giovedì 24 giugno 2010

All’osteria del chiaro di luna… in una data ipotetica, ad esempio il 26 giugno 2010

Ante scriptum

Mi sembra carino abbinare il racconto che segue alla festa di luna piena del 26 giugno 2010, che si tiene a Calcata:

26 giugno 2010: Luna Piena in Cancro, Festeggiamenti per il Solstizio d’Estate. Introduzione al tema del linguaggio:
Semantica e filosofia – Religione e spontaneità – Razionalismo e poesia.
Programma, in collaborazione con European Consumers Tuscia:
h. 16.30 – Tavola Rotonda nel Centro Visite del Parco del Treja su: “Antropizzazione e trasformazione del linguaggio nei secoli”.
h. 19.00 – Rinfresco con i prodotti locali da ognuno portati.
(Paolo D’Arpini)

…………..

Ed ora il racconto fantasmagorico di Simone Sutra:

Le tremule luci di lontane imbarcazioni scivolavano via sul mare buio, liquido universo popolato di creature, immagini, sensazioni, emozioni, volti e braccia, bocche e sguardi, solitari addii e amplessi furtivi. Dentro quel mare c’era tutto un mondo di paure e di speranze, pensò lui. Le scie di navi distanti nel tempo avevano tutte lasciato qualcosa dietro di sè, e l’acqua aveva assorbito, accettato tutto senza discutere, tutte le gioie, i timori, le ire; e poi anche i bagordi, le sbornie, le baruffe, le riconciliazioni; i pensieri spavaldi e i sospiri d’amore, i tormentosi silenzi, le parole ardite. E adesso, di notte, sapendo di non essere spiata, faceva affiorare alla superficie quel tesoro di tracce mai perdute che nessuno poteva raccogliere.
Nessuno tranne lui, si disse con un sospiro: non sapeva nemmeno se di rassegnazione, di tristezza oppure solo di velata nostalgia di momenti che non aveva mai vissuto, di emozioni che non aveva provato, ma che gli sembrava di passare in rassegna come se tutto quanto quel bagaglio di mondi e persone ormai andate gli appartenesse in qualche modo. E gli si rimescolava tutto nell’animo, e gli pareva quasi di vederle, quelle scene, quelle persone: ognuna con il suo fardello, leggero o pesante. O meglio gli sembrava di essere loro, ciascuno di loro, e di sentire ciò che sentivano o avevano sentito loro.

Era strano, però: sia la gioia che il dolore si acquietavano insieme, e il bello e il brutto si fondevano in uno, e non c’era modo di distinguerli; perchè il profumo del salmastro, stuzzicando le narici e stimolando i sensi, provocava in maniera aperta la mente ma in fondo lasciava solo depositare sull’anima una pace immensa, senza confini, come se tutti quegli interpreti di storie allegre o tristi vissute secoli o millenni -o forse solo poche ore prima- si fossero messi d’accordo per ingannare il mare che aveva accolto le loro confidenze e talvolta i loro corpi, facendogli credere che, comunque fosse, tristezza e felicità erano rapidi battiti di ciglia su di un unico lungo sguardo ammiccante all’universo. Rimaneva solo una strana musica sussurrante, dolce e un po’ malinconica eppure vagamente sorridente, che scivolava via senza rimpianti spandendosi fluida sull’acqua. Questa, complice gentile e discreta confidente, dal canto suo ne amplificava le note consegnandole, con un mormorìo e una carezza, alle sponde più lontane fra loro: le avrebbero poi raccolte i bimbi con gli occhi stellati, gli innamorati dallo sguardo sognante, i vecchi dolcemente piegati dalla saggezza di vivere, gli artisti spiritati e i folli di turno, quelli che non mancano mai perchè di loro sono piene le pagine dei libri.
Riconciliato con se stesso dopo queste riflessioni Otello si incamminò sotto la luna piena lungo la spiaggia deserta. La graziosa baia si curvava come a voler accogliere e serbare tutti i suoi pensieri gravidi di briciole di luce e di bagliori di vita. Il mondo si distanziava da lui mentre lui vi entrava dentro, facendo ingresso nella sua “osteria con cucina e bar – aperto fino a notte fonda” come un viandante da un paese lontano approdato per caso sulla luna, con stupore più di chi ne testimonia l’arrivo che suo.
Lui in effetti si era abituato a questo suo andirivieni fra la sua dimensione interiore e quella certamente più confusionaria del quotidiano, a volte persino un po’ becero, rappresentato dalla sua clientela, mentre chi lo conosceva non si capacitava di come sembrava esserci sempre qualche aspetto di lui che sfuggiva ad ogni attento tentativo di catalogazione; e chi invece non lo conosceva, vedendolo entrare, percepiva qualcosa di insolito nella sua presenza, senza poter dire cosa.
Come ogni sera l’atmosfera del locale lo investì con una certa rudezza, però stasera...c’era qualcosa di diverso. Lo captava nell’aria, anche perché come conosceva lui il suo locale non lo conosceva nessuno: gli angoli più riposti rivelavano sempre volentieri ogni segreto al buon Otello, e riusciva a capire con uno sguardo se un cliente cercava rogna o avrebbe depositato un po’ della sua grazia fra i tavoli.

