filtro di concetti antecedenti o metafore. (I “colori” della retorica classica, tropi.) Nel mio caso, il filtro è così sottile (o spesso?) che molti dettagli e caratteristiche della realtà non lo attraversano. È un vizio mentale che vorrei assolutamente correggere, perché mi impedisce di godere dei piaceri dei sensi e del momento, piaceri che – almeno in astratto – apprezzo più di ogni altra cosa. Ma ecco il problema: “in astratto”.

Tutti coloro che scrivono dell’effetto della cannabis sulla coscienza parlano di cambiamenti nella percezione, e in particolare di un’intensificazione di tutti i sensi. Il gusto dei soliti cibi è migliore, musica familiare all’improvviso diventa sublime, e un contatto sessuale una rivelazione. Gli scienziati che hanno studiato il fenomeno non sono riusciti a quantificare l’acutezza visiva, uditiva o tattile dei soggetti sotto l’effetto di marijuana, ma invariabilmente essi riferiscono di vedere, sentire e gustare ogni cosa con un’intensità nuova, come se avessero nuovi occhi, orecchi e papille gustative.

Si sa come funziona, questa enfasi dell’esperienza, questa osservazione quasi virginale del mondo sensibile. Avete già sentito quella canzone un migliaio di volte, ma ora, all’improvviso, la ascoltate in tutta la sua bellezza struggente, la dolce, infinita intensità della linea della chitarra è come una rivelazione, e per la prima volta capite, ma capite davvero, esattamente quello che Jerry Garcia voleva comunicare con ogni nota: la sua improvvisazione vivace e accorata, che non conosce fretta, trasmette alla vostra mente qualcosa di molto vicino al significato della vita.

O quella deliziosa cucchiaiata di gelato alla vaniglia, che squarcia il velo scialbo della quotidianità per rivelarci il significato sublime e struggente della “crema”, riportandoci al seno materno. Per non dire di quella meraviglia mai adeguatamente apprezzata prima: la vaniglia. Non è stupefacente che ci capiti di vivere in un universo in cui si trova anche la qualità della “vaniglia”? Come sarebbe stato banale altrimenti, e dove saremmo (dove sarebbe il cioccolato?) senza quell’unica nota insostituibile, quel do della chiave di basso nella scala dei gusti archetipici? (Consultare Platone!)

Per la prima volta nel vostro viaggio su questo pianeta state davvero apprezzando la vaniglia nella sua massima espressione. Finchè non sopraggiunge una nuova rivelazione (Le sedie! Persone che pensano in altre lingue! L’acqua gasata!) e quella del gelato se ne invola come una foglia alla brezza delle associazioni libere.
Non c’è niente di più facile che ridere di queste percezioni indotte dall’erba, da sempre facile bersaglio delle barzellette sulla marijuana. Ma non sono disposto ad ammettere che tali rivelazioni siano vuote e fallaci come appaiono di solito alla fredda luce del giorno dopo. In realtà sono tentato di schierarmi con Carl Sagan, il quale era convinto che il “problema del mattino dopo” non fosse una questione di autoinganno, quanto piuttosto un’incapacità comunicativa a esprimere “queste intuizioni in una forma accettabile per il nostro io del giorno dopo, completamente diverso”. Semplicemente ci mancano le parole per trasmettere la forza di queste percezioni al nostro io sobrio, forse perché esse precedono le parole. Il fatto che a volte siano banali, non significa che non siano, al tempo stesso, profonde.

La marijuana dissolve questa apparente contraddizione, e lo fa permettendoci di dimenticare momentaneamente gran parte del bagaglio che di solito accompagna la nostra percezione di una cosa come il gelato, con il suo senso acquisito di familiarità e ovvietà. Ma che cos’è il senso di ovvietà se non una difesa contro la forza schiacciante (o perlomeno disorientante) di una cosa provata per la prima volta? L’ovvietà dipende dalla memoria, come pure l’ironia, l’astrazione e la noia, altre tre difese che una mente istruita dispiega contro l’esperienza, in modo da riuscire ad affrontare la giornata senza vivere in un costante, faticoso stato di stupore.

