L’uomo che comprende un simbolo
non solo si apre al mondo oggettivo,
ma allo stesso tempo riesce anche a
emergere dalla propria situazione
personale per raggiungere una
comprensione dell’universale…
Grazie al simbolo, l’esperienza
individuale viene risvegliata
e si tramuta in azione spirituale.
Mircea Eliade
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“Il tuo è un libro fallito”.
“Certo, ma dimentichi
che l’ho voluto tale,
e che anzi
non poteva essere
RIUSCITO
se non in questo modo.”
Cioran
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I filosofi sono in qualche modo pittori e poeti,
i poeti sono pittori e filosofi,
i pittori sono filosofi e poeti.
Donde i veri poeti, i veri pittori
e i veri filosofi si prediligono
l'un l'altro
e si ammirano vicendevolmente
Giordano Bruno
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S'invecchia per capire che l'unica età che valga la pena di vivere è quella della giovinezza. Tutto il resto è come la coda di un brutta sbornia.
Io fui giovane durante la guerra.
E questa sì che è una sbornia grande. E' la miscela esplosiva della più pura follia: i giovani che non sanno cosa sono, mandati a combattere una guerra che non si sa a cosa serve.
Fa ridere, in fondo; ma la sopravvivenza è una necessaria condizione.
Sono sopravvissuto, e così più di dieci anni dopo mi venne la bella idea di tornare.
Non per nostalgia, e nemmeno per il perverso piacere di vedermi più vecchio nei luoghi che m'avevano visto più giovane.
Adesso, su due piedi e in poche parole, non lo saprei proprio spiegare. E' qualcosa che ha a che fare con la sospensione... come il blocco dell'immagine durante un vecchio film... come un'improvvisa caduta quando parli al telefono...
Ci è voluto un po' di tempo per capire, ma se non fossi tornato, non ci sarei mai riuscito.
Presi alloggio in due stanze, alte, che guardavano i tetti, e non mancava la luce.
Anche se pagava il giornale, non volli strafare: era tutto molto più del necessario.
Salendo fino all'altana si vedevano i campanili; imparai un po' alla volta a riconoscerli col loro nome, ma questo lo feci per me, non per il giornale. A loro bastavano pettegolezzi e vernici, era tutto quello che volevano, pettegolezzi e vernici; s'impennava la quantità di lavoro con la mostra del cinema, poi si tornava al modesto sopore della quotidianità.
Anche il vecchio Ernst ogni tanto tornava; allora mi tirava giù dal letto un telex bollente che più o meno suonava... seguilo, non fartelo scappare, raccontaci tutto eccetera eccetera.
Solo che Ernst andava a marche costose che ingollava a due passi da S.Marco. Io potevo permettermi solo whisky di quarta categoria dentro qualche sgangherata ostaria oltre Rialto o Cannaregio. Per questo le nostre strade non s'incontrarono mai. Al giornale mandavo pezzi inventati, ma non se ne sono mai accorti.
Ero partito volontario, nel '43. L'Europa era un sogno, e l'Italia un miraggio. Per questo ero partito. Per Leonardo e Michelangelo. Per Caravaggio e Bellini. Con i pochi soldi che avevo e con i miei ventitré anni, l'Italia non l'avrei mai vista.
Solo che non tornano mai i conti dei vent'anni. Ero partito per la guerra. E ho trovato guerra. Prima Napoli, poi Roma, poi Firenze... guerra, guerra e guerra.
Eppure era là tutto quello che avrei voluto vedere e toccare... musei e palazzi, piazze e chiese.
Ma credo che capitino dei momenti in cui certe cose spariscono per lasciar spazio a qualcosa di più urgente, di più esclusivo...
Il mio Rinascimento, quella volta, fu solo macerie di cose e di gente.
Tutto il possibile lo fissai sui miei fogli a carboncino, che poi inviavo a casa appena trovavo una spedizione sicura. Furono quei disegni a infilarmi poi nel giornale come esperto d'arte. E siccome la vita è circolare, furono sempre quei disegni a farmi tornare. Come una sorta di debito, di conto rimasto in sospeso. Ma questo lo percepivo solo come una specie di presagio. Ne ebbi la certezza solo dopo averlo conosciuto.
L'ho conosciuto per caso, andando per ostarie.
Si stava al caldo e c'era gente. Ronzava parlava urlava, la gente da ostaria. Non capivo le parole, ascoltavo la musica.
Per darmi un tono spiegazzavo fogli e consumavo carboni: la macchietta dell'artista a caccia d'ispirazione. Mi veniva bene, ed era più comodo recitarla di notte all'ostaria, che di giorno sulle fondamenta.
Qualcuno mi pagava da bere in cambio d'un ritratto. Finiva che poi se lo passavano di mano in mano, e approvavano con la testa o mi tiravano gran manate sulle spalle dicendo che ero bravo... dai Mister, che diventi famoso...
Capitò una sera così. Buttavo giù delle facce dietro un tavolino. E lui guardava.
Non proprio: stava seduto davanti a me, e forse era già al suo secondo litro. Teneva il viso sulla mano, con gli occhi chiusi, come fanno gli ubriachi quando non sanno ancora se è ora di dormire o di stappare un'altra bottiglia. Ascoltava il fruscio dei miei fogli. Quando ne scartavo uno e lo appoggiavo davanti a me, lui riapriva gli occhi a mezza fessura, spostava poco poco la testa, sbirciava la bozza, dondolava il capo e tornava a dormire. Dopo il terzo foglio era già diventata una danza silenziosa.
Quello strano gioco cominciava a piacermi: poteva diventare una specie di bolero.
Bastava solo che decidessi di cambiare il ritmo. Il carboncino conquistò maggior vigore e i segni si fecero nervosi, immediati, incisivi, violenti... quattro, cinque, sei, sette... il vecchio non perdeva un colpo. A occhi chiusi percepiva il ritmo dei tratti, contava la quantità dei segni, il numero delle sfumature piatte... quando congedavo il foglio lui sapeva già che era giunto il tempo di spiare. Al numero otto decisi di barare. Gli rubai la mano chiusa a pugno e la mascella sinistra che ci stava sopra. Gli occhi cerchiati, le rughe scavate, la carne molle degli ubriachi, i capelli unti incollati alle tempie. Al numero otto gli ho fatto il ritratto.
Aprì gli occhi a mezza fessura e si fermò a sbirciare qualche secondo in più.
"'Mericano - mi disse - 'mericano, il tuo problema sono i contorni. I contorni e le rughe."
Si alzò barcollando e, tentando immaginari sostegni, riuscì a infilare la porta dell'ostaria.
Aveva usato un inglese perfetto. Questo è il problema.
Di italiano, ne masticavo poco. E di dialetto ancora meno. Una cosa però l'avevo imparata da subito: vecio imbriago. E quello, dannazione, quello era un vecio imbriago che parlava un inglese perfetto.
Al paròn che venne a ripulire il tavolo e a intascare i soldi lasciati dal vecchio, chiesi informazioni.
"Mister, quello là è Pinta. Pinta, e basta."
"E cioè?"
"Vede Mister, a Venessia se beve secondo gerarchia. Chi se contenta del'ombreta. E chi più su dell'ombra. Poi se passa al goto, e poi al litro, e poi ancora de più. Quello è uno che punta subito al litro, e per questo lo chiamano Pinta. E no so altro.
"Torna qua domani sera?"
"E chi lo sa! Quello va, viene, sparisse mesi interi. Ma el xe sempre bevuo."
E per farsi capire meglio, dondolò il pollice davanti alle labbra, a garganella.
Tornai tutte le sere successive, sedendomi allo stesso posto, spiando continuamente la porta, immaginandomi di vederlo entrare da un momento all'altro, col suo vecchio cappotto di guerra, con le sue scarpe fuori misura, con tutta la povertà del barbone alcolizzato... col suo perfetto inglese.
E alla fine entrò. Tornò a sedersi davanti a me, con la bottiglia e due bicchieri, come ci fossimo lasciati cinque minuti prima.
"Bevi con me 'mericano!... Niente ritratti 'stasera?"
Sembrava che stesse vivendo un raro momento di lucidità. Ringiovanito. Lo trovavo ringiovanito. Non arrivava ai cinquanta, con un buon bagno e un vestito decente, mi sarei fermato ai quarantacinque.
"Non ho più disegnato dall'altra sera."
"Perché? Ti fanno paura le critiche, 'mericano?"
"Solo quelle che non si spiegano..."
Grattandosi la guancia soffocò una risata e si attaccò al primo bicchiere che ingollò tutto d'un fiato, e poi si asciugò le labbra col dorso della mano.
"Sai cos'è un contorno? Non è la fine di niente, e non è il principio di niente. E' solo quello che sta in mezzo."
"Non capisco..."
Si versò un altro bicchiere.
"Ai confini scoppiano sempre le guerre. Non c'è niente di fermo e di pulito, ai confini. E la pace è un sogno. I contorni sono la stessa cosa: la luce vuole entrare, e l'ombra vuole uscire; e la luce e l'ombra entrano in guerra. Il contorno è il dolore di questa guerra. Le tue linee sono troppo dritte, 'mericano! Il dolore è curvo."
Trangugiò il secondo bicchiere.
"Tu sei un pittore, Pinta."
Non era una domanda, ma lui la interpretò così.
"No, non sono un pittore. Almeno, non come credi tu. Tu hai studiato, 'mericano?"
"Sì, una specie d'accademia d'arte, a Philadelphia..."
"Philadelphia è un bel nome. C'è dentro l'amore, la fraternità... Vieni dalla città dei sogni, 'mericano. E tiri linee dritte. Per tutto c'è sempre una spiegazione".
Bevve ancora, con minor avidità.
"Se hai studiato, lo devi sapere..."
"Cosa?"
"Se vuoi imparare a disegnare vai dai fiorentini. Se vuoi imparare a colorare vai dai veneziani."
"Nel Cinquecento si diceva così..."
"E non lo sai il perché?"
"Scuole diverse credo, o no?"
Alzò di nuovo il bicchiere, ma non per bere. Lo fermò davanti ai miei occhi, colmo di vino rosso.
