STUDI ACCADEMICI ED EVIDENZE EMPIRICHE DIMOSTRANO CHE NON C’È CORRELAZIONE POSITIVA TRA FLESSIBILIZZAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO E CRESCITA OCCUPAZIONALE
Già Berlusconi fece votare in Parlamento che Ruby era la nipote di Mubarak, ora Renzi ci riprova con la frottola che il lavoro precario crea occupazione.
Quello che i fautori della riforma si aspettano, in realtà, è una deflazione salariale, ritenendo erroneamente che con essa si possa migliorare la competitività di prezzo dei prodotti italiani e controllare gli sbilanci delle partite correnti tra Stati.Anche se il riequilibrio in termini di competitività andrebbe stabilito a spese di chi ha beneficiato maggiormente in questi anni degli squilibri dei flussi commerciali, ovvero Germania e Olanda che registrano un surplus, rispettivamente del 7.5% e del 10.5% del PIL, ben al di sopra del “tetto massimo” del 6% del Pil stabilito dalla commissione europea. E per quanto riguarda la competitività invece, infiniti studi hanno ormai dimostrano che la riduzione della produttività del lavoro in Italia è da ricercarsi da un lato nella bassa accumulazione di capitale (innovazione), e dall’altro, soprattutto, nella bassa crescita della domanda e quindi della produzione, il cui andamento è legato alla produttività. Tradotto in parole povere, in Italia il problema della produttività non è legato al costo del lavoro, ma da una parte a scarsa innovazione tecnologica ed organizzativa, scarsa istruzione e formazione, e dall’altra all’insufficiente sostegno alla domanda. Per questo, anche ammesso per assurdo che il Jobs act generi occupazione, accadrebbe che la produttività continuerebbe a scendere ugualmente, dal momento che la produttività globale e la produzione continuano a ristagnare. (tradotto in parole semplici: con un PIL invariato ed un aumento degli occupati il risultato sarebbe una minore produttività).
Perciò il governo Renzi è fuori strada nel risolvere i problemi.
I CONTRATTI FLESSIBILI NON AUMENTANO L’OCCUPAZIONE
> uno studio qui degli economisti prof. Riccardo Realfonzo (Univ. del Sannio) e prof. Guido Tortorella Esposito (Univ. del Sannio) smentisce l’idea che il tempo determinato rappresenti una condizione cui segue una successiva stabilizzazione: fra i neo-entrati in attività con un contratto a termine nel quinquennio precedente la crisi, poco meno del 50 per cento riusciva poi a ottenere un contratto a tempo indeterminato e circa un quarto di chi a inizio carriera passava dal tempo determinato all’indeterminato tornava poi in uno stato contrattuale peggiore nel giro di un biennio. Ad esempio l’assunto come apprendista “pre-riforma Fornero” spesso riusciva ad avere un contratto a tempo indeterminato dopo il periodo di apprendistato, ma poi perdeva questo contratto dopo pochi anni, facendo anche sorgere il dubbio che l’apprendistato venisse usato al solo scopo di risparmiare sui costi. I dati poi affermano che il tasso di disoccupazione aumenta in relazione alla crescita della flessibilità. Considerando il sottoindicatore dell'indice Epl, cioè l'Ept, che riguarda la protezione del solo lavoro a termine (VEDI TABELLA 1 QUI) tanto più aumenta il ricorso al lavoro a termine tanto più si abbassa l’indicatore EPT, negando clamorosamente la tesi neoliberista che l'occupazione aumenti in relazione alla flessibilità.
Tabella 1: EPT nell’eurozona 1990-2013 (fonte: OCSE)
Tra il 2013 e il 1990 nei singoli paesi europei, l’EPT sull’asse orizzontale (FIGURA 1 FONTE OCSE) si riduce per l’aumentare della flessibilità nel lavoro a termine, e contemporaneamente la disoccupazione nell’Eurozona sull’asse verticale tende generalmente ad aumentare. E nei Paesi Gipsi (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Irlanda), dove più c’è stata deregolamentazione, di più è aumentata la disoccupazione, mentre chi ha aumentato la protezione del lavoro (Francia, Irlanda e Finlandia) ha registrato meno disoccupazione.