È facendo provvisoriamente sparire ciò che sappiamo già (o che pensiamo di sapere) che la cannabis ristabilisce l’innocenza della nostra percezione del mondo, una forma di innocenza che gli adulti spesso considerano con imbarazzo. I cannabinoidi sono molecole con il potere di renderci tutti romantici e trascendentalisti. Momento per momento, mettono fuori uso la memoria, che ci spinge sempre al di là del territorio imprevedibile del presente e ci rigetta sulle scorciatoie conosciute del passato, e permettono l’accesso a qualcosa di più vicino all’esperienza diretta. Per grazia di questa dimenticanza, accantoniamo temporaneamente il nostro modo di guardare consueto e vediamo le cose come se fosse la prima volta, al punto che anche un comune gelato diventa un GELATO!

C’è un altro termine per esprimere questa visione estremista, la sensazione del primo sguardo libero dall’istruzione, dal “sono-già-stato-qui” e dal “già-visto” della mente adulta: questo termine è “stupore”.

La memoria è nemica dello stupore, che non alberga in altro luogo che non sia il presente. Ecco perché, a meno che non si sia bambini, lo stupore dipende dalla dimenticanza, cioè da un processo di sottrazione. Di solito pensiamo alla droga come a un’esperienza aggiuntiva: spesso si dice che le droghe “distorcono” la percezione normale e aumentano e dati sensoriali (“aggiungendo” le allucinazioni, per così dire) ma potrebbe essere vero il contrario, cioè che il loro compito sia quello di togliere alcuni filtri che la coscienza normalmente interpone tra noi e il mondo.
Perlomeno, fu questa la conclusione raggiunta da Aldous Huxley nel 1954 il “Le porte della percezione”, resoconto dei suoi esperimenti con la mescalina. Secondo Huxley, la droga (estratta dal peyote, il fiore di un cactus del deserto) disattiva la “valvola riducente” della coscienza, la sua definizione della facoltà ordinatrice di ogni giorno della mente conscia. La valvola riducente fa sì che non siamo schiacciati dalla “pressione della realtà”, ma ha un prezzo, perché il meccanismo ci impedisce di vedere la realtà come veramente è. Le intuizioni dei mistici e degli artisti derivano dalla loro speciale capacità di spegnere la valvola di riduzione della mente. Non sono certo che qualcuno di noi abbia mai percepito la realtà “come veramente è” (come faremmo a saperlo?), ma Huxley è convincente nel descrivere lo stupore che si verifica quando riusciamo a sospendere il nostro consueto modo verbale e concettuale di vedere. (E’ assolutamente sincero quando scrive della bellezza delle pieghe di un tessuto, di una sedia da giardino e di un vaso di fiori: “Vedevo quello che Adamo aveva visto al mattino della sua creazione: il miracolo, momento per momento, della nuda esistenza.”)

Credo di avere compreso il concetto di “valvola riducente della coscienza” di Huxley, ma nella mia esperienza il meccanismo sembra leggermente diverso. Mi immagino la coscienza comune più come un imbuto,o, meglio ancora, come la strozzatura di una clessidra. In questa metafora, l’occhio della mente è in equilibrio tra passato e futuro, e decide quali, tra gli innumerevoli granelli dell’esperienza sensibile, passeranno attraverso la stretta apertura del presente ed entreranno nella memoria. Lo so, la mia metafora presenta qualche problema, primo fra tutti che alla fine tutta la sabbia scivola sul fondo della clessidra, mentre gran parte dei granelli dell’esperienza non superano mai la soglia del nostro interesse. Ma perlomeno rende l’idea che il ruolo principale della coscienza è eliminatorio e difensivo: mantenendo l’ordine percettivo, ci impedisce di essere travolti.

