Lo strombazzato grande vantaggio accreditato dai sondaggi alla Clinton non è stato un abbaglio dei sondaggisti (come ancora oggi si tenta di far credere agli ingenui), ma di uno degli espedienti che la macchina miliardaria dei poteri fortissimi aveva messo in campo. Come? Facendo passare il messaggio che la Clinton fosse nettamente in testa, praticamente irraggiungibile, in modo da incanalare verso di lei i suffragi di un buon 15% dell’elettorato, di coloro – cioè – che non vogliono “sprecare” il loro voto e che lo riversano soltanto verso candidati considerati vincenti. Per l’altro, per il nemico da abbattere, c’erano i killer della carta stampata, già pronti a sparare ad alzo zero: non solo un perdente irrecuperabile, ma un folle, un sessista, un evasore fiscale, una barzelletta ambulante, uno che ha il sostegno soltanto di un gruppetto di razzisti dal grilletto facile. Il combinato disposto di queste due campagne miliardarie – quella dei sondaggi e quella di giornali e tv – avrebbe sbaragliato il nemico e fatto trionfare la candidata che doveva essere eletta.
Il resto – si sarebbe detto con linguaggio renziano – era tutto “grasso che cola”: il fiume di denaro proveniente da potenti e potentati del mondo intero, i meccanismi di voto non sempre limpidi (ne abbiamo parlato qualche settimana fa), l’apparato miliardario fatto di lussuosi comitati, di folle di attivisti e propagandisti profumatamente stipendiati; e poi la grancassa dei VIP e di tutti “quelli che contano”: dai pugilatori da palcoscenico alle volontarie del sesso orale, passando per gli intellettuali con la puzza sotto il naso e per i teorici strabici del “politicamente corretto” più scorretto che si possa immaginare.
Perché una mobilitazione così massiccia, elefantiaca, eccessiva anche per i parametri pacchiani della Repubblica a stelle e strisce? Perché – per la prima volta dopo decenni – la corsa non era fra due candidati fungibili, entrambi praticamente al servizio dei poteri forti; ma fra una candidata che rispondeva perfettamente alle vecchie logiche, ed un candidato che, almeno in parte, si contrapponeva frontalmente ai padroni dell’America (e del Mondo). E, poiché i potenti erano certamente in possesso di sondaggi più realistici di quelli destinati ai lettori del “New York Times”, ecco il perché di quell’atmosfera da tutto per tutto, da scontro finale, da guerra senza esclusione di colpi.
Si doveva assolutamente riaffermare il modello di “società aperta”, creata (artificialmente) sulle ceneri degli Stati nazionali, delle loro identità, delle loro frontiere, dei loro sacrosanti “muri”. Si doveva proseguire sulla strada del “governo mondiale” della finanza usuraia, con gli Stati sempre più poveri, sempre più indebitati, sempre più ricattabili, sempre più incapaci di adempiere ai loro doveri verso i cittadini amministrati. Si doveva perseverare sulla strada della provocazione continua contro la Russia di Putin (dall’Ucraina alla Siria), incuranti del pericolo incombente di una terza guerra mondiale. Era in gioco tutto questo, tutto l’ambaradan di una Unione Europea creata contro l’Europa, di una invasione (telecomandata) del nostro Continente, delle “primavere arabe” inventate da assai strani “filantropi”, di un ISIS armato e finanziato con i petrodollari, dei governicchi vezzeggiati dagli ambasciatori in ambasce, delle “riforme” scritte sotto dettatura delle banche d’affari e delle agenzie di rating.
Tutto questo, dall’8 novembre, è finito. Con buona pace dello sfigato di Washington, dei suoi invitati italiani ad una simbolica “ultima cena”, di Re Giorgio e di altri più autorevoli predicatori dell’abbattimento dei muri.
Certo Trump non è il massimo che ci potessimo augurare, ma semplicemente il meno peggio. E certo, se gli americani hanno fatto comunque un deciso passo in avanti, per noi europei la strada per la rinascita è ancora lunga. Ma, finalmente, al di là dell’Atlantico abbiamo un interlocutore che sembra affidabile, che non ci vuole colonizzare con un infame trattato di “libero scambio”, che non vuole trascinarci in guerra contro la Russia.
Per parte nostra – di noi europei – un primo passo si avrà certamente il 4 dicembre; quando, nello stesso giorno, in Italia manderemo a casa il commensale di Obama, e in Austria eleggeremo – anche lì – un Presidente della Repubblica populista. Nell’attesa del fatidico 2017, l’anno che probabilmente vedrà la crisi definitiva di questa Europa anti-europea, impostaci da quei medesimi poteri forti che avrebbero voluto la “Regina del Caos” assisa sul trono della Casa Bianca.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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