"Questo non è vetro e non è vino. E' una massa di colore, è solo una massa di colore... un delirio di luce... né solido né liquido né fragile né trasparente... Solo luce, capisci 'mericano? Quella che esce dal vino, quella che entra nel vetro, quella che esplode e si fa colore. E' un urlo rosso, una vampata, un urto di vita, una saetta di quarzo... Non c'è contorno, 'mericano. Sono fulmini, fratture, lacerazioni... Sbreghi, sbreghi, sbreghi..."
Suturò la ferita tracannando il vino.
"Questa non è la scuola dei veneziani. E' la condanna dei veneziani. Prima di tutto siamo ubriachi di riverberi. Le nostre linee sono sfoghi di luce, uno sfiato del cielo. Così non c'è mai niente di fermo, capisci 'mericano? Mai niente di fermo. Quello che ci corrode, che ci consuma... anche questo è fatto di luce... L'acqua scardina le ombre, decompone i segni, inghiotte la materia, ne fa poltiglia, la rivomita intatta, più forte e più solida... e poi la rimpasta di luce... e diventa miele... incandescenza di vetro... che cristallizza in alabastro, in pioggia di perle... e alla fine ingoia le trasparenze e i fluidi, s'ispessisce in linfa, si raddensa in piombo. Nero, sempre più nero, e poi grigio e meno grigio, e su se stesso s'avvolge e risale. Piano piano risale. E adesso è un'anguilla viscida, verdastra, che si nutre d'alghe e di squame... 'Mericano, tu devi guardare i canali. Tu DEVI imparare a guardare i canali..."
Disse poche altre cose quella sera. Prima del crollo totale, Pinta mi sorprese di nuovo, e sparì infilando maldestramente l'uscita.
Il giorno seguente camminai per la città, guardando i canali, cercando anguille e perle, piombo e miele, vomito e luce.
Dopo aver conosciuto Pinta, i miei carboni si erano come... immiseriti.
La guerra delle luci e delle ombre non faceva per me.
Mi stordiva, pensarla così. Ero stato abituato a credere che l'ombra cominciava proprio perché la luce s'era già arresa.
"Sbagli 'mericano! - mi aveva detto Pinta - Il più bel fiotto di luce è quello che soffre il desiderio della notte. L'ombra più perfetta è quella che sa trattenere la nostalgia del sole."
Troppo difficile; mi arresi così all'ozio più totale.
Scarabocchiavo in giro per le calli gli articoli inventati da inviare al giornale.
Mi sedevo sotto le vere dei pozzi, sugli scalini dei ponti, sopra gli attracchi viscidi e verdi dei canali, a ridosso delle spallette di marmo consunto delle fondamenta.
Mi sedevo, e guardavo. Aveva ragione Pinta: è sempre in movimento, la luce. E trascina con sé tutto il mondo. Ora potrei dirgli che la luce riesce addirittura a far di più: la luce soffre anche la storia. Gli anni passano e la luce invecchia. Oggi nessuno potrà mai più vedere Venezia con la luce che aveva quarant'anni fa. Non c'è proprio paragone.
E Pinta mi darebbe ragione.
La sera i passi mi portavano all'ostaria di Pinta, e alla speranza di poterlo rivedere. Al terzo incontro lui mi trovò già ben armato: un litro di rosso e due bicchieri sul mio tavolo in attesa, come il calice in chiesa.
Accettò l'invito in silenzio e bevve d'un fiato tre bicchieri uno dopo l'altro. Al quarto mi parve più rasserenato e disposto alla conversazione.
"Pinta, mi devi ancora spiegare la faccenda delle rughe..."
"Cosa???"
"La prima sera mi hai detto che il mio problema erano i contorni... e le rughe. Non ti ricordi?"
"Ricordo benissimo."
S'accese una sigaretta e si versò da bere.
"Non si parla delle rughe in ostaria. Questa è una faccenda seria, troppo seria... e io sono qua perché ho poco tempo. Tu mi servi 'mericano. Sei la persona giusta e ti devo chiedere un favore..."
"Se si tratta di soldi, io ne ho pochi, ma tutto quello che posso... volentieri..."
Mi guardò bieco e le parole mi morirono in bocca.
"No xè un problema de schei... non mi servono i tuoi soldi, 'mericano... Mi serve il tuo tempo... capisci? Ho bisogno di tempo..."
Provai la netta sensazione che se avessi parlato ancora avrei rovinato tutto. Mi limitai a guardarlo in silenzio.
"Prima di tutto devi venire con me. Te la senti di accompagnare un matto?"
"E chi è il matto di noi due?"
Abbozzò un sorriso... e allora andiamo, disse.
Il labirinto delle calli è una metafora di fuga.
Ogni mutamento di direzione è liberatorio, ogni svoltata d'angolo è brama di libertà. E cioè ancora di fuga. Un viaggio di sola andata... il più bel viaggio che ogni buon viaggiatore vorrebbe intraprendere.
"Questa città è nata per bisogno di salvezza, lo sai 'mericano? Scappavano dai barbari e si sono rifugiati sulle isole. E sulle isole ancora si continua a scappare... ogni volta che si supera un ponte, un po' si muore e un po' si rinasce..."
Mentre Pinta parlava - e mi faceva da guida dentro e fuori dai campi - mi venne da pensare che il labirinto è anche la metafora dei discorsi ubriachi.
Non si sa mai da dove arrivano, dove vogliono portare. I discorsi di Pinta erano così. Fumo d'alcool e labirinto di pensieri.
"Stai attento, 'mericano! E' rischioso l'orgoglio di chi si sente al sicuro... arriva il giorno in cui si deve imparare che si deve scappare anche da questo... dai rifugi sicuri... Prima o poi arriva qualcuno o qualcosa, e ti stana..."
Pensavo anche che non sarei mai riuscito a rimettere insieme quella matassa impazzita. Non avrei mai ritrovato da solo la strada del ritorno. Seguivo Pinta, e non avevo appreso l'astuzia di Arianna, né la prudenza di Pollicino.
La luce gialla e debole dei lampioni m'impediva di decifrare i toponimi dipinti sui vecchi muri.
Camminavo così, galleggiando nel buio, calpestando frammenti di discorsi ubriachi.
"Dì la verità: sei qui perché anche tu stai scappando da qualcosa... si fugge per essere liberi... e per scoprire poi che la libertà raggiunta è una nuova galera."
"Non sto scappando da niente. Forse, sto solo cercando..."
"E forse non te ne accorgi, ma hai già trovato..."
Dentro lo spazio dei campi le parole di Pinta rincorrevano un'eco. Nelle anguste strettoie delle calli diventavano secche ed opache. Sui ponti tornavano liquide, si confondevano con lo sciacquio delle prue abbandonate. Sotto la mole imponente di qualche chiesa, s'ingobbivano, si piegavano... il rumore di passi s'adeguava alla metamorfosi della voce... si miscelavano i suoni entrando uno dentro l'altro come accade l'attimo prima d'addormentarsi...
"Hai paura 'mericano? Dove pensi ti stia portando?"
"Io mi fido di te..."
Non parlò più. Disse solo che aveva bisogno di bere. E poi non parlò più, fino a quando arrivammo a un portone.
Un bel portone grande, di legno e di borchie, col suo bel battente d'ottone lucidato di fresco col sidol.
"Semo a casa mia..."
Faticai a comprendere. Il portone s'era aperto mettendo a nudo l'intimità di un palazzo a dir poco signorile.
Le ombre del cortile, le forme accennate dei marmi e dell'edera, il profilo del pozzo... tutto lì dentro evocava fantasmi di dogi e cortigiane.
Dai vetri a nido d'ape pioveva luce diafana, di candele.
Quest'uomo, pensai, quest'uomo malandato nel corpo e nei vestiti... questo barbone ubriaco mi sta tirando un brutto scherzo...
Ma le sue chiavi giravano sicure, i suoi gesti erano quelli del padrone.
Superati una scala e un salone d'ingresso, dentro una stanza tenuta insieme da un soffitto affrescato del Settecento, Pinta si procurò con destrezza un fiasco, e bevve a canna con disperata avidità.
Poi si sfilò il suo misero cappotto di guerra... devo mostrarti una cosa, 'mericano. Una cosa unica... non ce ne sono di uguali...
Biascicava sillabe una sull'altra e non aveva più forze. Si buttò su un divano. Cadde in un sonno nero e pesante.
Potevo andarmene. Potevo restare. Guardarlo dormire.
Addormentarmi anch'io.
La verità è che non avevo scelta tranne quella di abbandonarmi alla follia della situazione.
Mi tirò fuori dal mio rassegnato torpore un calpestio di passi, un cigolio di porte.
Non so perché, ma mi sedetti su quel divano, facendomi scudo del corpo di Pinta.
Poco dopo entrò una donna. Teneva davanti a sé un antico doppiere d'argento e le due fiamme le rimbalzavano sul volto e sui capelli. Mi rimisi in piedi e per una frazione di secondo fui certo d'essere davanti a uno spettro.
"L'ha riaccompagnato a casa lei? Devo ringraziarla..."
"I 'm sorry..."
Nel mio sgangherato italiano cercai di farle capire che era stato lui ad accompagnare me... che doveva farmi vedere una cosa unica al mondo... e che poi si era addormentato di colpo...
"Allora non stava male... meglio così..."
Mi rispose in inglese. Quasi perfetto. Non era come quello di Pinta. Ma per me era salvezza totale poter continuare a parlare in inglese con qualcuno. Quell'inaspettato stato di grazia mi spinse finalmente a riconquistare le buone regole della vita civile: mi presentai e aggiunsi qualche parola di scusa e di conforto.
Aveva posato il doppiere sul tavolo. Affrancata dalla luce spettrale, e immersa nella penombra, si svelò a me raggelandomi in una soggezione senza parole. Era bella, di una bellezza appena sfiorita.
Imputai il lieve rossore del viso al sollievo di un'ansia trascorsa nell'attesa... a volte mi combina questi guai... torna a casa ubriaco e ho sempre paura che gli accada qualcosa di... io sono Anna... sua moglie... Sussurrava piano le parole, spezzava le frasi. Come fanno le mamme quando dormono i figli.
"Mi spiace signora... io non so nemmeno il suo nome... io l'ho solo incontrato in un'o... in un bar dalle parti di S.Polo..."