Ma stasera... sì, stasera c’era qualcosa che gli sfuggiva. Era una sensazione...morbida, in linea con il chiaro di luna del cielo là fuori; come se un po’ di quella tenera luminescenza si fosse inoltrata dentro il locale, per rivestire con una patina di dolcezza ogni cosa. Fece prima una capatina in cucina, per accertarsi che il cuoco armeno, Elohè, avesse la situazione sotto controllo: si diresse poi al bar e fu allora che lo vide.
Lui, una pertica di uomo, tutto vestito di verde come un ramarro, se ne stava appoggiato al bancone, conversando amabilmente con Nathalie, la sua fidanzata che era poi anche la barista.
Ciò lo stupì oltremodo, sapendo quanto fosse riservata e poco loquace la sua ragazza, che non dava certo per abitudine spago agli sconosciuti. Però, proprio perché la conosceva, comprese che quello straniero non doveva essere chicchessia.
Nathalie gli fece un grande sorriso quando lo vide:
“Oh, Otello, vieni! Ti presento il signor *****!”
L’orchestrina di fiati aveva attaccato con la musica proprio in quel momento, impedendogli di captare il nome dell’individuo. E mentre la cantante, Millie, intonava “Moonshadow” gli rimase solo lo spettacolo degli occhi di quell’uomo, che si era girato verso di lui: apparivano immensi come quel mare che aveva contemplato fino a pochi minuti prima, si intuiva in essi lo sprofondarsi di abissi senza fine e senza memoria. Ma fu questione di un attimo: dopodichè lo sconosciuto ritornò ad essere, semplicemente, una persona dall’aria affabile e dal sorriso aperto.
“Gran bel locale, mastro Otello! Le faccio i miei complimenti!” Disse lui.
“Grazie...si fa quel che si può...”
“E lei può molto, ne sono certo”
Otello rimase a bocca aperta: ma chi era quello, che voleva dire, cosa voleva da lui? E in quell’attimo gli parve di percepire di fianco a sè, come succede quando nel campo visivo appare qualcosa di sfuggita che inquadriamo per un istante con la coda dell’occhio, l’immagine dello sconosciuto che di fatto gli stava davanti: era lui che danzava ridendo, con in testa un cappello a cilindro sfondato e indosso una lunga palandrana stracciata; e roteava su se stesso, circondato dallo splendore dorato di uno sterminato campo di grano, assorto nella gioiosa celebrazione di un qualche rito misterioso immerso ai limiti della realtà, come lui stesso appariva ad Otello in quello scenario carpito dai bordi della coscienza.
“Però...vedo che lei è stanco, mastro Otello”
“Stanco....io?” L’immediata perplessità che andò a cozzare contro la mente nel considerare il pensiero lo colse di sorpresa. E fu costretto a dirsi: è vero, sono stanco di tutto questo. Una volta mi divertiva gestire questo locale, mi soddisfaceva...ora non più.
“Bè, non si può rimanere ancorati in eterno a qualcosa, dico bene?” le parole dell’uomo furono una risposta ai dubbi inespressi di Otello.
Era come se tutto ciò che dentro di lui era rimasto in sospeso, nel limbo dell’indefinito, dell’inconfessato persino a se stesso, con ogni parola dello straniero avesse assunto una connotazione ben precisa, bianco su nero, e a Otello pareva di star precipitando lungo la linea che divideva i due colori; si sentiva come se essi fossero due forze prepotenti che lo stringevano in mezzo, e che non lo avrebbero lasciato continuare a navigare di conserva, con le vele mezze ammainate, senza pretendere da lui una presa di posizione, una decisione. Comprese in un attimo che l’accelerazione imposta al suo stato d’animo aveva qualcosa a che fare con la venuta dello strano individuo vestito di verde; ma, cosa più importante, si rese conto di aver aspettato questo momento da tanto, senza mai avere il coraggio di affrontarlo prima.
Millie aveva lasciato il posto, sul palco, al pianista di Otello, Larry Vey. Le sue abili dita accarezzarono la tastiera ricavandone una dolcissima interpretazione della Sonata al Chiar di Luna di Beethoven. Il locale ammutolì come per incanto, e tutti si girarono verso il palco. Ognuno sentiva in quella melodia il richiamo straniero di una voce ignota e ben conosciuta al tempo stesso, che sconvolgeva i blandi ritmi della mente mettendo a soqquadro l’ordinato scenario interiore, rovesciando le certezze posticce, strappando da sotto i piedi i tappeti dell’inerzia. L’emozione che aleggiava nell’aria era palpabile, e si leggeva facilmente nei visi contratti delle persone, negli occhi lucidi, nelle bocche semiaperte.
E la musica, entrando nei cuori, riempiva le pareti dell’Osteria, finché quelle non ce la fecero più a contenerla; e si diffuse tutt’intorno, si espanse per tutta la baia, e c’è persino chi giura di aver percepito il suono tuffarsi in mare, perché a un certo punto tutto tacque, e solo il buio avvolse la notte.

