Navighiamo a vista, fra i
disastri. Quelli naturali e quelli politici. Neanche il tempo di fare un
bilancio dei terremoti e delle nevicate dell’Italia Centrale, ed ecco arrivare
la legnata della Commissione Europea: i conti non tornano, e il governo
italiano dovrà trovare in tutta fretta 3 miliardi e 400 milioni di euro per
evitare la temuta procedura d’infrazione.
I nostri governanti fingono di
cadere dalle nuvole. Prima minimizzano («lo zero virgola»), ma poi si lasciano
sfuggire che una procedura d’infrazione sarebbe un grosso guaio.
Eppure lo sapevano cani e porci
che sarebbe andata a finire così. Il Vispo Tereso era arrivato alla Presidenza
del Consiglio in un momento felice dal punto di vista finanziario: i tassi
scendevano e, conseguentemente, il nostro esborso per il pagamento degli
interessi sui debiti era contenuto; e scendeva anche il prezzo del petrolio,
con evidenti benèfici effetti per la nostra bilancia dei pagamenti. E, allora,
che ti combinava quel cicalone toscano? Prendeva a spendere e spandere come un
Paperone: dagli “80 euro di Renzi” fino all’acquisto di un lussuosissimo aereo
per i viaggi “di Stato” (che Trump se lo sogna). Poi, quando partiva la
campagna per il referendum sulle sue riforme, cominciava a svuotare
sistematicamente le casse dello Stato attraverso una sequela di mance, mancette
e marchette che – nella sua fantasia – avrebbero dovuto servire a conquistare
consensi.
Qualcuno a Bruxelles dava segni
di nervosismo, ma tutto finiva lì. Anzi, il mattacchione nazionale prendeva la
palla al balzo per atteggiarsi a populista antieuropeo: senza esserlo,
naturalmente. Ma in campagna elettorale tutto fa brodo, specialmente se ci si
rivolge ai settori più sprovveduti dell’elettorato: quelli che non capiscono
che la “flessibilità” invocata contro il rigore dell’UE, non è altro che
l’autorizzazione a fare più debiti, a pagare più interessi, a mettersi sempre
più nelle mani della finanza usuraia.
A Bruxelles – dicevo – non si
tirava troppo la corda. Non avevano interesse – lor signori – a mettere in
difficoltà il ragazzo. Una vittoria del SI in Italia avrebbe fatto comodo a
tutti loro, sarebbe stata una boccata d’ossigeno per mercati e mercanti, in
panico dopo la Brexit, dopo la sconfitta del progetto di cancellare la Siria e,
soprattutto, dopo la vittoria di Trump alle presidenziali americane.
E, invece, pure in Italia
arrivava la stangata populista, anche se – per il momento – soltanto in forma
di pernacchio alle riforme “che l’Europa ci chiede”.
Dunque, passata la festa e
gabbato lo santo, ecco che adesso i Torquemada di Bruxelles riprendono morsi e
tenaglie, e danno un altro giro alla ruota della tortura. Non si possono
ammettere “scostamenti” che mettano in discussione le ferree regole della
macelleria sociale che tanto piace alla Cancelliera, e i quasi 3 miliardi e
mezzo devono saltare fuori. Come? Gli euroragionieri non lo dicono, ma la
risposta non può essere che una: con una manovra aggiuntiva di pari importo.
Dove “manovra aggiuntiva” sta a significare tasse aggiuntive, comunque
camuffate.
Ma come – balbettano a Roma –
abbiamo già chiesto agli italiani una barca di soldi per finanziare l’invasione
dei migranti, per terremoti e disastri vari abbiamo messo in campo 25 casette
(da sorteggiare fra gli aventi diritto), per la ricostruzione delle scuole ci
affidiamo ai “2 euro solidali” degli utenti telefonici, non abbiamo un
centesimo da stanziare per la prevenzione (in vista dei prossimi terremoti,
previsti dagli esperti), abbiamo spellato vivi i contribuenti e strozzato i
Comuni... e voi ci chiedete ancora miliardi? Ma a Bruxelles (e a Berlino) non
intendono deflettere. Il modello Renzi è fallito. Adesso la prospettiva è
quella del modello Tsipras. Due nomi, una stessa garanzia di suicidio
assistito. Assistito dalla Merkel, naturalmente.
A palazzo Chigi si respira
ormai un’atmosfera da Rischiatutto: se i brussellesi continueranno a non voler
sentire ragioni, si tenterà l’ultima carta, quella delle elezioni anticipate.
Per una manciata di mesi, così, si avrà la scusa per non rispondere ai richiami
della Commissione Europea.
Dopo, si vedrà. Saranno cavoli
di chi vincerà le elezioni, a patto che – con i brandelli di legge elettorale
che ci ritroviamo – riesca poi a formare un governo.
Eppure, elezioni o non
elezioni, la soluzione è lì, a portata di mano. In attesa della definitiva
disgregazione dell’Unione Europea (sempre più vicina), basterebbe intanto
abbandonare il marco tedesco travestito da moneta europea. Riprenderci la
nostra sovranità monetaria. Il che non significa soltanto uscire dall’€uro e
tornare alla Lira. Significa anche stampare il nostro denaro direttamente,
senza farcelo prestare dai “mercati”, e nemmeno da una banca privata,
pudicamente mimetizzata dietro l’etichetta di “banca centrale”.
Solo così si potrà uscire dalla
spirale della miseria, solo così potremo trovare i soldi per ricostruire i
paesi cancellati dai disastri naturali e per mettere in sicurezza il
territorio. E non solo per questo. Ma anche per fare tutte quelle piccole cose
che uno Stato “normale” dovrebbe fare con i denari suoi, senza farseli prestare
dagli strozzini: chessò... la benzina per le volanti della polizia, pensioni
decenti per tutti, scuole che non cadano sulla testa degli studenti, e così via
dicendo.
Battere moneta dovrebbe essere
prerogativa – e prerogativa esclusiva – degli Stati. Abdicare a questo
diritto-dovere significa non soltanto regalare una ricchezza immensa a pochi
speculatori, ma anche sottrarre questa ricchezza agli Stati stessi. I quali
Stati – defraudati e con l’acqua alla gola – dovranno necessariamente spremere
sempre di più i contribuenti e ridurre sempre di più la spesa pubblica, fino a
privarsi dei mezzi per fronteggiare le calamità naturali.
Se non si interrompe questo
circolo vizioso, sarà sempre peggio. Non come adesso – badate bene – ma peggio,
e poi peggio ancòra. Unica salvezza: riprenderci la nostra sovranità. E i
nostri soldi.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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