"Non si scusi... io so com'è... nessuno chiede il nome a un... a un clochard... Mio marito è Adriano G***..."
E declinò un cognome che nelle Historiae Veneziane occupa almeno il dieci per cento dell'indice.
"Lei è molto cortese a fingere di non stupirsi... E' molto tardi e io la trattengo inutilmente..."
"Madame, io non saprei trovare la strada del ritorno..."
Davanti a quell'aristocratico commiato, mi rivolsi spontaneamente a lei come gli inglesi si rivolgono alla loro regina.
"Questa casa è vuota e grande... ci sono solo stanze per ospiti... se non è un fastidio può fermarsi qui per una notte..."
Sollevò il doppiere invitandomi a seguirla.
Anna aveva la mia età, e quando uscimmo da quella stanza eravamo già complici. Quel particolare tipo di complicità che affrattella due estranei compaesani quando s'incontrano in terra lontana e straniera.
Oppure due naufraghi, aggrappati allo stesso relitto, che si stringono le mani per farsi coraggio.
E' una cosa strana, immediata: quando la senti arrivare sai già che anche l'Altro ne è preso e invischiato.
Sottopelle lo senti il Suo bisogno di te. Almeno quanto tu hai bisogno di lui.
Questo tipo di complicità ci tenne svegli quasi tutta la notte.
Mi portò nella stanza degli ospiti e mi lasciò il tempo di ridarmi un aspetto decente. Mi invitò poi in cucina... per mettere qualcosa sotto i denti.
Anche Anna si era cambiata: aveva ridotto all'impotenza il rame infiammato dei suoi capelli e aveva sostituito lo scialle di lana con una lunga vestaglia di seta.
Mi risultò difficile chiamare cucina quello stanzone dal quale potevano tranquillamente uscire portate per un centinaio di invitati.
Le nostre parole ci tornavano indietro con un'eco stridente di metallo e tegami, e mi sentivo Gulliver prigioniero nel mondo dei Giganti.
"Latte caffè biscotti...?"
Qualsiasi cosa andava bene, purché lei non s'allontanasse troppo dalla mia minima misura di sopravvivenza.
"Non si affatichi così per me, madame... si sieda anche lei..."
L'angolino di un tavolo immenso fu il nostro relitto.
Mi domandò di me e del mio lavoro e io tentai di rispondere evitando gaffes e spropositi, poi parlò lei riprendendo un filo rimasto interrotto...
"Adriano non è sempre stato così, sa... Adesso lo so anch'io che è irriconoscibile... che si sta consumando... che non lo posso salvare..."
Le sue mani ebbero un tremito, tintinnò forte la tazza contro il piattino, controllò il sussulto mordendosi le labbra.
"Quando l'ho sposato vent'anni fa... nel trentotto... lui aveva trent'anni e io nemmeno diciotto... era l'uomo più bello di tutta Venezia... per me è stato come salire da viva in paradiso...
Di lui s'innamoravano tutti... lui era fatto così: o te ne innamoravi oppure ti spaventava.
Non erano i tempi giusti per essere fatti così... I fascisti, sa, i fascisti lo odiavano e lo temevano e lui si divertiva a sfidarli, a piegarli... il suo però non era odio... era solo disprezzo.
Prima che scoppiasse la guerra, lui andava sempre in tight. In mezzo ai gerarchi, alle camicie nere, a tutte le cerimonie... lui si presentava sempre così... e fissava tutti negli occhi fino a quando gli altri non abbassavano i loro. Il loro disagio era il suo trionfo.
Poi tornava a casa, mi raccontava tutto e rideva... li ho schiacciati uno a uno anca 'stavolta, quei peoci de merda... Lui si sentiva ancora un doge nella sua città, e quelli erano solo pidocchi, pantegane... topi di fogna...
Io so solo che avevo tanta paura. Dopo il primo anno di guerra volle trasferirsi nella villa fuori Treviso e mi parve una salvezza... ma furono gli anni più brutti. Una guerra che non finiva mai... e lui che la sfidava un giorno dopo l'altro come fosse un gioco o una scommessa con la morte. Nascondeva ebrei e antifascisti nelle cantine, e poi invitava i tedeschi ad ammirare la quadreria... il Guardi, il Canaletto... e Renoir... e Segantini... alla fine della guerra non era rimasto più niente. Aveva corrotto i tedeschi con i quadri che lui aveva amato più di se stesso...
Se questo è il prezzo di quelle carogne, allora va disprezzato tutto insieme, quadri e nazisti... questo mi diceva e a me pareva di diventar matta. Nina, diceva, questa è la guerra e nessuno può tirarsi indietro, non è un tavolo di bridge che ti alzi e tante scuse... ci sei e giochi fino alla fine. Un gioco, sì! E invece ho visto tutto... le bombe, i nazisti, i treni blindati... i morti... tutti quelli che non sono tornati... Non so neanch'io come può essere che adesso sono viva, e ne parlo così... è successo tutto e sembra che non sia successo niente..."
Per un lungo istante interruppe il suo racconto, fissò la fiamma delle candele come l'avesse presa un'improvvisa assenza. Avrei voluto dirle che anche per me era la stessa cosa: anch'io, quando parlavo della guerra, provavo la sensazione che non fosse mai accaduta... può essere mai che il passato, alla lunga, si trasformi in un sogno? E avrei anche voluto parlarle del mio privato debito di guerra che sentivo di dover saldare con qualcosa o con qualcuno, anche se non capivo nulla di preciso ed era solo una sensazione sottopelle...
E avrei anche voluto prenderle le mani, e stringerle nelle mie, richiamarla dal pozzo della memoria, dalle spine dei ricordi...
Non ne ebbi il coraggio: mi sentivo un cieco dentro una cristalleria, paralizzato dal terrore di distruggere tutto anche col respiro.
Qual era l'anello che legava così tragicamente la malinconica bellezza di Anna alla dolorosa devastazione di Pinta? E si poteva sospettare la plausibile esistenza di un tale legame?
"La sto annoiando... e mi sto approfittando troppo della sua cortesia... ma non ho mai occasione di parlare con qualcuno... Adriano non vuole che io parli di lui... di lui com'era... Vuole essere conosciuto così com'è adesso, come un relitto, una cosa inutile..."
La voce s'incrinò in un singhiozzo soffocato...
"Madame, se ricordare le fa del male, io non vorrei essere la causa di..."
"Non lo pensi nemmeno un istante... Venga, le faccio vedere qualcosa..."
Fu lei a prendermi per mano, a guidarmi con dolcezza dentro un tenebroso labirinto di stanze e corridoi.
Volle mostrarmi il guardaroba di Pinta e davvero in vita mia non avevo mai visto nulla di simile. Una vasta stanza quadrata, soffittatura aurea a cassettoni, e i muri erano porte di cedro laccate d'avorio. Anna le aprì una dopo l'altra come sipari di palcoscenico. Per uno solo di quei vestiti non mi sarebbe bastato un mese di stipendio.
Da viaggio, da passeggio, da cerimonia, da mattina, da pomeriggio... camicie, cravatte, sciarpe... un trionfo di lana e di seta inglesi... Anna accarezzava tutto, orgogliosa di quella ricchezza e compiaciuta del mio muto stupore; consumava carezze d'amore su quei vestiti e io pensavo che una briciola sola di quell'amore mi sarebbe bastata per vivere in estasi tutta la vita.
Mi mostrò il ritratto di nozze... vede come è bello Adriano? Anche alla fine della guerra era bello così, e forte... come se non fosse successo nulla...
Mi tornò alla mente l'immagine di Pinta, gonfio di vino e di dolore, buttato sul divano, sepolto dal suo rozzo cappotto di guerra.
Richiuse gli armadi, lentamente, accarezzando le ante, come stesse rimboccando le coperte a un bambino; mi accompagnò nella mia stanza e si congedò, scusandosi ancora, dandomi la buonanotte con un sorriso.
Quando mi buttai sul letto, l'alba filtrava già dalle fessure delle controfinestre. Il motore di una lancia fece tremare i vetri.
E nonostante volessi ancora pensare e cercare di capire, mi vinse un sonno profondo.
Quando a Philadelphia parli di Venezia, sai subito cosa sta passando nella testa di chi ascolta.
Lì non sanno nulla di ostarie e di muri gonfi di umidità e abbandono, loro pensano solo a gondole e sospiri, a cristalli e merletti.
La stanza in cui mi risvegliai, ecco, una stanza così sarebbe subito venuta in mente ai miei amici di Philadelphia: con i broccati al posto giusto, e le calle di vetro dorato e alabastrino che scendevano pigre come magiche liane dai cassettoni intarsiati del soffitto.
Quella era la Venezia vera, l'unica possibile.
Ai miei amici non sarei mai riuscito a spiegare quella sensazione di smarrimento totale che mi prese quando mi trovai, solo, perso nelle rincorse di sale e corridoi, alla ricerca di qualcuno.
Nelle mie stanzette sopra i tetti, il silenzio era silenzio. E nient'altro. Dentro quel palazzo, troppo grande e troppo deserto, il silenzio pesava addosso come un sudario, una veglia funebre, un persistente fiato di morte.
Non riconoscevo i luoghi che la precedente notte avevo percorso solo alla fioca luce di due candele, tanto che mi parve d'essere passato dal sogno all'incubo saltando il tempo del risveglio.
Forse avevo sognato tutto: anche la figura di Anna, nello sforzo del ricordo, m'apparve come un diafano brandello di memorie notturne.
Se ritrovo la cucina, mi dissi, sono salvo. Ci sarà un cuoco, un domestico che...
"Stai cercando di scappare 'mericano?"
Alle mie spalle Pinta era sbucato da una porta e s'era appoggiato al muro, le mani in tasca, immobile, a spiarmi chissà da quanto tempo.
Stava eretto, con le spalle alte, dentro un maglione sformato e logoro, e davvero mi sembrò più imponente: qualcosa della dignità del doge era riaffiorata in lui. Sarà la sbornia smaltita, pensai. Certo che superava la mia testa di una buona spanna.
E' buffo, ma l'unica cosa che mi mise in difficoltà fu l'accorgermi di non sapere più come chiamarlo. Pinta? Signor conte? Signor G***? Mi venne in mente un'unica battuta... io non mi chiamo 'mericano... Io sono George... George Withe...