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“ Serata memorabile, quella, al “Chiaro di Luna”! Io me la ricordo bene.... ah, se me la ricordo! Ero seduto nelle prime file, e seguivo stregato i movimenti delle dita del pianista, che sembrava stesse schiudendo le porte del paradiso: dovevi vederlo, dovevi sentirlo, Rico! Quel Larry ci faceva l’amore con il suo piano!”
Rico ebbe un moto di impazienza.
“Sì, nonno, ma che successe poi? Tutta quella gente, che cosa hanno fatto dopo? E tu?”
“Vedi, figliuolo, quello fu l’inizio di una straordinaria serie di eventi che ebbe come epicentro l’Osteria di Otello. Tanto per cominciare lui scomparve il giorno dopo insieme a Nathalie, e nessuno li vide mai più. Ogni tanto arrivava una sua cartolina da qualche parte del pianeta, indirizzata ad Elohè, il cuoco, che oramai si era arrangiato a gestire il locale, non sapeva nemmeno lui come: ma le cose funzionavano, e anche più di prima. La gente veniva per ascoltare Larry, più che per mangiare e bere: sembrava che lui, che diventava sempre più magro e più pallido ogni giorno, mettesse in funzione quando suonava una specie di sfera di cristallo, e tutti ci potevano leggere dentro.”
“E che ci leggevano?” Chiese il ragazzo, con un tono a metà fra l’impertinente e l’incredulo.
“Buon Dio, che domande! Ci leggevano di sè, del senso della propria esistenza...e ci vedevano più chiaramente, riscoprivano la propria bellezza interiore… capivano meglio se stessi e gli altri...insomma cose da far venire i brividi!”
“E poi?”
“Insomma, tutto questo ben di Dio finì quando Larry, schiantato da quella responsabilità, non rese l’anima. O forse era solo il suo momento di andare, chi lo può dire? In ogni caso, dare aveva dato, eccome! E comunque sembrava che suonare gli risucchiasse tutte le energie, finchè non ne ebbe più”
“E l’uomo verde?”
“E chi lo sa? Dopo quella sera neanche lui fu più visto da queste parti”
“Ma chi era, in definitiva?”
“Nessuno lo sa. Certo è però che dal momento della sua apparizione ne sono successe di cose...e tutte buone. Io per esempio qualche sera più tardi, ballando nell’Osteria alle note di Moon river, cantata magistralmente da Millie mentre Larry l’accompagnava al piano, mi sono innamorato di tua nonna buonanima, che ha riempito di gioia la mia vita...e ti potrei raccontare di molti altri: chi guariva da misteriose malattie nervose, chi riconquistava la gioia di vivere dopo anni di sepoltura non ufficiale, chi incontrava il grande amore, chi veniva indirizzato verso luminosi stati di creatività...tutti toccati, in un modo o nell’altro, dalla magia di quel piano...o di quel locale, non so. La cosa strana è che prima di quella sera Larry Vey era un pianista sconosciuto, poco più che mediocre...sì, suonava discretamente, ma niente di che. E poi, d’un tratto...dimmi tu se questa non è magia!”