Ma che cosa succede all’esperienza sotto l’influenza delle droghe, o dell’ispirazione? Nella metafora di Huxley, la valvola riducente si apre per ricevere più esperienze, sono d’accordo, ma farei una precisazione specificando che (come negli esempi di Huxley) l’effetto della coscienza alterata consiste nel ricevere molte più informazioni in merito a un minuscolo segmento di esperienza. “Le pieghe dei miei pantaloni di flanella grigia erano sature di ‘essenza’”scrisse Huxley prima di dilungarsi sui drappeggi del Botticelli “Tutto e l’Infinito nelle pieghe di un tessuto”. Il processo consueto per il quale i granelli di percezioni ci passano accanto rallenta il cammino, fino al punto in cui l’io cosciente può trattenere ogni granello, esaminandolo scrupolosamente da ogni lato (a volte da più lati di quanti ne abbia), finchè tutto quello che c’è si trova nella strettoia della clessidra, dove il tempo stesso sembra fermarsi. Ma questo stupore è reale? A un primo sguardo si direbbe di no: una trascendenza chimicamente indotta deve essere falsa. Non a caso Charles Baudelaire nel 1860 intitolò il suo libro, frutto dell’esperienza con l’hashish, “I paradisi artificiali”. Ma se risultasse che la neurochimica della trascendenza è la stessa quando fumiamo marijuana, meditiamo o entriamo in una trance ipnotica salmodiando, digiunando o pregando? E se in tutti questi tentativi il cervello fosse semplicemente stimolato a produrre grandi quantità di cannabinoidi, annullando la memoria a breve termine e consentendoci di sperimentare la profondità del presente? Ci sono molti sistemi per modificare la chimica del cervello; le droghe potrebbero semplicemente essere il più diretto. (Questo non le rende necessariamente il modo migliore per alterare la coscienza: a dire il vero, gli effetti collaterali tossici di molte di esse dimostrerebbero il contrario.) Forse, dal punto di vista del cervello, non ha senso distinguere tra ebbrezza naturale e artificiale.

Aldous Huxley fece del suo meglio per convincerci che l’esperienza spirituale indotta chimicamente non è falsa, e lo fece ben prima che conoscessimo le reti dei recettori cannabinoidi o oppiodi. “In un modo o nell’altro, tutte le nostre esperienze sono condizionate dalla chimica, e se crediamo che alcune di esse siano puramente ‘spirituali’, puramente ‘intellettuali’, puramente ‘estetiche’ è solo perché non ci siamo mai presi la briga di esplorare la chimica dell’organismo nel momento in cui si verificavano.” Huxley spiega come i mistici abbiano sempre lavorato in modo sistematico alla modificazione della chimica del cervello, con il digiuno, l’autoflagellazione, la veglia, il movimento ipnotico o la recitazione ripetitiva delle preghiere.12 Il cervello è in grado di drogarsi da solo, come succede con determinati placebo. Non è solo immaginazione che un placebo antidepressivo agisca per lenire la nostra tristezza o la nostra preoccupazione: di fatto il cervello produce una dose extra di serotonina in risposta allo stimolo mentale di una pillola che non contiene altro che zucchero e convinzione. Tutto ciò significa che le funzioni della coscienza sono al contempo più e meno materialistiche di quanto comunemente si pensi: le reazioni chimiche possono indurre determinati pensieri, ma, a loro volta, i pensieri sono in grado di provocare reazioni chimiche.

Ciò nonostante, l’uso di droghe per fini spirituali sembra ingannevole e a buon mercato. Forse è la nostra etica del lavoro a venirne offesa: si sa, non c’è guadagno senza sofferenza. Oppure è l’origine dei composti chimici a infastidirci, il fatto che provengano “dall’esterno”. Soprattutto nell’Occidente giudaico-cristiano, siamo soliti definirci in base alla distanza che abbiamo posto tra noi e la natura, e guardiamo con gelosia ai confini tra materia e spirito come prova del nostro legame con gli angeli. L’idea che lo spirito possa rivelarsi materia (e niente meno che materia vegetale!) rappresenta una minaccia al nostro senso di separatezza e religiosità. La conoscenza spirituale proviene dall’alto o dall’interiorità, di certo non dalle piante. I cristiani hanno un nome per chiamare chi la pensa altrimenti: pagano.