"Ah sì? E io sono Pinta..."
Ecco, pensai, il conte G*** quando è lucido legge nei pensieri della gente...
"E così ti chiami Giorgio... come il Vasari. Lo vedi che sei il mio uomo? Ieri sera volevi parlare di rughe... vieni che ti porto nel posto adatto..."
Un attimo prima avrei voluto fuggire. Ora lo seguivo docilmente, senza fiatare. E non era educazione. Nemmeno curiosità. Lo seguii con la caparbia e orgogliosa rassegnazione di chi sa che sta andando incontro al suo destino.
Mi portò in alto, in alto.
In un sottotetto che sembrava una piazza, sotto un lucernario che filtrava la luce bianca di un cielo gonfio di neve.
"Entra e varda."
Così mi disse, entra e varda. Non aggiunse altro e si buttò a sedere in un angolo, tracannando il contenuto di un bicchiere abbandonato.
Ho capito, mi dissi, Pinta non è diverso dagli altri. Vanitoso come tutti i pittori, mi ha portato a guardare i suoi quadri... e vuole complimenti e ammirazione... Una pugnalata di amara delusione mi aveva colpito alla schiena e sentii una smorfia di disgusto storcermi le labbra.
Iniziai la visita con l'aria compunta e annoiata del critico d'arte, costretto a fare il suo lavoro quando vorrebbe fare tutt'altro.
Il primo quadro, il secondo, il terzo... liberai una dopo l'altra decine di tele accatastate... aprii cartelle di ogni misura, zeppe di guazze tempere acquerelli carboncini pastelli cere gessetti sanguigne... In una seconda stanza, sopra un tavolo enorme, trovai cataste di bozze e di disegni, sotto il tavolo e contro le pareti altre pile infinite di tele.
M'accorsi d'avere preso un ritmo delirante e affannato... rivoltavo oli e fogli e album con lo stesso folle e disperato zampettare della mosca catturata da un bicchiere...
Quando decisi di fermarmi, rivolsi a Pinta uno sguardo da naufrago atterrito: lui stava lì a guardarmi dentro un silenzio pieno di sfida e d'ironia.
"Te l'avevo detto, ' mericano! Io non sono un pittore."
Non abbassai la guardia. Afferrai una sedia e mi ci misi a cavallo, davanti a lui, con le braccia conserte appoggiate allo schienale. Incrociai il mio sguardo con il suo, e non mollai la presa.
"Cos'è?"
"Cos'è, 'mericano? Mi chiedi cos'è? CHI E'... vorrai dire..."
"Va bene Pinta. CHI è?"
"E' la donna! La MIA donna, la donna di tutta la vita e di tutti i desideri... la Stefania, la mia corona di spine... Tu non l'hai mai avuta una donna così, 'mericano?"
Pensai subito ad Anna. Alla bella, diafana, appassita Anna... che accarezzava i suoi vestiti e stringeva al petto il suo ritratto.
Mi morsi le labbra, per non parlare.
Lui si alzò, aprì un'antina, tirò fuori un fiasco e due bicchieri.
"Serviti, 'mericano..."
Bevve avidamente, come l'avevo visto fare all'ostaria. Poi si fermò davanti a un quadro, uno dei ritratti di Stefania. Erano TUTTI ritratti di Stefania.
In questo poteva avere sì e no sedici anni; rideva, con occhi neri, sotto una cascata di capelli neri, abbracciando anemoni e narcisi.
"Vedi com'è la giovinezza, 'mericano? Le braccia colme di fiori, gli occhi che guardano avanti... E' un profumo caldo, la voglia di correre in discesa... ci si sente sorretti dall'aria, e del rischio di cadere non si sa nulla, nulla."
Si versò da bere, alla ricerca d'altro sollievo e d'altre parole.
"La Stefania è l'unica donna che mi ha detto NO. L'unica. Che io ci fossi o non ci fossi, per lei era indifferente. Io avrei potuto divorare tutte le pietre sulle quali posava i piedi. Me l'avesse chiesto, l'avrei fatto. Per un sì, mi sarei trascinato in ginocchio per i ponti di tutta Venezia, avrei contato ogni tessera di S.Marco, avrei lavato con la lingua tutte le merde dei colombi... Me l'avesse chiesto, l'avrei fatto...
Tu dirai, 'mericano, perché ero giovane. E i giovani innamorati sono tutti scemi. O pazzi.
Me lo chiedesse ORA. Farei ancora tutto, moltiplicato per mille. E poi ancora per mille..."
Si versò da bere e bevve d'un fiato.
"Cos'è la vita, 'mericano? Guarda me, che l'ho disfatta giorno per giorno, smontata e distrutta come si rompono i giocattoli per vedere come sono fatti dentro... E dentro, cosa c'è dentro la vita? Io non sono buono con le parole... loro non sono state buone con me. Ho imparato a mie spese che l'Amore è come il nome di Dio... non lo si può pronunciare. A parlarlo, l'Amore, si diventa ridicoli, lui ci sta stretto dentro le nostre sillabe, si vendica, ci risputa in faccia la saliva sprecata...
Guarda me... ho parlato l'Amore una sola volta... per quell'unica volta io sono morto. Condannato a sopravvivere cercando l'elemosina ai fantasmi...
La donna che non ho mai posseduto né sfiorato... lei è l'unica cosa ferma della mia vita, la sola cosa da salvare... Non c'è un giorno che si sia salvato dal desiderio di lei...
Sono tutti qui, li vedi? E' cresciuta con me, è invecchiata con me, un sogno dopo l'altro, un mese dopo l'altro...
Vieni a vedere... le sto finendo il ritratto per il suo compleanno... compirà fra poco quarantasei anni..."
Quel quadro non l'avevo nemmeno intravisto, stava su un cavalletto, coperto da un lenzuolo strappato... Pinta sollevò la stoffa...
"Lo vedi com'è invecchiata anche lei? Per ogni compleanno le ho sempre fatto un ritratto speciale... ma il tempo è assassino con tutti... è così che ho imparato a capire le rughe... Non sono come le disegni tu..."
"Sarebbe a dire?"
"Sarebbe a dire che tu ti accontenti delle grinze della pelle, di quelle fosse che il tempo deposita in mezzo alla fronte e ai lati degli occhi e che in accademia v'insegnano a tracciare nei posti giusti, sempre quelli... le grinze sono grinze, e le rughe sono rughe. La ruga vera non conosce geometrie, la ruga è una smorfia della vita e va dove pare a lei, dentro gli occhi, nella gola, fra le dita delle mani... non è facile, sai. Bisogna SAPERLA bene una persona..."
Afferrò un'altra volta fiasco e bicchiere e si buttò a sedere, come se non avesse più voglia di parlare.
Di parlare di Stefania, credo.
E anch'io non trovai di meglio che cedere al silenzio.
Dopo tre bicchieri Pinta ritrovò un barlume di lucidità.
"'Mericano, mi resta poco tempo e non posso lasciare niente in disordine... Tu sei proprio il tipo che fa per me... Ti pagherò bene..."
Da quella casa uscii con un regolare contratto di lavoro e con la copia delle chiavi del palazzo.
Ero diventato il catalogatore ufficiale di Pinta. Nemmeno le sferzate di vento gelido riuscirono a riportarmi a un livello dignitoso di realtà. Aveva preteso l'inventario completo delle opere e io, senza pensarci due volte, avevo accettato.
E un secondo dopo mi sarei preso a sberle.
Ancora adesso non so spiegarmi il perché. Certo, ero stato colpito dai lavori di Pinta.
Pinta non era un madonnaro. E niente lì dentro poteva far pensare all'improvvisazione patetica del dilettante. A essere sincero, erano opere così perfette che provai vergogna di me stesso e dei miei poveri carboni. Pinta era quello che si dice... una mano magica.
Anzi, molto di più: pareva che decine di pittori diversi avessero giocato a misurarsi con un unico soggetto. Dal rinascimento al cubismo, non mancava all'appello nessuna esplorazione descrittiva; ogni avventura formale era stata tentata, consumata, archiviata o ridefinita.
I mille volti di Stefania erano la rappresentazione di una vitalità totale, esclusiva; un po' come quegli eroi da romanzo che hanno ben appreso l'arte di non negarsi nulla ed equamente si saziano di dannazione e di santità.
Me ne feci una maggior convinzione durante i mesi successivi, quando mi trovai in solitudine a classificare, datare, catalogare quell'incredibile produzione.
Mi annoierò a morte, avevo pensato, sempre la stessa faccia... ma mi sbagliavo. Come sempre, mi sbagliavo.
"Sta' attento, 'mericano! - Mi aveva detto Pinta - Da te voglio una cosa seria, molto seria... Non scrivermi guazza 15x30 o olio 50x70... questo lo sa fare anche uno scemo...
Ogni lavoro deve avere un titolo, uno diverso dall'altro... perché questa è Vita, vita che scorre e diviene, capisci 'mericano? Vita che non sta mai ferma: c'è dentro il mio fiato e i miei nervi, e la pelle tagliata dai colori e il mio sangue avvelenato... e ogni frammento, anche il più piccolo, ha il diritto d'essere battezzato..."
Passai giorni e notti a battezzare i frammenti di Pinta, e mi ero anche abituato a lavorare alla luce delle candele. Non so perché, ma in quella casa usava così. Poi riuscii a trovare la mia personale giustificazione: la luce dei doppieri impediva la sindrome da smarrimento. Illuminati a giorno, quei saloni d'oro e di vetro aggredivano e schiacciavano, riducevano all'impotenza; le candele, invece, come le piccole magie di Alice, riportavano il tutto a grandezze più umanamente sopportabili.
Ogni volta che accendevo i miei doppieri, su, nella mansarda di Pinta, rivedevo Anna come mi era apparsa la prima volta.
Da quella sera non l'avevo più rivista: E questo era una spina. Io so, non so in quale parte di me sia riposta tale certezza, ma io so che non rifiutai l'offerta di Pinta perché stavo pensando ad Anna.
Ogni volta che infilavo la chiave mi dicevo... ora la vedo... mi verrà incontro... ci ritaglieremo ancora un pezzo di relitto all'angolo di un tavolo... e questa volta troverò il coraggio di prenderle le mani... ma niente. Anna era come scomparsa, chissà in quale curva del labirinto, in quale sottoscala...