Figura 1: EPT e disoccupazione 1990-2013 (fonte: dati OCSE ed Eurostat). R-quadro: 0,15
Esiste relazione tra ricorso al lavoro a termine e occupazione anche nel periodo pre-crisi (1990-2007).(FIGURA 2 FONTE OCSE)
Figura 2: EPT e disoccupazione 1990-2007 (fonte dati OCSE ed Eurostat). R-quadro: 0,001
In Italia la liberalizzazione del lavoro a termine (Pacchetto Treu, decreto legislativo 368 del 2001, legge 30 Biagi e legge Fornero), ha comportato il più che dimezzamento dell’indicatore di protezione del lavoro Epl rispetto al valore del 1990, e nonostante ciò oggi il tasso di disoccupazione è del 4% più elevato. allora perché continuare a intestardirsi su misure che appaiono inefficaci? Lo scopo inconfessabile da parte del governo Renzi è quello di causare un incremento della disoccupazione. La curva di Phillips infatti, stabilisce che la crescita dei salari è in relazione inversa rispetto al tasso di disoccupazione. Innalzando il tasso di disoccupazione, il governo Renzi si attende nient’altro che la riduzione della crescita salariale per recuperare competitività. Sbagliando, come abbiamo spiegato nell’introduzione.
> In passato, la stessa OCSE ha a più riprese negato l’esistenza di una correlazione tra la flessibilità complessiva del mercato del lavoro (misurata dall’EPL) e l’occupazione v. ad esempio Employment Outlook OCSE 2004
> Anche l’attuale capo economista del FMI, Olivier Blanchard, in uno studio del 2006 sostenne che “le differenze in regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari Paesi”. cfr. O. Blanchard, “European Unemployment: the Evolution of Facts and Ideas”, Economic Policy, 2006.
> Questi risultati sono stati recentemente confermati anche dai Prof. E. Brancaccio (Univ. del Sannio), “Anti-Blanchard”. ( Franco Angeli, Milano, 2012) e A. Stirati (Univ. Roma Tre, “La flessibilità del mercato del lavoro e il mito del conflitto tra generazioni” e dai Prof. P. Leon (Univ. Roma Tre) e R. Realfonzo (Univ. del Sannio) in L’economia della precarietà, 2008: Speziale V., “La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia”; e Zoppoli L., “Flex/insecurity. La riforma Fornero” (giugno 2012, n. 92)
> Il jobs act ha introdotto nuove forme di contratti flessibili, ma da febbraio a luglio 2014, il lievissimo incremento non è dipeso affatto, come ha dimostrato il prof. Tito Boeri (Univ. Bocconi), dal decreto Poletti e quegli occupati in più sono tutti precari, mentre i contratti stabili continuano a calare, una sostituzione, confermata dai dati sulle comunicazioni obbligatorie che le aziende fanno. Da febbraio a maggio l’occupazione è aumentata esclusivamente a causa del miglioramento della produzione industriale nei primi mesi dell’anno. Da maggio a luglio, invece, si nota solo un incremento modesto: la curva è praticamente piatta.
> il Fondo Monetario Internazionale, in un suo documento qui, corredato di dati inequivocabili, ha affermato che le riforme strutturali sono inefficaci nel rilanciare la domanda e quindi depressive, e che i guadagni di produttività ottenuti con le suddette “riforme strutturali” rischiano solo di produrre aumenti di disoccupazione.
> esistono numerosissimi studi qui presentati al Convegno Isfol “Mercato del lavoro, capitale umano e imprese”, che smentiscono una relazione fra lavoro atipico ed aumento dell’occupazione.
> I Prof. R. Arena e N. Salvadori in “Money, credit and the role of the State”, Aldershot: Ashgate, 2004, pp.65-74 e i Prof. G. Forges Davanzati and R. Realfonzo, in “Labour market deregulation and unemployment in a monetary economy”, mostrano come lavoratori precari si tutelino dal rischio di disoccupazione riducendo i consumi e deprimendo la domanda interna, quindi l’occupazione.
> Nella loro ricerca scientifica i Prof. delle Univ. di Cambrige, Uppsala e Jadavpur, Deakin, Malberg, Sarkar, in “How do labour laws affect unemployment and the labour share of national income?” qui dimostrano che la flessibilità della prestazione lavorativa non determina incrementi occupazionali
> i contratti flessibili possono invogliare le imprese a creare posti di lavoro in una fase di espansione economica, ma sono i primi a sparire nelle fasi di recessione. Analizzando infatti i dati Isfol, gli avviamenti al lavoro stabile con contratto a tempo indeterminato sono passati dal 21,6% di inizio 2009 al 15,8% del IV trimestre 2013. I dati Eurostat, pubblicati nell’Empoyment Outlook Ocse 2013, mostrano che in Italia nellafascia giovanile 15-24 anni la quota di occupati precari sul totale è pari al 52,9% ( 1 giovane su due), ma dal 2009 al 2012 in Italia la crescita dei precari è stata 3 volte superiore a quella europea. Nonostante ciò la disoccupazione giovanile è raddoppiata dal 21,3% al 42,2% .
