Manifesto "Pro Senatus Dignitate"
“… Non c’è infatti cosa in cui la virtù umana
non avvicini tanto alla potenza degli Dei
quanto il creare nuove costituzioni
o conservare le già create”
(Cicerone, De republica, I, VII)
E’ stato affermato, a ragione, che “Uno dei rivolgimenti più nefasti, dietro a cui sta spesso l’azione oculata delle forze della sovversione mondiale, è quel processo mentale onde in certi periodi di crisi si è portati ad estendere ad un principio (o ad una istituzione) l’attacco contro certi rappresentanti di esso, che circostanze speciali, abnormi, possono aver propiziato. Di ciò la storia degli ultimi secoli è purtroppo ricca di esempi: dovunque si palesa un’occasione per colpire coloro che incarnavano una data funzione, essa è stata subito trasformata in pretesto prezioso per far demagogicamente un processo contro quella funzione e istituzione in se stessa e per soppiantarla con un’altra, quasi sempre di livello più basso, confondendo dunque a ragion veduta il principio con le persone, le quali del primo rappresentano sempre solo una manifestazione contingente” (Evola, Trascendenza della monarchia, 1950).
Scritte più di sessant’anni fa, nel contesto di scenari storici e politici differenti, queste penetranti considerazioni evoliane mantengono inalterata la loro validità e sono, quindi, autorevole premessa al tema del presente Manifesto.
Come è noto a tutti, è ormai prossimo l’appuntamento con il Referendum confermativosulle riforme costituzionali, fortemente volute dall’attuale governo, e sul merito delle quali non è nostra intenzione pronunciarci. Ma, tra queste riforme, ce n’è una, che assume per noi un valore ed un significato, per così dire, “metapolitico”, e che ci ha offerto l’occasione per sviluppare le seguenti considerazioni. Si tratta degli interventi legislativi che dovrebbero trasformare radicalmente il Senato della Repubblica.
Da quanto ci è dato capire, nelle sue linee essenziali, l’intenzione del governo è quella di ridimensionare notevolmente la composizione ed il ruolo dell’attuale Senato, che subirebbe una drastica riduzione del numero dei suoi membri, da 315 a 100. Inoltre, questi senatori, non più eletti direttamente ma ripartiti tra le varie regioni sulla base del numero degli abitanti, sarebbero poi designati all’interno dei Consigli Regionali.
Dei 100 senatori almeno 21 dovranno essere scelti tra i Sindaci dei capoluoghi e 5 resterebbero di esclusivo appannaggio del Presidente della Repubblica. Ma, a differenza dei precedenti “senatori a vita”, il loro mandato sarebbe di soli 7 anni.
Gravissima, all’interno di questa riforma in atto, sarebbe l’abolizione del sistema meritocratico (tipico del mondo Romano) a favore di quello clientelare (tipico della partitocrazia moderna).
Ben più importante e, dal nostro punto di vista, ben più grave della sua riduzione numerica è il previsto ridimensionamento del suo ruolo. Con la nuova riforma, la Camera dei Deputati rimarrà l’unico organo legislativo dello Stato. I senatori potranno votare soltanto per riforme costituzionali, leggi elettorali degli enti locali e ratifiche dei trattati internazionali. Il Senato non potrà più votare la fiducia al governo, mentre continuerà ad intervenire per l’elezione del Capo dello Stato. Tralasciamo di soffermarci su altri aspetti di questa riforma, poiché non è su questo che vogliamo ragionare.
Tali modifiche, in teoria, dovrebbero tradursi, secondo i fautori della riforma, in un consistente risparmio economico e, soprattutto, in una più rapida approvazione delle leggi, superando così il cosiddetto “bicameralismo perfetto”. In realtà, noi pensiamo che l’obiettivo vero, anche se per adesso rinviato, sia quello di giungere alla soppressione definitiva del Senato.
Se ci siamo attardati sugli aspetti principali di questa riforma, non è perché ci stiano a cuore le sorti dei 215 senatori cui verrà a mancare il “posto di lavoro”, né ci appassionano le ragioni demagogiche sul “risparmio” che tale riduzione dei senatori apporterebbe alle peraltro faraoniche spese dello Stato. Anzi, diciamolo ancor più nettamente: nei confronti di questo Senato, ormai soltanto grottesca parodia di quella che fu una delle più antiche e venerabili istituzioni di Roma Antica, nutriamo soltanto motivate riserve. Contrariamente alle tante critiche mosse nei confronti di questa riforma, che provengono dagli ambienti politici, giuridici e culturali più vari, il cui vero fine non è la difesa del Senato e della suaDignità, ma, semmai, una sua conservazione priva di superiori contenuti, la nostra presa di posizione ed il nostro fermo dissenso, discendono da punti di vista radicalmente differenti.