Esistono due storie dietro i tabù occidentali posti sulla cannabis in diversi momenti storici. Ognuna di esse riflette la nostra ansietà in merito a questa pianta straordinaria, e a quello che il suo potere dionisiaco potrebbe fare se non fosse combattuta o posta sotto controllo.

La prima, importata dall’Oriente da Marco Polo (tra gli altri), è la storia degli assassini, o piuttosto una sua versione corrotta, forse apocrifa. Si svolge nell’XI secolo, quando una setta viziosa detta degli “assassini”, sotto il controllo assoluto di Hassan ibn al Sabbah (noto anche come “il Vecchio della montagna) diffondeva il terrore per tutta la Persia, saccheggiando e uccidendo con ferocia. I predoni di Hassan facevano qualsiasi cosa lui chiedesse senza mai opporsi: non temevano la morte. Ma come riusciva Hassan ad assicurarsi la loro lealtà assoluta? Offrendo ai suoi uomini la possibilità di pregustare il paradiso eterno, che si sarebbero guadagnati se fossero morti al suo servizio.

L’iniziazione delle nuove reclute di Hassan prevedeva di far loro assumere tali quantità di hashish che essi perdevano i sensi. Ore dopo, gli uomini si risvegliavano nello splendido giardino di un palazzo, colmo di prelibatezze sontuose e fornito di fanciulle meravigliose pronte a soddisfare ogni loro desiderio. Sparse per il paradiso, in una pozza di sangue, c’erano alcune teste (attori sotterrati fino al collo). Le teste raccontavano agli uomini dell’aldilà e dicevano loro cosa fare per ritornare in quel luogo paradisiaco.

All’epoca in cui Marco Polo la riportò, la storia era già corrotta, al punto che l’hashish era ormai il diretto responsabile della violenza degli assassini. (La parola assassino è una corruzione di “hashish”.) Annullando la paura della morte degli assassini, insinuava il racconto, l’hashish li rendeva capaci di compiere le peggiori efferatezze. La storia è poi divenuta uno dei cardini dell’orientalismo e, in seguito, della campagna di criminalizzazione della marijuana negli anni trenta del Novecento in America. Harry J. Anslinger, primo direttore del Federal Bureau of Narcotics e primo responsabile della proibizione della cannabis, citava gli assassini a ogni occasione. Utilizzò con abilità questo metaracconto – pubblicizzando ogni episodio di criminalità contemporanea che potesse adattarsi alla sua trama sinistra – per trasformare una droga poco nota e fonte di indolenza in una minaccia sociale e in una causa di violenza. Anche dopo il declino della “pazzia da spinello” di Anslinger, la morale della storia degli assassini continuò a perseguitare la cannabis (l’idea che, recidendo il nesso tra azioni e conseguenze, la marijuana liberi dalle inibizioni, mettendo quindi in pericolo la civiltà occidentale).

Ma ecco la seconda storia. Nel 1484 Innocenzo VIII emise un editto papale contro la stregoneria, nel quale condannava specificamente l’uso della cannabis in quanto “antisacramento” nei riti satanici. Le messe nere celebrate dalle streghe e dai maghi medievali includevano una rappresentazione beffarda dell’eucarestia cattolica. Qui la cannabis, per tradizione, sostituiva il vino, fungendo da sacramento pagano in una controcultura che mirava a scalzare l’alto clero.
Il fatto che, in Europa, maghi e streghe fossero i primi a utilizzare le proprietà psicoattive della cannabis probabilmente ne decretò il destino, facendone una droga identificabile con outsider temuti e culture ostili: pagani, africani e hippie. Le due storie si alimentarono a vicenda e a turno accrebbero il presunto potere della pianta: chi fumava cannabis era “diverso”, e la cannabis minacciava di lasciare libera la sua diversità.

