Sia le amministrative italiane che il referendum
inglese (per tacere delle presidenziali austriache, annullate per
palesi irregolarità) hanno dato – per quanto attiene al nostro
“fronte interno” – una duplice, precisa indicazione. Evidente
il suo primo aspetto, quello che riguarda il bulletto fiorentino: un
avviso di sfratto.Ma è altrettanto chiaro anche il secondo
segnale: un De
profundis
per la “unione dei moderati” vagheggiata da un Berlusconi rimasto
politicamente al 1994.
Quanto diversa sia la realtà italiana ed
europea del 2016 è chiaro a tutti. E non tanto per le dinamiche
nazionali (la “seconda repubblica” si è rivelata assai peggiore
della prima), quanto per il quadro generale, segnato in modo
irreversibile dalla degenerazione antipopolare delle istituzioni
dell’UE e da un’invasione migratoria che, nei piani di chi l’ha
progettata, dovrebbe condurre alla fine degli Stati nazionali ed al
completo imbastardimento (etnico e culturale) delle popolazioni
europee.
Dal
’94 ad oggi, però, è andata prendendo corpo una forte resistenza
popolare che – data la latitanza di una sinistra in larga parte
aggiogata al carro dei poteri forti – si è identificata nelle
posizioni politiche delle destre nazionali e popolari dei vari paesi
europei, quelle che i nostri telegiornali definiscono sprezzantemente
“estrema destra” o, nella migliore delle ipotesi, “populismi”.
In
Italia – essendo stata la destra nazionale liquidata da un
certo personaggio – si è dovuto ripartire da zero: mentre Giorgia
Meloni riportava sulla retta via i Fratelli d’Italia, Matteo
Salvini depadanizzava la vecchia Lega Nord, azzoppata dalla gestione
bossiana, e la rilanciava come punta di diamante del movimento
anti-immigrazionista. Uniti, i due movimenti fanno già oggi una
forza oscillante fra il 15 e il 20 per cento, embrione di un futuro
Fronte Nazionale italiano che sarebbe naturalmente l’elemento
dominante di un centro-destra dalle forti tinte anti-sistema.
Naturalmente,
una soluzione del genere non sta bene a certi ambienti (di Bruxelles
e di Washington) che “consigliano” il Cavaliere e che vedono il
populismo anti-UE ed anti-immigrazione come il fumo negli occhi.
Secondo questi ambienti, il contesto politico ideale di un qualunque
paese europeo dovrebbe essere il seguente: due grandi contenitori di
centro-destra e centro-sinistra assolutamente fungibili e parimenti
“moderati” (democristiani e socialdemocratici, conservatori e
laburisti, gollisti e pseudo-socialisti, etc), adatti per un’ordinata
alternanza o per governare insieme (modello Monti); una limitata
opposizione di cosiddetta estrema sinistra, del tutto snaturata e
convertita al bon
ton
antipopolare (modello Tsipras) o comunque disponibile a restare
nell’UE “per cambiarla dal di dentro” (modello Podemos); e una
destra nazionalista e populista tenuta fuori dal parlamento, magari
con un’oculata legge elettorale liberticida.
Per
questi ambienti, è vitale che il centro-destra italiano continui ad
essere quello che è stato fin’ora: depotenziato e berlusconizzato,
disposto a votare per la Presidenza della Repubblica uno come
Napolitano, ad appoggiare un governo “tecnico” guidato da uno
come Monti, e pronto anche al più ignobile tradimento per liquidare
chi ci era amico (Gheddafi) e per gettare la Libia nelle braccia
dell’ISIS. Questo è il modello di “destra” che vogliono i
poteri forti, esattamente come il modello di “sinistra”
prediletto è quello di uno Tsipras che salta il fosso e passa agli
ordini della Troika.
Le
grandi manovre per le amministrative italiane sono state un momento
di questa operazione, con la congiura per impedire a Giorgia Meloni
di giungere al ballottaggio e probabilmente di vincere nel confronto
finale con la Raggi (ne ho parlato su “Social” del 6 maggio
scorso).
Specularmente,
il Cavaliere-senza-cavallo ha costruito la candidatura milanese
“moderata” del burocrate Stefano Parisi, negazione vivente di una
destra radicale, militante, sovranista e populista. E non solo il
Disarcionato ha imposto quella candidatura agli alleati “storici”
(Lega e Fratelli d’Italia), ma ha anche raccolto l’adesione di
altri “moderati” estranei al centro-destra, compresi quelli di un
NCD che è al governo con Renzi. Il piano, sulla carta, era
assolutamente vincente: un candidato politicamente incolore,
sostenuto da un arco di forze vastissimo, con la destra-destra
all’angolo e costretta a bere l’amaro calice (la Lega era in
difficoltà per gli scandali che avevano coinvolto alcuni consiglieri
legati al vecchio ambiente pre-Salvaini), con una città
relativamente al riparo dalla crisi economica – la “Milano da
bere” – e con gli ambienti berlusconiani in grande spolvero. Ma
neanche con tutti gli aiuti di questo mondo il mesto Parisi ce l’ha
fatta, fermandosi al 48% nel ballottaggio con il gemello-rivale Sala.
Unica vittoria dei renziani nei ballottaggi più importanti, quasi
che gli elettori milanesi avessero preferito punire un centro-destra
arcaico piuttosto che i rappresentanti meneghini del Vispo Tereso.
Nonostante
ciò, certe vecchie mummie hanno avuto il coraggio di insistere su un
“modello Milano” per il centro-destra, asserendo che – si –
Parisi non aveva vinto, ma solamente per poco. I più sbadati
continuavano a ripetere lo slogan “uniti si vince”, dimenticando
il piccolo particolare che a Milano si era perso.
A
riprova della teoria che a vincere poteva essere soltanto un
centro-destra a trazione moderata, i campioni di arrampicata sugli
specchi commentavano con condiscendenza i risultati del ballottaggio
di Bologna, dove una candidata voluta da Lega e Fratelli d’Italia –
Lucia Borgonzoni – aveva portato il centro-destra “solo” al
45%.
Eppure
– non se n’è accorto nessuno – la prova provata del fallimento
definitivo dell’unione dei moderati sta proprio nel raffronto dei
risultati di Milano e Bologna: il 48% del moderato Sala nella
“capitale morale” del centro-destra, e il 45% dell’attivista
Borgonzoni nella città più rossa d’Italia. Aritmeticamente, c’è
una differenza del 3% in favore del candidato gradito al coacervo
berlusconiano-centrista della Milano azzurra. Nella sostanza, invece,
la candidata “lepenista” della Bologna rossa ha ottenuto un
risultato che – rapportato nelle debite proporzioni anche al resto
d’Italia – dimostra che è
vincente solo un centro-destra a trazione populista.
Il perché è evidente: la grande sacca degli elettori moderati
(senza virgolette) non è più disposta a seguire i politici
“moderati” (con le virgolette). Piaccia o non piaccia ai Verdini,
agli Alfano, ai Confalonieri, l’elettorato moderato non gradisce
essere sacrificato sull’altare dei “mercati” e del
politicamente corretto.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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