Più i giorni passavano e più mi convincevo che quella era una casa di fantasmi. Pinta appariva e spariva, Anna non s'era più fatta vedere, e in mansarda mi aspettavano sempre vassoi colmi di cose buone, e ottimo prosecco e whisky a volontà, ma non avevo mai visto l'ombra di un domestico.
Come in un romanzo gotico, mi dicevo... poi arriveranno le streghe, i vampiri, gli elfi e i folletti, e io, io credo di essere ancora vivo e lucido, ma sono stregato, stregato...
Per salvarmi dalle ombre sottili del disagio, mi facevo soccorrere da pensieri americani, ricchi di poco sale, ma di tanto buon senso.
Una sana donna americana - riflettevo - non si sarebbe mai ridotta a vivere come Anna. Un divorzio sarebbe stata la soluzione plausibile. Lo so, l'Italia del '58 non era divorzista, ma donne della sua classe avrebbero senz'altro saputo aggirare l'ostacolo.
Specialmente davanti a certi ritratti di Stefania, io stesso mi immaginavo donna innamorata in competizione con questo strano tipo di rivale: pura forma, puro colore... dove avrei potuto graffiare, affondare le unghie se avessi voluto strapparle la carne, prendermi la mia giusta dose di vendetta?
Mi chiedevo se Anna fosse mai entrata in quella mansarda, se avesse mai visto certi ritratti...
Stefania che si offre... o che si è già offerta... dentro di me battezzavo così certe nudità scomposte, abbandonate, esaudite o desideranti... che vibravano bene sulle tele di Pinta. Vibravano sì, perché se non avessero così sapientemente suggerito il rito dell'amore, io, davanti a quei quadri, non mi sarei entusiasmato.
Uno, in particolare. Lo trovai e poi lo piazzai davanti al mio tavolo di lavoro, come una sorta di nume tutelare, di divina protezione contro l'orgoglio colpevole delle illusioni, e a totale favore della primitiva innocenza della carne.
Stefania nuda, riversa sul letto a pancia in giù, nascondeva il volto con un ventaglio come fosse uno chador, esaltando uno sguardo che brillava di malizia e prendendosi gioco dell'amante, o in ogni caso di chiunque la stesse guardando in quel momento...
L'avevo battezzato Donna con ventaglio, ben sapendo che qualsiasi individuo di sesso maschile, sano nella mente e nel corpo, si sarebbe limitato ad affondare gli occhi sulle curve dei fianchi, sulle morbide rotondità indifese e offerte dei glutei, completamente appagandosi di questa sola bellezza e schiettamente infischiandosene del ventaglio.
Perché parlo di tutto questo? Di queste stupide inezie e vanterie?
La verità è che solo molto più tardi ho compreso che c'è una cosa buona da fare nella vita: quella di alzarsi la mattina e subito chiedere perdono - a qualcosa o a qualcuno - della propria mediocrità.
Parlo per me, ovviamente. Che ancora non sono sicuro di possedere le parole giuste con cui continuare a raccontarla questa storia. E che a volte mi rifiuto anche di credere che questa storia sia capitata proprio a me, mediocre e indegno spettatore.
Buono solo a catalogare quadri, coltivando l'ambizione folle di comprenderli.
Mi vergogno, ora mi vergogno di certi pensieri che ebbi l'ardire di tramare durante il mio lavoro.
Immaginavo che un giorno mi sarei trovato davanti a Stefania, in quella città che è fatta solo di sciamare continuo di gente. L'avrei riconosciuta in mezzo alla folla della Piazza, o sotto l'ombra furtiva di un portego o dentro l'alba grigia di un campiello. L'avrei fermata, allora. Assalita. Immaginavo d'afferrarle il braccio, e di trascinarla là nella mansarda e di rivelarle all'improvviso tutta la crudeltà di quel segreto... sarei stato l'Angelo dello Sterminio e della Giustizia...
E' sempre a questo punto che penso sia doveroso chiedere perdono della mia mediocrità.
Di tutto il mio grossolano candore americano, come avrebbe detto Pinta.
Fu un pomeriggio di marzo.
Scrosci d'acqua violenti investivano le vetrate del lucernario e si sentivano i fischi sempre più insistenti dei vaporetti.
Dentro temporali così non si lavora più, ci si ferma a guardare, ad ascoltare... temevo che i vetri non tenessero... mi vedevo già affogato con tutti i quadri... Spiavo il soffitto, il mio respiro e il fumo della sigaretta... mi accorsi di Anna quando già mi stava davanti chiedendomi scusa... non vorrei disturbarla, ma sono in ansia... Adriano è uscito ieri mattina e non è ancora tornato... non so cosa pensare... ho tanta paura che...
Non finì la frase e il suo viso pallido, gli occhi lucidi, spiegavano molto più delle parole.
"Mi dica quello che posso fare... se vuole vado a cercarlo... si sarà riparato in un bar, in una casa di amici... piove a dirotto da ieri..."
E, mentre parlavo, percepivo tutta la vuota banalità del mio discorso...
Era arrivato il momento del naufragio, l'avevo anche desiderato, ed ora ero solo capace di balbettare e di tremare.
La pena di Anna mi annientava: non sarei mai stato così coraggioso da prenderle le mani...
"Ma che dice? Uscire con questo acquazzone! E' che se sto con qualcuno, forse riesco a calmarmi e il tempo mi passa più in fretta... Tante volte mi agito per nulla... e poi Adriano torna... Ha visto come sono belli i quadri di Adriano? Quando lei non c'era ancora, e io mi trovavo sola ad aspettarlo, salivo sempre qui a guardarli... e mi sentivo più tranquilla... Se c'è un quadro cominciato vuol dire che lui torna... Adriano è fatto così, vuole sempre finire... non lascia mai niente a metà... Ma sa che lei ha fatto una vera rivoluzione? Sono tutti cambiati di posto..."
"Ho dovuto... per il catalogo... cioè per sistemarli..."
Il mio naufragio, il mio privato naufragio era cominciato.
Anna SAPEVA. I mille occhi neri di Stefania rimbalzavano contro i suoi, azzurri, e lei ammirava in ciascun ritratto la sua rivale, estasiata; accarezzava le tele con innamorata devozione, lentamente e con gesti deboli, con il timore di consumarle...
"Sono due mesi che non vengo quassù... i colori sono più... dica la verità: li ha anche spolverati? E pensare che Adriano era così geloso... non li aveva mai fatti vedere a nessuno... solo a me... Appena ne finisce uno vuole il mio parere, e mi porta quassù a festeggiare... Ma questo del ventaglio non era qui, stava nell'altra stanza..."
"Lo rimetto subito al suo posto... l'ho catalogato ieri..."
Tutto il mio ridicolo imbarazzo stava lì davanti a lei, e mi sentivo nudo e disarmato. Completamente mi arresi quando indovinai un lieve sorriso di compatimento aprirsi sulle sue labbra... Ma lei non sa nulla di Stefania?
Restai a guardarla in silenzio, e quella fu tutta la mia risposta.
"Oh George, ma questo vuol dire che lei... che lei ha trascorso qui tre mesi interi riordinando ritratti senza sapere nemmeno...
Avrei dovuto immaginarlo. Adriano non racconta... o, perlomeno, racconta solo quello che lui vede come vero... o forse solo quello che gli è meno doloroso ricordare. Ma poi come si fa a capire con quali occhi sanno guardare gli artisti?
Io me la ricordo bene la Stefania... è proprio così, con questi capelli neri neri e questi occhi... tanto diversa da me, vero? Adriano dice che siamo il caffè col mistrà... scusi, lei non capisce... come l'anice e il caffè... Aveva quasi l'età di Adriano, credo..."
"Aveva...?"
"Non è più tornata. L'hanno portata via e non è più tornata... da Dachau... Stefania era ebrea... Oh George, anche lei ha visto la guerra, ma come si fa a capire una cosa così... come si fa?
Tutti quegli anni di guerra trascorsi accanto a lui, e l'avevo visto diventare... grande, imponente. Le mani s'erano fatte più forti, le spalle più larghe... e questo mi faceva paura. Affrontava i nazisti a viso aperto e neanche si sognava di nascondere tutto il suo disprezzo... vanno guardati dall'alto al basso, come si fa coi vermi... Così diceva.
Li corrompeva, li piegava, li dominava... e non gli ho visto mai... mai un'ombra di cedimento nei suoi occhi, mai un dubbio, un'apprensione... tutte le paure le lasciava a me. Poi la guerra è finita e siamo tornati qui... si fa presto a dire finita...
Una mattina è entrato in camera, bianco come un morto... curvo come un vecchio. Mi dice... la Stefania non torna più... solo questo mi dice. E' così che ci è crollato addosso tutto il mondo... quando era tutto finito... Abbiamo cominciato a piangere, tutta la mattina abbiamo pianto insieme... di un solo dolore e di tutti gli altri che l'avevano preceduto.
Avevo sempre pianto di nascosto per non rendergli più difficile quello che faceva... e lui aveva distrutto un patrimonio senza mai versare una lacrima, sempre determinato e con gli occhi asciutti, come fosse un atto dovuto e nient'altro.
Anche quando è arrivata la fine e abbiamo saputo di essere salvi, anche in quel momento non eravamo stati capaci di piangere. Non era servito a niente, a niente... hanno vinto i vermi, diceva, i vermi mi mangiano il cuore... Abbiamo pianto per ore, e anche questo non è servito a niente. Cos'è la rassegnazione, George? Come si fa a trovarla?"
Nella stanza buia, l'acqua che scorreva sul lucernario avvolgeva di ombre inquiete il corpo di Anna abbandonato sulla poltrona di Pinta, di onde lunghe, come fosse diventata lei stessa di vetro e di acqua.
Mi alzai, m'inginocchiai davanti a lei, le presi le mani, le coprii di baci.
Il coraggio mi era piovuto addosso con violenta naturalezza, come le lacrime che le stavano bagnando il viso, come il cielo che stava piovendo sulla città.
"Lei deve essere magico, George. Se Adriano l'ha scelta per questo lavoro, lei deve avere una qualche magia. Per questo mi sento di raccontarle cose che nessun altro prima di lei ha mai ascoltato."