> gli economisti Tito Boeri e Jan van Ours in: ”The economics of imperfect labor markets”, Princeton University press 2008, hanno rilevato che su 13 studi empirici esaminati ben nove di essi davano risultati indeterminati e tre di essi indicavano che una maggiore precarietà dei contratti può addirittura determinare più disoccupazione.
> L'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha appena pubblicato un'analisi scritta dalla sua economista Mariya Aleksynska, dal titolo “Deregulating labour markets: how robust is the analysis of recent IMF working papers?“ (Deregolamentare i mercati del lavoro: quanto è solida l'analisi dei recenti documenti di lavoro del FMI?) su una serie di quattro recenti documenti di ricerca del FMI sull'impatto delle riforme del mercato del lavoro nel ridurre la disoccupazione. Lo studio dell'ILO dimostra che i dati sul mercato del lavoro, sui quali sono basati i documenti, le analisi e le raccomandazioni dei ricercatori del FMI, presentano un grave vizio di forma: gran parte delle “riforme” identificate dagli autori del FMI erano in realtà spiegate da risultati derivanti da interruzioni nella serie di dati disponibili, di cui gli autori erano inconsapevoli. I documenti del FMI si basano su un “ Economic Freedom of the World Database ” (Database della libertà economica mondiale) pubblicato dal conservatore Istituto Fraser di Vancouver, la cui componente delle normative del lavoro consiste in un mix di meri dati, indici compositi e sondaggi di opinione, con il mix che cambia nel corso del tempo. Altre numerose interruzioni nella serie di dati Fraser si sono verificate, molte di queste anche nel 2002 quando è stata pubblicata la prima edizione di “Doing Business”. Gli indici usati dagli autori del FMI erano ulteriormente viziati dal fatto che, quando i dati non erano disponibili per specifiche sub-componenti in un certo anno, cosa che accadeva di frequente, essi calcolavano semplicemente la media di quelli che erano disponibili
> La tesi tuttora in voga secondo cui un lavoro precario sarebbe meglio di nessun lavoro è smentita da quasi tutte le ricerche più recenti: quanto più si passa da un lavoro atipico all’altro, tanto maggiori diventano le probabilità che scatti la cosiddetta “trappola della precarietà”, ovvero la permanenza in uno stato di discontinuità lavorativa.
> Secondo uno studio del Prof. Fumagalli (Univ. Pavia), i dati Eurostat, pubblicati nell’Empoyment Outlook Ocse 2013, mostrano che in Italia, dal 2009 al 2012, il numero di giovani occupati precari nella fascia 15-24 anni ha subìto un tasso di crescita più elevato, pari al 3,1% annuo, contro il -1,8% della Germania, il + 0,25% della Francia e + 0,8% della Spagna. Questo significa che il processo di precarizzazione dei giovani occupati è stato quasi tre volte superiore a quello europeo, e nonostante ciò il tasso di disoccupazione giovanile non solo non ha arrestato la sua crescita, ma la ha addirittura accelerata. Pertanto non esiste una correlazione positiva tra flessibilizzazione del mercato del lavoro e crescita occupazionale, soprattutto giovanile, anzi, in una fase recessiva accade una correlazione inversa, svolgendo una dannosa funzione pro-ciclica.
> il “Rapporto sullo Sviluppo Mondiale 2013: occupazione” della Banca Mondiale, non ha trovato alcuna prova empirica di una relazione lineare tra le normative del lavoro e i risultati economici.
> Questa TABELLA QUI di fonte Eurostat, pubblicata da Il Sole 24 Ore del 15 marzo 2014 dimostra chiaramente che non vi è alcuna relazione evidente tra disoccupazione e grado di flessibilità del mercato del lavoro. La disoccupazione ha altre cause, soprattutto la carenza della domanda effettiva, che va sostenuta attraverso investimenti pubblici. Perché l’occupazione non dipende dalla tipologia contrattuale, ma dalla domanda aggregata; se arrivano poche commesse e i consumi sono in crisi, anche ammesso che il datore di lavoro possa assumere a costo zero, se mancano prospettive di vendita e di crescita della domanda le imprese non assumono
> Howell et al. (2007) hanno mostrato che la flessibilità del mercato del lavoro e la maggiore flessibilità del salario non sono associati né ad una minore disoccupazione complessiva né ad una minor disoccupazione giovanile.