Per far comprendere compiutamente e senza equivoci il nostro particolare punto di vista, si rende necessario riassumere sinteticamente quali furono le origini ed il ruolo dell’antico Senato di Roma e, successivamente, quale significato attuale dovrebbe essere attribuito a tale istituzione. Innanzitutto è opportuno ricordare che, per discutere e trattare di ciò che concerne la civiltà romana e le sue istituzioni, occorre porsi da una prospettiva tradizionale e spirituale, perché le istituzioni antiche, e non solo quelle romane, erano inseparabilmente connesse con la sfera del Sacro.
Ciò vuol dire che queste istituzioni traevano il loro “potere” e la loro legittimità dal rapporto diretto, concreto, che le legava alla dimensione divina. Questo legame formativo originario, nel caso della tradizione romana, viene esemplarmente rievocato in quel celebre passo dell’Eneide virgiliana, dove è Giove stesso, il Dio Supremo, a fissare i destini di Roma, la sua Aeternitas: ”Romolo accoglierà la gente e fonderà marziali mura, e dal suo proprio nome li chiamerà Romani. Ad essi non pongo limiti né durata di potenza; ho assegnato dominio infinito” (“…Hic ego nec metas rerum nec tempora pono, imperium sine fine dedi”, Virgilio, Eneide, I, 276 – 279).
“Imperium sine fine…”, ecco il termine distintivo, giuridico-sacrale, con il quale a Roma veniva designato il potere sovrano. L’imperium, viene definito come “il potere carismatico del rex agente tra gli uomini, potere che non viene conferito da mano umana, né da umane istituzioni, in quanto l’origine dell’imperium risiede nell’auctoritas che discende direttamente da Giove, confermata dagli auspicia d’investitura e riconosciuta dalsuffragium del popolo in armi” (M. Polia, Imperium, p. 11).
Secondo la più rigorosa formulazione tradizionale, il supremo potere di comando, l’imperium, appunto, in quanto khàrisma, ovvero “dono sovrannaturale”, proviene soltanto dalla volontà di Giove Ottimo Massimo. L’imperium si rivela spontaneamente in chi è re, e viene suggellato dall’alto mediante i segni celesti (gli auspicia). Per queste sue speciali caratteristiche l’imperium regale non è trasmissibile da una persona all’altra e la monarchia romana, da Romolo in poi, non fu ereditaria. Il rex designa soltanto il successore, rimettendo la conferma del suo riconoscimento al responso degli auspicia.
La nostra tradizione attribuisce a Romolo, l’ultimo re di ascendenza divina, l’istituzione di un Senato di 100 membri, anche se il più antico numero accertato è di 300, connesso quest’ultimo, evidentemente, con le tre tribù primitive (Ramnes, Luceres e Titienses) e con le rispettive 30 curie. Il re era assistito da un Senato, che rappresentava un Consiglio di anziani (chiamati patres), esponenti dei gruppi gentilizi principali (gentes).
A proposito del termine “patres”, da cui deriva il latino “patricius”, il patrizio, occorre ricordare che esso discende dalla radice indoeuropea pà-, che allude all’idea diproteggere (sscr. pàti) ed è anche quella di nutrire (cfr. il greco patèomai = mi nutro). E ancora, sempre la stessa radice, si ritrova nei termini sancriti patis=signore e pa-yu=custode.
Il pater è dunque, letteralmente, colui che custodisce, che protegge, che nutre, non solo in senso fisico ma anche in senso spirituale. Presso i Latini fu anche il titolo per indicare gli anziani, i senex, ed anche i Senatori (Patres conscripti). Ma con il titolo di “pater” si designa innanzitutto il Padre degli Dei e degli uomini, Giove (Iovis – Pater).
In origine il Senato dei Patres svolgeva fondamentalmente la funzione di consiglio del re e, durante la Repubblica, continuò ad assistere i due Consoli che ne ereditarono il compito. Il Senato si pronunciava nelle questioni di politica interna ed estera, in quelle finanziarie ed in quelle di carattere religioso. Tra i membri del Senato vi erano, infatti, anche i rappresentanti dei più eminenti Collegi Sacerdotali. Questo perché l’uomo romano acquisiva, con l’assunzione della cittadinanza, diritti e doveri sia civili che religiosi. Ciò implicava che ogni cittadino era sacerdote di se stesso e, nel momento in cui divenivapater familias assumeva non solo i doveri di tutela civile e morale di moglie e figli ma anche quelli spirituali divenendo sacerdote della famiglia stessa, con la funzione di preservare in casa il culto del Fuoco Sacro, di Lari e Penati, distribuendo ad ogni familiare i diversi compiti rituali (custodia del fuoco alla moglie, assistenza di rito ai figli ed altro ancora). I padri che decidevano di affrontare il cursus honorum, ovvero l’impegno politico al servizio della patria, dovevano gradualmente assumere sia cariche amministrative civili, sia militari, sia religiose, come ad esempio l’assunzione di specifici sacerdozi. E’ chiaro che chi non avesse le prerogative per assumere un determinato sacerdozio vedeva bloccato e terminato il proprio cursus. Conseguentemente a ciò i senatori romani incarnavano valori formanti uomini di profonda dignità fondata sulla forza interiore, la vis, che faceva d’ognuno di loro un vir incorruttibile sviluppante virtutes che lo contraddistinguevano dall’homo comune; quest’ultimo invece fondato sull’humus delle passioni.