La chiesa condannò al rogo le streghe, ma alle loro piante magiche accadde qualcosa di più interessante. Erano troppo preziose per essere bandite dalla società umana, così, nei decenni successivi al decreto di papa Innocenzo contro la stregoneria, cannabis, oppio, belladonna e tutte le altre furono semplicemente trasferite dal regno della stregoneria a quello della medicina, grazie soprattutto all’opera di un medico e alchimista svizzero del XV secolo: Paracelso. Chiamato a volte “padre della medicina”, Paracelso istituì una farmacopea legalmente riconosciuta basata sugli ingredienti trovati negli unguenti per volare delle streghe. (A lui si deve l’invenzione del laudano, la tintura di oppio che fu forse il farmaco più importante fino al XX secolo.) Paracelso diceva spesso che aveva appreso tutte le sue conoscenze mediche dalle streghe. Operando sotto il segno della razionalità apollinea, addomesticò la loro conoscenza dionisiaca proibita, trasformando le pozioni pagane in tinture curative, imbottigliando le piante magiche e chiamandole medicine.

Il grande progetto di Paracelso, che si può dire sia tutt’oggi in atto,13 incarna uno dei molti modi in cui la tradizione giudaico-cristiana dispiegò il proprio ingegno per assorbire, o cooptare, il potere della fede pagana che si era proposta di estirpare. Il nuovo monoteismo, che incluse nei suoi rituali le festività e gli spettacoli della tradizione pagana, aveva un disperato bisogno di intervenire anche riguardo alla devozione ancestrale verso le piante magiche. Non a caso, la storia del frutto proibito nella Genesi ci dimostra che non esisteva niente di più importante.

Queste piante lanciarono una grande sfida al monoteismo, perché minacciavano di deviare lo sguardo della gente dal cielo, dove risiedeva il nuovo Dio, al mondo naturale che la circondava. Le piante magiche erano, e rimangono, una forza gravitazionale che ci riconduce alla terra, alla materia, al presente, lontano dalle promesse della salvezza cristiana. Forse è proprio il mutamento della percezione del tempo il pericolo maggiore di tali piante, perlomeno secondo la prospettiva di una civiltà organizzata sul modello del cristianesimo e, più di recente, del capitalismo.
Probabilmente cristianesimo e capitalismo fanno bene a detestare una pianta come la cannabis. Entrambi ci impongono di rivolgere lo sguardo al futuro; entrambi rinnegano i piaceri dei sensi e del momento presente a favore dell’aspettativa di un appagamento che deve ancora venire, guadagnando la salvezza o possedendo e spendendo. Invece, più di altre droghe, immergendoci nel presente e offrendoci una soddisfazione immediata, la cannabis boicotta la metafisica del desiderio da cui dipendono cristianesimo e capitalismo (insieme a gran parte della nostra civiltà).14

Ma qual era la conoscenza da cui Dio voleva tenere lontani Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden? I teologi possono discuterne all’infinito, ma a me pare che la risposta sia sotto gli occhi di tutti. Il contenuto della conoscenza che Adamo ed Eva potevano ottenere assaggiando il frutto proibito conta meno della sua forma; esisteva un sapere spirituale di un qualche genere che poteva essere carpito da un albero: il sapere della natura. La nuova religione mirava a spezzare il legame magico del genere umano con la natura, a privare di fascino il mondo delle piante e degli animali per dirigere la nostra attenzione verso un unico Dio in cielo. Ma Yahweh non poteva fingere che l’albero della conoscenza non esistesse, non con generazioni di pagani adoratori delle piante che lo conoscevano benissimo. Così l’albero pagano fu autorizzato a crescere anche nell’Eden, ma circondato da un tabù. È vero, esiste una conoscenza spirituale nella natura, lo ammette anche il nuovo Dio, e le sue tentazioni sono implacabili, ma io sono ancora più implacabile. Se cederete, sarete puniti.

Ecco come andò la prima battaglia della guerra alla droga.