> il prof. José Carlos Díez, dell’Instituto Catolico de Administración y Direccion de Empresas, sottolinea ne El economista observador che la riforma dei contratti resi più flessibili è servita solo a redistribuire il lavoro tra tempo pieno e tempo parziale e tra contratti a tempo indeterminato e contratti precari.
> Nel rapporto a cura di G. Di Domenico e M. Scarlato redatto per il Ministero del Tesoro qui nel febbraio 2014 dal titolo: “Valutazione di interventi di riforma del mercato del lavoro attraverso strumenti quantitativi”, si prendono in considerazione gli effetti della riforma Biagi del 2003 e della riforma Fornero del 2012 sul mercato del lavoro. Il risultato è insoddisfacente:“[…] considerando complessivamente i risultati deludenti emersi dall’analisi statistica condotta in questa ricerca, che copre un arco temporale di circa 15 anni,. possiamo concludere che le riforme ‘parziali’ della legislazione sul mercato del lavoro hanno avuto l’effetto di accrescere la segmentazione del mercato e i recenti correttivi introdotti non sono stati efficaci nel migliorare l’accesso ad un lavoro stabile né nell’aumentare la probabilità di transizione dal lavoro temporaneo a quello permanente” (pp.80-81).
> L’aumento della disoccupazione giovanile non è dovuto alla rigidità del nostro mercato del lavoro italiano, ma ad una serie di fattori quali: una struttura produttiva composta da imprese di piccole dimensioni, scarsamente innovative e senza domanda di lavoro qualificato; il blocco del turn-over nel pubblico impiego; una spesa pubblica per ricerca&sviluppo inferiore allo 0.5% del Pil; tagli ai fondi universitari che fanno sì (v.indagine Associazione dottori di ricerca) che solo il 7% dei dottori di ricerca può iniziare carriera accademica e 2.000 posti da ricercatore strutturato sono diventati meno di 1.000 precari negli ultimi 5 anni.
> Questo GRAFICO QUI riproduce una delle numerosissime tipologie di test effettuati in questi anni dall’OCSE e da molte altre istituzioni per verificare l’esistenza o meno di una correlazione tra flessibilità del lavoro e disoccupazione. La figura mette in evidenza che non si ravvisa alcuna correlazione tra indici di protezione del lavoro (EPL, Employment Protection Legislation) e tassi di disoccupazione.
> Questo GRAFICO QUI di fonte Isfol indica che dopo il 2009 è iniziato un processo di sostituzione dellavoro standard con lavoro non standard, contratti a termine, a tempo ridotto, a chiamata, lavoro autonomo, in pratica la cosiddetta “trappola occupazionale” (lavori non standard successivi con scarse possibilità di passare ad un lavoro standard), ed è anche aumentato il passaggio da lavoro non standard allo stato di disoccupazione o di inattività. Inoltre si sono ridotti gli ingressi sul mercato del lavoro poiché si è fatto largo l’effetto scoraggiamento ed è aumentato il passaggio dal posto di lavoro garantito a quello non più garantito.
Graf.9 – Il mercato del lavoro nella crisi in Italia (fonte: Isfol, Come si è evoluta la flessibilità con la crisi, 6 maggio 2014: http://www.isfol.it/Isfol- appunti/archivio-isfol- appunti/6-maggio-2014-come-si- e-evoluta-la-flessibilita-con- la-crisi)[7]
> L’Ocse nel suo rapporto 2014 sull’occupazione (Employment Outlook 2014 qui) lamenta che la progressiva crescita della flessibilità in entrata non ha prodotto altro che più precarietà, più incertezza sulle condizioni lavorative, meno motivazioni sul lavoro
Tutta questa mole di autorevoli studi non è potuta sfuggire agli studiosi appartenenti alla corrente mainstream dell’economia, la quale, come dicono a Napoli, ADDÒ VEDE E ADDÓ CECA”, ovvero, vede solo quello che le fa comodo, impregnata com’è di malevole fanatismo neoliberista.
Per un'economia solidale - info@peruneconomiasolidale.it
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