Nel periodo imperiale, nonostante momenti di tensione e di crisi, mai venne meno il prestigio del Senato, i cui decreti, i Senatus consulta, vennero sempre riconosciuti come vere e proprie leggi dello Stato. Dopo l’affermazione del Cristianesimo, Costantino contrappose al Senato di Roma un altro Senato insediato a Costantinopoli che, dal 359 d.C., venne equiparato di fatto al primo. Ciò contribuirà non poco ad accelerare il declino del Senato romano, declino che non potè essere arrestato nemmeno dall’eroica, tenace resistenza degli ultimi autorevoli senatori “pagani”. Il Senato di Roma continua a funzionare anche dopo il crollo dell’impero d’occidente, fungendo da intermediario tra i nuovi sovrani barbarici (quali Odoacre e Teodorico) ed il patriziato romano. Mano a mano esso conclude la sua esistenza con l’affermazione definitiva dei poteri assoluti che caratterizzeranno il medioevo e viene menzionato per l’ultima volta nel 603 d. C. Questa, in estrema sintesi, l’origine, la funzione e la vicenda storica del Senato romano.
Ovviamente, la rievocazione dei caratteri sacrali che un tempo sostanziavano il Senato di Roma potrebbe sollevare comprensibili perplessità e facili ironie. Ed è proprio lo scontro con tali reazioni diffuse che ci fornisce la misura di quanto sia divenuto difficile, per la gran parte dei nostri contemporanei, concepire una società ed un mondo nel quale imperavano altri principi ed altri valori rispetto a quelli oggi dominanti. Principi e valori che a Roma si riassumevano nelle norme antichissime del Mos Maiorum. Tradotto solitamente e riduttivamente come “costume degli antenati”, in realtà il termine mos, che non possiamo approfondire in questa sede, è molto più ricco semanticamente, ed ha valore, ad un tempo, sacrale e pragmatico, in quando rimanda al concetto stesso di Tradizione. E se, come è facile arguire, “antenati” è quasi sinonimo di “padri”, ne consegue che una delle funzioni principali del Senato, fosse proprio quella di custodire e trasmettere (tradere) questa tradizione.
Ecco in cosa consiste quella che, per noi, potrebbe essere definita la “metafisica del Senato”, indipendentemente da ogni contingenza storica e dalla decadenza attuale. Non sembri vana retorica o patetica nostalgia per istituzioni e simboli obliati dai secoli. Per quanti, come noi, comprendono bene e sino in fondo il vero significato e la natura “più che umana ed interna” dei simboli tradizionali, la difesa della dignità del Senato non può esaurirsi in dotte diatribe giuridico- costituzionali o, peggio, in miserabili questioni di “risparmio”.
Siamo perfettamente consapevoli che il Senato attuale e la maggior parte dei suoi membri siano ben lontani da quel modello esemplare prima ricordato. E’ necessario richiamare le parole con le quali Tito Livio (V, 41) descriveva quell’antico e nobile consesso: “Quasi uguali ad altrettante divinità … non solo per l’abbigliamento e per l’aspetto, superiore per imponenza a quello umano, ma anche per la loro maestà”.
Nei riguardi di chi, oggi, potrebbero essere indirizzate simili espressioni?
Ciononostante, il Senato deve essere custodito, non come morta reliquia del passato, bensì perché la sua dignitas coincide con quella stessa del nostro popolo ed anche perché la difesa della sua simbolica presenza, sfidando il trascorrere del tempo (perpetua firmitas), è uno dei modi possibili per testimoniare dell’esistenza di una tradizione che, come vena sotterranea, risulta essere sempre viva, sempre pronta a riemergere, avendo ancora oggi i suoi tenaci, fedeli cultores.
Per tutte le ragioni sin qui addotte, i promotori ed i firmatari di questo Manifesto, pur nella diversità dei singoli profili e percorsi culturali, invitano quanti hanno a cuore la tutela della dignità del Senato a pronunciare un NO deciso al quesito referendario.
Estensore e primo firmatario, Roberto Incardona
con apporti del presidente di Pietas, Giuseppe Barbera
e della Redazione di EreticaMente, nella persona di Luca Valentini
e con l'adesione del Comitato per la Spiritualità Laica, nella persona di Paolo D'Arpini
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