Ho tolto ogni tentazione dal mio giardino, con qualche riserva e un po’ di rimpianto. Questa primavera, immerso nella ricerca per questo capitolo, ero fortemente tentato di piantare uno dei semi di cannabis che avevo visto in offerta ad Amsterdam. Ma ho subito pensato che era meglio di no. Così al suo posto ho seminato tanti papaveri da oppio. Aggiungo subito che non ho altra intenzione se non quella di ammirarli: prima i fiori fugaci dai petali come carta, poi le capsule verdeazzurro, gonfie di lattice contenente l’alcaloide. (A meno che sia sufficiente camminare tra i papaveri per sentirne l’effetto, come succede a Dorothy a Oz.) Non incisi, e quindi innocenti, questi papaveri sono la controfigura della cannabis che non ho potuto piantare. Ogni volta che ne osserverò i petali languidi, mi ricorderò dei poteri che questo giardino ha ripudiato per non correre rischi con la legge.
Così mi ritrovo in un giardino epurato, un pezzo di terra denso di piaceri discreti (cose buone da mangiare e belle da guardare), delimitato dal rispetto della legge.

Se Dioniso vi è rappresentato, e di sicuro lo è, è soprattutto grazie ai fiori. Sarei ingiusto se non considerassi il potere di una rosa profumata, capace di risollevare lo spirito, evocare ricordi e inebriare, e non solo in senso metaforico.
Il giardino è un luogo pieno di misteri, un’arena – banale come una stanza qualsiasi e al contempo speciale come un luogo sacro – dove possiamo non solo assistere, ma anche rappresentare in modo rituale il nostro legame costante con il mondo naturale. Costante, ma molto assottigliato al giorno d’oggi, perché la civiltà sembra decisa a recidere, o perlomeno a dimenticare,la nostra connessione con la terra. Ma nel giardino vengono preservati gli antichi legami e non solo in qualità di simboli. Ci nutriamo del nostro piccolo orto e, se prestiamo attenzione, ci ricordiamo di dipendere dal sole e dalla pioggia e dall’alchimia quotidiana delle foglie che chiamiamo fotosintesi. Allo stesso modo, l’impiastro di foglie di borragine che ci fa espellere un pungiglione di vespa ci riporta in un mondo semimagico di piante curative dal quale la medicina moderna vorrebbe allontanarci. Sacramenti come questo sono talmente innocui che ben pochi avrebbero problemi ad abbracciarli, anche se hanno una vaga connotazione pagana. Immagino sia perché siamo desiderosi si ricordare che il nostro corpo è sempre legato al mondo delle piante e degli animali, ai cicli della natura.

E le nostre menti? Ecco che non siamo più tanto sicuri. Prendere una foglia o un fiore e usarli per modificare la nostra esperienza della coscienza implica un sacramento di tipo del tutto diverso, in contrasto con la nostra idea più nobile di noi stessi, per non dire della società civilizzata. Ma sono incline a pensare che un simile atto rituale sia un’opportunità comunque degna, anche solo perché pone un freno alla nostra arroganza. Le piante che hanno il potere di modificare i nostri pensieri e la nostra percezione, di provocare stupore e creare metafore, sfidano la radicata credenza giudaico-cristiana che la nostra coscienza, che si considera separata dalla natura, abbia raggiunto una sorta di trascendenza.
Ma che cosa accade a questo nostro autoritratto lusinghiero si scopriamo che la trascendenza deve tutto alle molecole che fluiscono nel nostro cervello come nelle piante del nostro giardino? E che i frutti più eccellenti della cultura umana in realtà affondano le radici nella terra scura, insieme a piante e funghi? La materia è davvero inerte come siamo abituati a pensare? Significa che anche lo spirito fa parte della natura?

Non esiste al mondo idea più antica. Friedrich Nietzsche descrisse l’ebbrezza dionisiaca come la “natura che domina la mente”, che ci rapisce. I greci capirono che non era qualcosa da prendere alla leggera o da sperimentare troppo spesso. L’ebbrezza per loro era un rituale accuratamente circoscritto, non uno stile di vita, perché avevano compreso che Dioniso può renderci angeli o animali, dipende. Eppure lasciare che di tanto in tanto la natura ci rapisca è sempre una cosa molto utile, anche solo per riportare sulla terra, almeno una volta, il nostro sguardo astratto e sempre rivolto verso l’alto. Quale rinnovato incantesimo del mondo sarebbe guardarsi attorno e vedere che nel giardino le piante e gli alberi della conoscenza crescono ancora.