"Non mi sopravvaluti. Il conte dice che sono solo un americano candido e grossolano e penso che abbia mille buone ragioni per sostenerlo..."
"L'ha scelta perché sa che lei è in grado di capirla questa storia, ne sono certa. E' solo una storia d'amore, sa, come ne capitano tante. Solo che stavolta l'amore, forse è un po' più disperato. No, mi sbaglio. Non è stata solo disperazione; forse non l'hanno ancora inventata la parola capace di spiegare. Oh George, si guardi attorno! Lo vede anche lei che tutto questo non può essere solo disperazione... E' una lotta contro i Giganti, è la pretesa sovrumana di voler tener testa alla morte, la volontà tirannica di continuare ad esistere, nonostante tutto.
Anche a dirle queste cose, mi sento tremare dentro, come stessi sfiorando il confine del sacrilegio; ma sono le ragioni di Adriano... se si varca la soglia dell'inferno, se si scardina il confine della morte, solo allora si può dire con certezza che è amore...
Non mi ha mai nascosto nulla... che fosse innamorato di Stefania non me l'ha mai nascosto, fin dal primo giorno... se mi vuoi sposare, devi sposarmi tutto intero, così mi disse... devi sposare anche l'amore che provo per un'altra donna. E mi sembrò una richiesta più che ragionevole..."
"Molte donne si sarebbero sentite insultate..."
"Oh George, lei sta fingendo un'ipocrisia che non le appartiene. Ero molto giovane e le mentirei se le dicessi che non provai neanche un attimo di smarrimento... ma una cosa è certa: capivo, confusamente, ma CAPIVO che Adriano aveva ragione. Le persone normali vogliono conservare per la vita dei piccoli grandi segreti, zone d'ombra, nascondigli, dove poter rifugiarsi ogni tanto, forse soltanto per compiangersi, per leccarsi le ferite... ma Adriano non può abbassarsi a questi trucchi patetici. Mi ha fatto capire che regalandomi i suoi segreti lui non mi avrebbe mai tagliata fuori dalla sua vita. Mi ha regalato gli occhi della sua anima, forse di più. Mi ha invitato a vivere dentro la sua anima... davvero ci sarebbero donne capaci di rifiutare una tale offerta?
Anche se sono passati più di vent'anni, a volte rivivo quei momenti con maggior precisione del tempo presente... lo rivedo mentre mi dice... non ce la faccio più a tenermi dentro tutto questo amore, è troppo... qualcuno deve prenderselo, o ne morirò..."
"Lei vuole dire che non ha mai... che non è mai stata..."
"... gelosa di Stefania? Adriano non me ne ha dato mai il tempo... E poi lui dice che nessuno è così ricco da poter permettersi il lusso di disfarsi di un amore. C'è un particolare tipo di amore che non tutti hanno il bene di conoscere, e quei pochi che hanno il privilegio di esserne visitati sanno - da subito - che non ci potrà mai essere nella vita una seconda occasione.
Quando Adriano me ne parlava, credevo che stesse parlando di una specie di malattia, di un'ossessione... la vedevo come una sofferenza lunga, un desiderio doloroso, una ferita che non si rimargina. Nei primi tempi mi dicevo... se sono queste le cose che prova, come posso fare per guarirlo?
Un po' alla volta mi resi conto invece che solo un pazzo può desiderare di guarire da un amore così. Compresi che l'energia di Adriano, la sua furiosa vitalità, la sua instancabile inquietudine... la voglia continua di creare senza fermarsi mai... tutto questo gli era permesso solo in grazia di quell'amore.
Lui la chiama... una inesauribile riserva di follia e di desiderio...
Un giorno qualsiasi, senza preavviso, arriva un piccolo dio e te la lascia nelle mani: è energia allo stato puro. Come si fa a fermare un ciclone, mi diceva. Come si fa a guarire un vulcano? Deve esplodere, sai. Deve continuare ad esplodere...
No, non mi ha mai lasciato il tempo di essere gelosa di Stefania, anche se non ho mai avuto il coraggio di chiedermi di quale amore Adriano mi abbia amata. Io non sono l'eredità di un piccolo dio, questo lo so bene, ma è stato amore comunque. Ogni giorno trascorso con lui, è stato amore. Come ha fatto a non accorgersene, George?"
Accompagnò le parole con un largo gesto della mano, abbracciando con uno sguardo tutta la stanza e i ritratti...
"Davvero non riesce a vedere? Certe mattine mi portava la colazione a letto, mi viziava, faceva l'amore con me per continuare a viziarmi... mi portava regali piccoli e grandi... quello per esempio è un ventaglio del Settecento... lo conservo ancora... Quella mattina era particolarmente allegro... Mi disse, Nina, dammi un capriccio, su, regalami uno scherzo...
A volte mi chiedeva un colore... Vede il ritratto col glicine e la mia camicetta lilla... se lei guarda bene George, sotto le pennellate s'intravedono dei petali di glicine... li avevamo raccolti insieme... è stato nella primavera del '43, lo ricordo bene...
E quest'altro, sul terrazzo, con tutta la biancheria stesa. Quel mattino mi aveva detto... dai Nina, regalami il vento, il vento più bello e più bianco del mondo... Era giorno di bucato e si divertì a impastare i colori con la crema di sapone...
Qui invece è una sera davanti al camino, e forse avevamo bevuto troppo... dammi una luce d'oro, mi disse, una luce bizantina... e impastò il colore col miele e col cognac che avevo nel bicchiere...
Adriano non è stato onesto con lei se non le ha rivelato che molti suoi lavori sono fatti con strane cose... Negli acquerelli ha usato di tutto, tranne che acqua di rubinetto... grappa, vino, i miei profumi, le tisane che gli portava la Jole nello studio e che lui non beveva mai... e l'acqua piovana e quella dei canali... gli ultimi li ha dipinti con la neve che ha raccolto sotto la casa di Stefania... Povero George, se le raccontassi la storia di ogni quadro, non mi basterebbe un anno..."
Pinta me l'aveva detto... bisogna SAPERLA bene una persona... e non stava parlando di Stefania.
Era Anna dunque che gli aveva prestato tutti i suoi risvegli, le sue giornate, il dipanarsi degli anni e il farsi delle rughe, le smorfie della vita, i mille passaggi del tempo e della trasformazione... Anna, Anna e solo Anna, in ogni quadro, in tutti i ritratti, la sua anima offerta a un altro volto...
Seduto sul pavimento accanto alla poltrona rimasta vuota, la guardavo muoversi nella stanza mentre trascorreva da una tela all'altra usando i gesti e i movimenti ora lenti ora scostanti della memoria... la guardavo come chi sa che sta assistendo a un miracolo, ma non riesce a capirlo.
"Ha trovato anche questo, George! Non lo vedevo più da molti anni... è bello, vero?"
"Credo... credo che sia uno dei più belli in assoluto..."
L'avevo interrogato giornate intere, poi mi ero arreso e lo avevo archiviato come Tecnica Mista. Aveva l'aspetto di un affresco scrostato del Trecento, era una monocromia sanguigna e la rugosità era compatta e spessa come quella di un muro, ma era una tela. In primo piano una giovane donna (o malinconica o stanca) - la Stefania dai capelli neri - reclinava la testa appoggiando la fronte sulla mano sinistra, nascondendo gli occhi. Ricordo di aver esplorato tante possibilità: era un quadro fatto di silenzio, ma quel silenzio aveva bisogno di un nome.
Poi mi ricordai di mia madre, quando aspettava papà che per motivi di lavoro rincasava a orari impossibili. Si sedeva sul tavolo della cucina e aspettava, aspettava nascondendo la fronte e gli occhi nella mano...
"Gli ha già dato un titolo, George?"
"L'Attesa..."
"Lo vede che non mi sbagliavo? Lei è magico..."
"Non lo dica, Anna. Non so nemmeno come sia fatto questo quadro... la tecnica è quella dell'affresco, ma non basta. C'è qualcosa di più che non riuscirò mai a capire..."
"E' successo una mattina... eravamo ancora in guerra... Forse tutte le mie paure si diedero appuntamento in un unico istante e... e persi il controllo... Fu un litigio tremendo, ci siamo urlati delle cose terribili, violente... non avrei mai pensato di poter arrivare a tanto...
Poi Adriano è sparito, per due settimane. E' sparito, e io credevo d'averlo perso per sempre. Ho aspettato e ho pianto, per due settimane. Infine una mattina è entrato in camera mia, portandomi la colazione, come se non fosse accaduto nulla. La tazza del caffè, l'aveva appoggiata su questo quadro... Mi ha detto soltanto... ho usato tutta la vecchia ruggine che sono riuscito a trovare... ora non ce n'è più un grammo in tutta la casa...
Adesso capisce com'è fatto Adriano? Sa perché lui dice spesso che non è un pittore?
"L'ha detto anche a me e sinceramente mi risulta difficile dargli ragione... a me pare un GRANDE pittore..."
"Lui dice che la maggior parte dei pittori dipinge per rappresentare l'evento; alcuni, pochi, i più coraggiosi, per interpretarlo... io voglio dominarlo e deviarlo... Così dice, e questo mi spaventa, perché so che è vero. Io so quanto lui sia stato capace di dominarmi e di trasformarmi... E ho paura per lei, George... potrebbe capitare anche a lei di..."
Arrivò dall'atrio il tonfo sordo del portone e s'avvertì la presenza di Pinta.
Anna fermò di colpo i suoi occhi e rimase immobile come un gatto allarmato.
"Non credo stia male... sente come sale svelto le scale..."
E parlò in un soffio, più rivolta a se stessa che a me, poi sparì veloce come la luce di un lampo.
Le sirene lunghe dei vaporetti crepavano il silenzio.
Fuori mi aspettava una serata di marzo arrabbiato. Un vento forte di bora si era alzato a slabbrare le nubi e a risucchiare l'acqua; le gondole sbattevano alte sulle banchine impennando i pettini come musi di cavalli imbizzarriti, era un vento che tagliava la pelle e la gente scappava dalle rive e dalle calli larghe, buttandosi per callette strette, più intricate forse, ma meglio riparate.