Rico, meditabondo, se ne andò a passeggiare sulla spiaggia. Non era la prima volta che ascoltava questa storia del nonno, ma ogni volta era come se si aggiungesse un piccolo tassello che rendeva il quadro più completo, e lo faceva quasi rivivere un evento accaduto ancor prima della sua nascita. In fondo credeva alla magia...o meglio gli sarebbe piaciuto crederci. Ma non era certo che esistesse davvero, o che potesse essere parte della sua vita.
Senza rendersene conto era arrivato proprio davanti all’Osteria del Chiaro di Luna. O meglio, ciò che rimaneva di essa: pochi brandelli delle mura perimetrali, diroccate e annerite, dopo il furioso incendio che l’aveva devastata lo stesso giorno che Larry era morto. Allora anche Elohè era tornato in Armenia, aveva detto il nonno, piangendo e ridendo al tempo stesso mentre prendeva il treno.
“Pensa, si dice che proprio quel giorno arrivò anche l’ultima cartolina di Otello, che aveva scritto: “tutto a posto”, accompagnando le parole con lo schizzo di una faccia sorridente.” Gli aveva detto, a conclusione del racconto di una delle tante versioni della storia.
“Eh, sì, così è la vita...c’è chi va e c’è chi viene” Una voce, musicale come un sublime sequela di note. “Esistono spazi che si possono esplorare solo girando un angolo dentro...e ci sono momenti in cui il cielo sorride svincolando cicli d’amore, quando nella mappa della vita incontri solo angoli magici”.
Non sapeva se se l’era immaginata o se l’aveva sentita veramente: quel che sapeva era che un nuovo mondo gli si era spalancato davanti, anche se tutto intorno a lui era lo stesso. Sembrava che un refolo di brezza gli portasse dinanzi agli occhi della mente visi sorridenti, volti su cui molti secoli erano passati, chiome incanutite dall’età, ma spiriti eternamente vivi; e lo sguardo di ognuno di loro cedeva la dolcezza di ricchezze sconosciute alitandole nell’animo di Rico.
“Gelato, giovane?” La voce di un uomo alla guida di un Apecar coloratissimo che si era fermato proprio davanti a lui accompagnato dal suono allegro di una campanella lo sottrasse all’incantesimo in cui si era perso per quel lungo attimo. L’individuo, altissimo, lo fissava sorridendo, e nei suoi occhi si indovinavano abissi inesplorati, profondità oceaniche, luci che celebravano il riaprirsi di danze festose nei saloni del tempo, in un mondo che sempre è pur senza trovarsi da nessuna parte.

Simone Sutra – itdavol@tin.it

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