NOTE

14) Ci sono più arresti per marijuana che per qualsiasi altra droga: quasi 700 000 nel 1998, l’88 percento per possesso. I casi in cui è coinvolta la marijuana rispondono di moltissimi sequestri di beni su cui ora può contare la legge per l’incremento dei bilanci. La marijuana è l’obbiettivo primario delle campagne di prevenzione nelle scuole, delle analisi per verificare l’uso di droghe sui luoghi di lavoro e del battage informativo sulle droghe.
15) Quella che un giudice dissenziente della Corte suprema nel 1988 deplorò come una nuova in sostanza si fonda su casi che riguardavano la marijuana. Per esempio in “Illinois contro Gates “ (1983) la Corte suprema promulgò ampie eccezioni al diritto tutelato dal Quarto emendamento contro le perquisizioni immotivate, come pure contro il diritto tutelato dal Sesto emendamento al confronto con i propri accusatori. Il venerabile principio del “posse comitatus” che stabilisce che le forze armate degli Stati Uniti non possano essere impiegate sul territorio come forze di polizia, nel corso della guerra alla marijuana fu sospeso, in particolare dal presidente Reagan, che fece uso dell’esercito per scovare i coltivatori nella California settentrionale. Ne risentì anche il Primo emendamento: riviste dirette ai coltivatori di erba furono prese di mira, e una fu perquisita e chiusa (Sinsemilla Tips). Nel 1998 il governo federale minacciò di revocare la licenza ai medici californiani che esercitavano il diritto, tutelato dal Primo emendamento, di parlare ai pazienti dei benefici terapeutici della marijuana, lo stesso anno, il Congresso ordinò al District of Columbia di non contare i voti dei suoi cittadini in un referendum sull’uso terapeutico della marijuana. Si può dire che la guerra contro la cannabis abbia intaccato anche il diritto, tutelato dal Sesto emendamento, a un processo con giuria (dato che la durezza della pena minima prevista costringe molti imputati ad accettare il patteggiamento) e alla presunzione di innocenza (perché la confisca dei beni permette al governo di sequestrare mobili e immobili senza provare la colpevolezza).
16) Se escludiamo i circa venti milioni di americani che fanno uso di marijuana, rimane un “abuso di droghe epidemico” che coinvolge circa due milioni di consumatori abituali di eroina e cocaina: un problema di salute pubblica, certo, ma grave al punto da giustificare una spesa di 20 miliardi di dollari all’anno (e la modifica del Bill of Rights)?
17) La consuetudine di fumare non si diffuse in Europa fino a quando Colombo non l’apprese in America, ma gli sciti inventarono qualcosa di simile intorno al 700 a.C. Secondo Erodoto, infilavano la testa in piccole tende costruite per trattenere il fumo delle cime di cannabis poste su pietre roventi, “finchè non si mettevano a ballare e iniziavano a cantare”.
18) La sinsemilla di prima qualità si vende a oltre 18 dollari al grammo, facendo della cannabis il vegetale più costoso d’America.
19) La rivoluzione genetica della marijuana ricorda una precedente svolta epocale dell’orticoltura: l’introduzione della rosa cinese (R. chinensis) in Europa nel 1789, evento che, per la prima volta, rese possibile la creazione di rose che fiorissero più di una volta per stagione. Ciò portò allo sviluppo dell’ibrido rifiorente della resa tea. Sia per la rosa che per la marijuana, il desiderio si unì alla capacità di viaggiare degli esseri umani, permettendo la riunificazione di due linee evolutive della stessa pianta che si erano allontanate migliaia di anni prima (producendo rispettivamente la rosa che rifiorisce in agosto e la sinsemilla che cresce a nord). In entrambi i casi, l’introduzione di un patrimonio genetico trovato dall’altra parte del mondo creò possibilità impensate.
