Aldo Capitini, nonviolento e vegetariano
La giornata internazionale della nonviolenza, proclamata con risoluzione del 15 giugno 2007 dall’Assemblea generale dell’Onu per il 2 ottobre, è un evento che non può essere sottaciuto e ci induce a diverse considerazioni. La scelta del 2 ottobre non è affatto casuale. Il 2 ottobre 1869 nasceva, infatti, a Porbandar, nella regione indiana del Gujarat, Mohandas Karamchand Gandhi, cui il poeta Rabindranath Tagore conferì il celeberrimo appellativo di Mahatma, “grande anima”.
A Gandhi, come si sa, spetta la prima, articolata, elaborazione teorico-pratica della nonviolenza, la trasformazione di quest’ultima da mera concezione filosofico-religiosa in metodo d’azione politica poggiante sull’assunzione individuale di responsabilità. Nel corso degli anni si è a bella posta e in modo equivoco confuso nonviolenza con pacifismo ma, anche alla luce della storia, i due termini non solo implicano profonde divergenze ma sono addirittura antitetici.
Se all’ambigua e scorretta definizione di nonviolenza come “resistenza passiva” si sostituisce quella, di matrice gandhiana, di “affermazione di verità” (satyagraha = “forza della verità”), si comprende subito come non sussista alcuna coincidenza con il pacifismo, dedito, con arrendevolezza, al mantenimento dello status quo. Emblematici sono, in questo senso, i “partigiani della pace”, costituitisi nell’immediato dopoguerra sotto l’occhio vigile e compiaciuto della Russia comunista.
Tutt’altro che passiva, la nonviolenza implica, al contrario, una visione propositiva, costruttiva. Gioca d’attacco, non di rimessa, prefigurando nel suo esplicarsi lo scenario desiderato. Non si tratta di essere “contro” ma “per” qualcosa. Da qui il significato di scriverla come una parola sola, senza distinzione tra “non” e “violenza”. Se, come ha rimarcato Capitini, si separa l’avverbio dal termine, viene spontaneo chiedersi cosa resti e/o cosa si profili una volta tolta la violenza.
Se, invece, si scrive “nonviolenza” si annuncia qualcosa di organico, di positivo.
D’altronde, l’insistenza di Gandhi, e successivamente di Capitini, sul fatto che il fine sia già anticipato e contenuto nel e dal mezzo adoperato per il suo conseguimento lo attesta palesemente. Al di là dell’immagine veicolata e accreditata nel tempo, Gandhi non fu un asceta disancorato dal mondo, ma un attivista che sperimentò continuamente su se stesso il cambiamento prima di estenderlo e proiettarlo al sociale. Nulla a che spartire, come si evince, con l’acquiescente irenismo. Non a caso, tra i vari testi che maggiormente contribuirono alla formazione di Gandhi (diversi dei quali di autori occidentali come Thoreau, Salt, Ruskin), un posto particolare veniva dato alla Bhagavad Gita, la parte centrale del poema epico Mahabharata in cui Krishna esorta sul cocchio Arjuna a non lasciarsi sopraffare dallo sconforto ma a combattere, partecipando alla battaglia di Kurukshetra.
Non è difficile intuire a quale combattimento, di ben altro livello e di non minore gravità, si alluda. Da questa tensione scaturisce quell’allargamento di orizzonte chiamato da Capitini “compresenza dei morti e dei viventi”, dimensione in cui tutti, ognuno con la propria singolarità, cooperano alla creazione di una società aperta, composita, multiforme, in cui ci sia davvero spazio per ogni individualità, anche per i trapassati, senza distinzione di natura e di specie.
Da qui si arriva direttamente ad un’altra questione nient’affatto marginale. Se si è, infatti, nonviolenti non si può restare legati ad una prospettiva antropocentrica.
L’oltrepassamento dell’umanesimo è implicito nel mutamento instaurato dalla nonviolenza. Ciò significa che, seguendo il percorso intrapreso da Gandhi e arricchito da Capitini, la nonviolenza segna l’avvento di una consapevolezza ecosofica in cui ogni manifestazione vivente occupa un tassello imprescindibile. Di conseguenza, si sancisce la fine dello specismo e di quanto ne deriva (allevamenti intensivi, mattatoi, vivisezione e sperimentazione sugli animali non umani, asservimento e sfruttamento di altre specie, detto in altri termini olocausto animale).
Uno dei maggiori limiti del movimento nonviolento, così come si è andato delineando specialmente in Italia, sta proprio nel disconoscimento di questo aspetto che Capitini, cui spesso si ricorre per citarlo in modo avventato e poco consono al carattere profetico del suo pensiero, aveva, invece, con netto anticipo, previsto divenendo, già negli anni Trenta, vegetariano.
Si dirà che le scelte alimentari non incidano sul versante sociale. Nulla di più falso e ipocrita. La storia insegna che ogni rivoluzione imposta dal sociale e confinata al sociale sia destinata allo scacco, finendo per riproporre schemi obsoleti e sfociando nel totalitarismo. Non si attuano considerevoli cambiamenti nella società senza rivoluzioni di coscienze.
Cos’altro ha voluto affermare Danilo Dolci se non questo, quando, specialmente nell’ultima fase della sua vita, si è soffermato sulla necessità di passare dall’univocità del trasmettere alla pluralità creativa e creatrice del comunicare?
Comunicare presuppone la dimensione empatica della nonviolenza declinata in chiave antispecista. L’io si spegne per accendersi, con un moto di estesa compassione, nel tu, un tu, si badi bene, il cui volto e la cui voce racchiudono una molteplicità di volti e di voci.
La violenza del solipsismo specista è scalzata, allora, dall’abbraccio nietzscheano al cavallo, dal (ri)connettersi all’animalità. Al di là delle gabbie erette dal dispotismo dell’uomo, al di là della rovina dei mattatoi, si apre lo spazio della non sottomissione all’acquisito, della costruzione del nuovo, dell’affermazione di un afflato liberatorio.
Francesco Pullia
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