Ecco cos'è il labirinto! Al primo alzarsi della bora diventa il riparo il rifugio la consolazione.
Al primo sospetto del pericolo chiediamo pietà al nostro stesso smarrimento, e subito s'impara a convivere con le mille biforcazioni che tagliano il cuore.
E la fuga diventa un punto fermo, il volo s'innamora della terra, il carcere si trasforma in nido, il male in bene...
Il mio filo d'Arianna cominciava a dipanarsi incontrando per la prima volta quella Città creata dall'arcana sapienza dell'alchimia.
Ogni volta che si supera un ponte, un po' si muore e un po' si rinasce... cos' mi aveva detto Pinta, e avevo pensato che fosse solo ubriaco.
Stavo imparando a mie spese che smarrirsi e trovarsi possono essere l'unico gesto da consumarsi in un attimo.
Anche a me Pinta non aveva mai nascosto nulla: fin dalla prima sera me l'aveva detto che il mio errore erano le linee troppo dritte, le demarcazioni troppo nette...
Infagottato nel mio montgomery, resistevo al vento, in Piazzetta, sotto la statua di S.Todaro.
Due operai che stavano montando le passerelle mi guardavano come si guardano i matti.
Non c'era niente di dritto, dentro l'aria impazzita, nel bacino che gonfiava, nei marmi ripartoriti dall'acqua che straziavano gli sforzi del vento... non c'era niente di dritto nei quadri di Pinta che avevano fuso la Vita e il Desiderio, il Sogno e la Realtà... e Anna era Stefania e Stefania era Anna e nessuna delle due era più creatura di questo mondo...
Si era consumata la trasformazione della Grande Opera.
Vecchi studi d'accademia mi restituivano il linguaggio oscuro degli alchimisti... liberarsi dal dolore della separazione, riunificare e far coincidere gli opposti, conquistare il Rebis, l'uovo filosofico, le due cose in una: l'essere nuovo creato dall'Arte e dallo Spirito, il corpo glorioso che sa svelare il Mistero: tutti si accordano in Uno che è diviso in Due... il mistero di Venezia, divisa e unita dentro l'acqua e la terra...
Una ventata più violenta mi strappò al delirio... Pinta era Pinta e basta. Soltanto uno che intingeva il pennello dentro il cognac della moglie... Per difendermi dal naufragio mi aggrappai alla convinzione più facile e meschina che mi passava per la mente.
Le campane cominciarono a darsi l'eco da un quartiere all'altro... si confondevano i rintocchi nel turbinare del vento... la salita dell'acqua era vicina.
Gliel'avrei chiesto. Alla prima occasione gli avrei chiesto qual era stato il percorso: per Istinto o per Alchimia?
Questa spiegazione mi era dovuta dopo tutto. Dove finiva il disordine della Vita, e dove cominciava l'ordine di un Pensiero misurato, distillato...
Ancora un confine?
Ancora un confine.
Non sarei mai uscito dal mio labirinto di linee dritte.
Due giorni dopo il pomeriggio di temporali e di bora, salì in mansarda. Perfettamente sobrio. In quei mesi avevo anche imparato che Pinta era uno strano tipo di alcolista. Se lavorava - e lavorava molto - non toccava una goccia, e il gesto della mano era sempre fermo e sicuro.
Già, pensai fra me con una punta di cattivo sarcasmo, lui è il tipo del dominatore, e non del dominato...
"Sai, George... - Fortuna che aveva quasi smesso di chiamarmi 'mericano, con tutta la divertita ironia che ci metteva! - Voglio fare un quadro. Un grande quadro. Ti lascio in libertà per un mese, così il tuo giornale ritrova il suo cronista..."
"Non ho mai smesso di inviare gli articoli..."
"Lo so. Hai grinta e farai strada..."
Incrociai il suo sguardo con aria di sfida.
"Anna è stata qui con me, un pomeriggio intero..."
"So anche questo. E allora?"
"Niente. Volevo solo che tu lo sapessi..."
Se ne andò in silenzio nell'altra stanza e sentii sbatacchiar di legni e tramestio di tavole. Stava posando su due cavalletti una tela di quasi due metri.
E io riconobbi che non avrei mai trovato il coraggio di chiedergli niente.
"Non hai più disegnato 'mericano?"
"No."
"Càpita, a volte. E' come un lungo sonno senza sogni. Ma poi finisce, e si scopre che si ha ancora qualcosa da dire... anche se non si sa bene cosa. Vedrai che passerà e tornerai a disegnare."
Mi alzai e andai a spiarlo mentre dava mano alla tela.
"Che ci farai con quella?"
"Un'opera incredibile! L'opera più grande che si possa immaginare..."
"La Grande Opera! Lo sai che è il linguaggio degli alchimisti?"
Pinta lasciò perdere la tela e finalmente si decise di guardarmi negli occhi... che ne sai tu dell'alchimia?
"Poco o niente... le quattro cose che si sentono in accademia..."
"E non hai mai voluto saperne qualcosa di più?"
"Tu ne sai qualcosa di più?"
(Ancora adesso non so spiegarmi chi dei due avesse preso in trappola l'altro.)
"Sai cos'è l'alchimia? C'é una strofetta medievale che dice...
Quest'arte è rara, lieve e breve: ed anche cara:
la cosa è una sola: uno solo il vaso, una cottura sola.
Così la candida moglie sia sposata al rosso marito.
Così si abbracciano, così anche concepiscono.
Mercurio distrugge tutto il Sole fogliato.
Lo abbatte, lo scioglie e l'anima dal corpo toglie.
Lo fa a pezzi, lo divide e lo sa comporre.
Ci capisci qualcosa, George?"
"Non ne sono certo; forse si tratta della ricerca dell'Uno... Separare e Ricomporre è il segreto della Grande Opera..."
"Il sogno degli artisti... Prendere in mano la massa informe del mondo e farne una sola cosa. Una, definitiva, ultima... e bella.
La massa informe è la Pietra, la pietra filosofale, la divina pietra che possiede tutti i nomi del mondo... massa, stirpe, saturnia prole...
La pietra è occulta e in profonda fonte sepolta.
Vile e pregiata, di fumo o sterco coperta.
Ora argento, ora oro, ora elemento
ora acqua ora vino ora sangue ora sperma
ora latte virgineo ora spuma di mare o aceto
ora nella puzzolente sentina stilla come urina
ora anche gemma di sale e ora mare purgato..."
Lo guardavo basito come se lo vedessi per la prima volta, ma lui mi svegliò con una risata... ti piacciono i versi dei Maestri medievali, George? Balle! Balle! Grandissime balle!
Andò a versarsi da bere...
"Te la dico io la verità alla faccia della prole saturnia! Le uniche pietre che contano veramente sono quelle che ci piovono addosso e che ci spaccano il cuore... e non hanno tutti i nomi del mondo... uno solo, un solo nome, basta e avanza... Il nome della Vita, George... e se la Vita ci fa a pezzi, si perde tutto e non si recupera più niente, e tutto il resto è falsità come le fiabe dei bambini... Il dolore della separazione! Vieni, vieni a vederlo..."
Mi prese per un braccio e di forza mi portò davanti alla Stefania dei Narcisi...
"Guardala bene... guardala com'era e pensa bene al diritto che aveva di vivere... Le avevo detto... basta! 'Sto mondo de merda ch'el vaga in malora... Avevo tutto pronto, anche i visti per l'America... e sarebbe ancora viva.... sai cosa m'ha risposto? Non voglio separarmi dalla mia gente...
Dì, non ti fa ridere una cosa così? Sarebbe stato un male, vero? Sarebbe stato male separarsi... male... malissimo..."
Trangugiò il bicchiere in un sorso.
"Sono stanco, George. Io sono stanco d'essere rimasto orfano di cose e di voci, sono stanco di riempire continuamente il registro delle perdite..."
Mi venne in mente la frase più ignobile e scontata... ma la vita continua, deve continuare...
"Bella frase 'mericano! Una bella frase dritta: dritta come l'indifferenza, come l'oblio...
Io non dimentico NIENTE, sono quasi sempre ubriaco, ma non dimentico niente... Se tu sei un tipo che dimentica facilmente, va' via da questa casa e non tornare più..."
Mi afferrò per il bavero della giacca... io ti ho fatto venire qui per farti vedere e per farti ricordare tutto, capisci? Che intenzioni hai 'mericano?
"Non credo che io mi possa scordare di te tanto facilmente..."
"Bravo, così mi piaci. E allora torna fra un mese. Voglio finire quel quadro..."
Afferrai l'impermeabile con un gesto offeso; non m'andava d'essere congedato in quel modo.
Mi fermò sulla porta... devo ringraziarti, George, hai fatto un ottimo lavoro... Vuoi sapere una cosa? Gli alchimisti cominciano la Grande Opera nell'equinozio di primavera... e domani è il ventuno di marzo...
A Venezia ci si accorge che è primavera quando le donne mettono i gerani sulle altane e sui davanzali. E quando dai canali comincia ad alzarsi un fiato caldo e quasi profumato, forse perché la frutta e la verdura arrivano più abbondanti, e nei mercati le donne si accalcano alle bancarelle con allegria.
Mi stavo gustando il mercato a Rialto, indovinando i colori della primavera dentro le triglie e le fragole, e gustando dalle finestre aperte gli odori delle cucine.
Quando mi fermarono, la prima cosa che mi venne in mente di dire fu quella di confermare che i miei documenti erano perfettamente in ordine...
"Mister Withe - risposero - ci segua per favore. Forse può aiutarci a capire..."
"Sappiamo che negli ultimi mesi lei è stato un assiduo frequentatore della casa..."
"Per motivi di lavoro..."
"Sappiamo anche questo... ma lei non ha proprio notato niente di strano?"
"Io non so nemmeno come sono andati i fatti..."
"La signora è passata dal sonno alla morte... un tubetto intero di pastiglie. Il Conte ha continuato a dipingere anche dopo la morte della moglie... Poi si è tagliato i polsi..."
"Potrei vedere il quadro?"
Gli occhi del maresciallo mi tagliarono in due, ma se la sbrigò con professionale freddezza... se ci serve un sopralluogo, non ci sono impedimenti...
Pinta aveva perfettamente calcolato i tempi. Era il venti di aprile quando i carabinieri e il giudice istruttore mi riportarono nella mansarda.