20) Prima della rivoluzione industriale, in Occidente fumare tabacco e bere caffè era considerato tabù. Secondo lo storico tedesco Wolfgang Schivelbusch, queste due droghe divennero socialmente accettabili perché contribuirono al “riorientamento dell’organismo umano verso la supremazia del lavoro mentale” richiesto dall’industrializzazione.
21) A giudicare dalle descrizioni degli effetti, i greci con ogni probabilità rafforzavano il vino con varie erbe psicoattive; c’è ragione di pensare che facessero anche un uso rituale della segale cornuta e dell’amanita muscaria.
22) Il critico letterario Sadie Plant suggerisce che in Coleridge anche l’idea di “sospensione dell’incredulità” sia riconducibile all’uso dell’oppio.
23) “esiste una leggenda al riguardo” scrisse Sagan. “Il consumatore ha un’illusione di comprensione grandiosa, che però non sopravvive all’esame del mattino seguente. Sono convinto che si tratti di un errore, e che le intuizioni devastanti raggiunte sotto l’effetto dell’erba siano reali; la difficoltà maggiore è tradurle in una forma accettabile per il nostro io del giorno dopo… Se la mattina trovo un messaggio del mio sé della sera prima che mi dice che c’è un mondo tutto intorno a me che riesco a malapena a percepire, o che possiamo diventare un tutt’uno con l’universo, o che certi politici sono uomini pieni di paure, potrei non credergli; ma quando sono fatto sono consapevole di questa incredulità. Così ho un nastro in cui mi esorto a prendere sul serio queste considerazioni. Dico: “Ascoltami bene, figliodiputtana della mattina! Queste sono cose vere!”. Il saggio di Sagan, firmato da “Mr X”, è contenuto in “Marijuana Reconsidered”, di Lestel Grinspoon. Dopo la morte di Sagan, nel 1996, Grinspoon rivelò l’identità di Mr X.
24) Mechoulam ritiene che prima o poi si troverà un neurotrasmettitore antagonista dei cannabinoidi, e che l’interazione di queste due sostanze determina ciò che viene archiviato nella memoria e ciò che viene scartato.
25) Huxley sosteneva che al giorno d’oggi non ci sono tanti mistici e visionari come nel Medioevo perché l’alimentazione è migliorata. Le carenze di vitamine compromettono le funzioni cerebrali e potrebbero spiegare il gran numero di esperienze visionarie del passato.
26) Di recente, poiché il valore terapeutico della marijuana è stato riscoperto, la medicina è in cerca di modi per “farmaceuticizzare” la pianta, imbrigliandone gli effetti benefici in un cerotto o in un inalatore che i dottori possano prescrivere, le multinazionali brevettare e i governi controllare. Una volta raggiunto lo scopo, i discendenti di Paracelso rinchiusi nei laboratori avranno sintetizzato gli ingredienti attivi delle droghe vegetali, permettendo alla medicina di fare a meno delle piante e di ogni reminiscenza del loro passato pagano.
27) David Lenson traccia un’utile distinzione tra droghe del desiderio (la cocaina, per esempio) e droghe del piacere, come la cannabis. “La cocaina promette di procurare il massimo piacere mai provato entro un minuto o poco più […] Ma il futuro non arriva.” Sotto questo aspetto, l’esperienza della cocaina è “una feroce parodia della coscienza del consumatore”. D’altro canto, con la cannabis o altre droghe psichedeliche “il piacere può scaturire dalla bellezza della natura, dalle mansioni domestiche, dagli amici e dai parenti, dalla conversazione e da un numero infinito di oggetti che non è necessario acquistare”.

Estratto dal libro La Botanica del Desiderio

Recensione di Daniele Bruzzi "Fuzzi"

1 commento:

  1. Complimenti più che una recensione sul libro "la botanica del desiderio" appare come un atlante sulla coltivazione di allucinogeni. Ma nel tempo l'assunzione sul uomo a prescindere dalla mescolanza o dalle dosi, è salutare o dannoso ? Mah

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