La tela stava sui due cavalletti, come l'aveva messa Pinta quel pomeriggio... Sotto il quadro la sagoma del suo corpo tracciata col gesso; sul tappeto le macchie di sangue c'erano ancora.
Di fronte, il divanetto sul quale era morta Anna, avvolta in un lungo scialle di seta.
Un sudore gelato mi prese le tempie e le mani, e mi buttai su una sedia per non cadere.
Da quel momento il maresciallo cominciò a nutrire maggiore stima nei miei confronti. Vedendomi sull'orlo di un collasso, mi lasciarono in pace, per un po', e continuarono a parlar tra di loro di testimoni e di circostanze.
Avrei voluto andare all'armadietto di Pinta, per buttar giù un sorso. Me lo vedevo davanti, nel gesto di sempre... serviti, 'mericano!
Non avrebbero approvato, i carabinieri.
Ma comunque, a modo loro, furono cortesi. Mi misero in mano la cartelletta delle foto, e poi mi voltarono le spalle, perché le guardassi quando mi fossi sentito meglio.
C'era poco da guardare. E da capire.
Sì, io sapevo. SAPEVO perfettamente com'era andata.
Un risveglio. Solo un risveglio identico a tutti gli altri che l'avevano preceduto.
Adriano che entra in camera di Anna e le porta la colazione e un regalo. Uno scialle antico, di seta superba, porpora e d'oro...
Anna non era venuta a raccontarmi il passato, quel pomeriggio: mi aveva solo voluto spiegare quello che sarebbe accaduto.
E così, non gli occhi della fantasia, ma quelli della memoria mi restituirono i fili del loro segreto. Il linguaggio cifrato dei gesti, gli istanti della muta richiesta, la rappresentazione del gioco consueto e ignoto della creazione.
Così li vidi, amarsi per l'ultima volta dentro la seta purpurea, presi dallo smarrimento dei sensi sospesi fra desiderio e ricordo.
Dall'alba bisbigliata del giorno veneziano sentii chiaramente levitare nell'aria l'ultimo sussurro... dammi la morte, Nina... dammi la morte più rossa e più bella del mondo...
Il quadro poi... il quadro che mi stava davanti tratteneva in sé tutta la verità che il giudice e il maresciallo non sapevano vedere. Non potevano vedere.
Quel corpo di donna, seminudo e dolcemente disteso nella più pura e composta immobilità della morte... la testa reclinata, la mano destra sul petto a trattenere le morbide pieghe, e il braccio sinistro abbandonato verso il pavimento... il livido pallore della morte che si staccava come un relitto dal rosso furente e solare che lo avvolgeva... così la candida moglie sia sposata al rosso marito...
La follia più atroce di Saturno aveva ucciso e distrutto. Concepito e composto.
Quel corpo di donna non possedeva più un nome... i capelli neri di Stefania erano cornice all'incarnato trasparente di Anna, alle efelidi leggere e diafane. Le labbra mi riportavano il doloroso sorriso di Pinta, la sua particolarissima piega amara che pretendeva sempre di concedersi all'ironia. Al pudore onesto della disperazione. Anche la mano che stringeva lo scialle era sua: pur addolcita, ne conservava tutte le caratteristiche, comprese le piccole cicatrici che si era procurato avvelenandosi coi colori. Sul pavimento invece pendeva l'elegante e sottile mano di Anna, ma erano di Stefania le curve morbide e piene che s'indovinavano sotto il sudario.
Tutti e tre mi venivano incontro rivelandomi l'enigmatica bellezza di un unico dolore.
Non mi fu necessario avvicinarmi al quadro per riconoscere l'altro - l'ultimo - brandello di verità: provai netta la sensazione di assistere, lì in quei brevi attimi, alla trasformazione.
Il sangue di Pinta avrebbe ben presto sconfitto la luminosità purpurea delle sue pennellate... si stava ossidando dentro la notte del quadro, si raggrumava sotto i miei occhi, insinuandosi nelle pieghe vaporose dello scialle...
Signor Giudice, il Conte non si è tagliato i polsi dopo... capisce quello che voglio dire...
La verità! L'avrei mai detta la verità?
Mi cadde la cartelletta dalle mani e le foto si sparsero sul pavimento, ma non le vidi mai, quelle foto.
Singhiozzavo come un bambino e lasciavo che le lacrime se ne andassero per conto loro e continuavo a chiedere... perché... perché... perché...
Il giudice mi lasciò andare.
Non ci può essere di nessun aiuto... lo sentii dire mentre stavo varcando la porta.
Sono passati molti anni, e la morte che mi corteggia m'impone di ricordare. Non posso più conservare questo segreto che, d'altronde, non mi è mai appartenuto.
Mi è stato solo affidato il compito di custode: ora devo lasciare la staffetta a qualcun altro.
Custode... proprio così stava scritto nel testamento... dispongo che Mister Withe sia custode delle mie opere...
E così venni a sapere che il mio destino aveva il nome del Conte G***. Dominatore fino alla fine.
Mi lasciò ricco di una galleria.
Da allora vendo e compro quadri, custodendo quelle che i miei visitatori chiamano le sale del Conte.
La leggenda vuole che, disperato per la morte della moglie, le abbia fatto l'ultimo ritratto, e poi si sia tolto la vita.
Vengono giovani coppie, portando fiori freschi, e mi chiedono di vedere Il quadro della morte.
Per loro è quasi un pellegrinaggio augurale dell'Amore Eterno.
Narcisi e glicini e anemoni davanti al quadro non mancano mai.
Eppure la verità non l'ho mai nascosta... sta lì, davanti agli occhi di tutti, scritta sul cartellino del catalogo:
Tela 1,80 x 1,30 - 1958 Equinozio di primavera - La Grande Opera - Tecnica Mista -
..........
Il Bagatto è la prima carta degli Arcani Maggiori dei Tarocchi.
Il Numero Uno della cabala pitagorica.
Il Fiat della Genesi biblica.
Colui che ordina, crea, trasforma e genera, nella Tavola della Sapienza.
Raffigurato sempre come un uomo che miscela magiche misture dentro calici appoggiati sopra un tavolo, viene comunemente considerato una specie di Mago.
Nel Rinascimento conquistò la fisionomia dell'alchimista e il valore esoterico dell'Arcano si caricò non solo dello sforzo rappresentativo della Creazione, ma anche di quello del Cammino verso la Perfezione, da raggiungere seguendo il percorso segreto dei processi alchemici.
L'Elemento che domina il Bagatto è l'Acqua, e i suoi segni sono il Cancro, i Pesci e lo Scorpione.
E' una carta liquida, una carta che suggerisce ogni tipo di riflessione sul Divenire e sul Mutamento.
Protegge gli artisti e tutti coloro che, a dispetto delle più turpi convenzioni, sanno restituire positività e bellezza a ciò che appare negativo e brutto.
Nel linguaggio alchemico si tratterebbe del passaggio dalla Materia allo Spirito, la cosiddetta Grande Opera.
Maria Castronovo
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Questo mondo è un posto crudele per davvero. Ho sofferto di problemi di unione per 9 mesi non conoscendo la mia migliore amica è stata la causa principale del mio problema. La mia storia può essere utile per voi, si prega di prendere il vostro tempo e leggere.
RispondiEliminaIo sono la signora Felicia, mi sono sposata con mio marito per 8 anni e abbiamo un figlio di 4 anni. Il mio matrimonio è stato molto bello con mio marito perché abbiamo dove così tanto in amore con l'altro fino a quando mio marito ha cambiato automaticamente verso di me e mio figlio. Ha iniziato a tenere fino a tarda notte e si fermò la cura per me e nostro figlio
Più volte ho chiesto che cosa la questione era ma non ha mai avuto alcun motivo per il suo comportamento sbagliato verso di me e nostro figlio. Egli continua a dirmi che la sua testa è pesante e lui il suo stanco con il nostro matrimonio. Ha detto che vuole il divorzio. Ho pregato più volte e gli ricordai della nostra vita bella passato ma non ha mai ascoltato me né il grido di nostro figlio. Un giorno un mio amico è venuto in città, allora gli ho detto che la mia situazione. Mi ha collegato con un grande uomo potente chiamato Dr Okosu. Mi ha detto che questo uomo lo ha aiutato a ottenere il suo ex indietro e ottenere un buon lavoro troppo. Mi ha consigliato di dargli una prova. Ho contattato l'uomo tramite il suo e-mail: drokosu01@gmail.com
Mi ha detto che il mio migliore amico è stata la causa del mio problema. Che il mio migliore amico sta usando un fascino amore su mio marito in modo da distruggere il mio matrimonio. Ohh questo mi ha fatto davvero devastato, ma grazie a Dio che il dottor Okosu è stato in grado di rompere il fascino e entro 2 giorni il mio marito è tornato a casa e si è riguadagnato lui mi ha mostrato quanto mi amava come egli usa per. Tutto ha funzionato alla perfezione e siamo tutti vivendo ora come una famiglia felice. Alcuni giorni dopo, il mio amico è venuto da me a confessare le sue cattive azioni e chiese il mio perdono. Dr Okosu mi ha chiesto di perdonarla e così ho fatto.
Io continuerò a parlare di vostre opere buone grande uomo Dr Okosu. E possa Dio Onnipotente continuare ad utilizzare di aiutare altre persone in questo mondo.
Si prega la mia gente non soffrono in silenzio, anche voi potete anche provare questo uomo credo che avrebbe funzionato per voi proprio come ha funzionato per me. Questa è la sua e-mail: drokosu01@gmail.com
Dr Okosu è anche un bene per le soluzioni su molti altri problemi
(1) Non vuoi che il tuo ex indietro.
(2) Vuoi essere ricchi
(3) Si vuole trovare il vero amore
(4) Vuoi un bambino.
(5) Si vuole essere fortunato in tutto quello che fai
(6) Vuoi ottenere il vostro denaro perso posteriore o ottenere il pagamento dovuto.
(7) hanno bisogno di assistenza finanziaria.
(8) Vuoi avere il controllo di voi il matrimonio
(9) cura per qualsiasi malattia.
Contatto DR Okosu oggi e sono sicuro che non ve ne pentirete. E-mail: drokosu01@gmail.com