.....insieme
al destino del PD si deciderà il destino del sistema elettorale
italiano: se si dovrà rimanere ancorati al sistema anglosassone dei
grandi contenitori fungibili (centro-destra e centro-sinistra,
repubblicani e democratici, conservatori e laburisti, eccetera); o
se, invece, si dovrà prendere atto dell’anima pluralista (e
proporzionalista) della democrazia italiana, muovendosi in direzione
di aggregazioni omogenee e non di insalate miste, a sinistra come a
destra.
Succeda
quel che succeda, comunque, una cosa è certa: in quello che è il
contenitore della pseudo-sinistra ufficiale, si è ormai raggiunto il
limite massimo di sopportazione verso le politiche di estrema destra
economica che hanno raggiunto l’acme con il Vispo Tereso:
dall’abolizione dell’articolo 18 alle “tutele crescenti” del
Jobs Act, dalla “buona scuola” alla gestione familistica delle
crisi bancarie, dalla prosecuzione della funesta pratica delle
privatizzazioni alle leggi elettorali liberticide, fino a quella
assurda riforma costituzionale (strabocciata dagli elettori) che
recepiva i “consigli” della J.P.Morgan e delle banche d’affari
americane.
Certo,
una parte non secondaria nell’esasperare la situazione l’ha anche
avuta la presunzione, la prepotenza, la supponenza, l’arroganza, il
padreternismo del ragazzo. È chiaro ed evidente che il Renzi ha
gestito tutta la vicenda all’insegna del suo “Io” smisurato, da
“Enrico stai sereno” in poi: le riforme scritte nel presupposto
di essere sempre lui a vincere le elezioni, la promessa di lasciare
tutto se fosse stato sconfitto al referendum, l’incredibile
“abbiamo scherzato”, ed infine la pretesa di imporre la sua
leadership al PD attraverso un congresso-lampo “cotto e mangiato”,
anche a rischio di portare quel partito al tracollo elettorale.
Tutto
questo ha di sicuro inciso sul redde
rationem
in atto. Ma – mi ripeto – a determinare la svolta drammatica di
questi giorni è stato un altro fattore: la presa di coscienza che il
partito erede del PCI persegue oggi una linea politico-economica che
è oggettivamente di destra, di estrema destra. E non mi riferisco
certo alla destra politica, quella che Almirante esaltava nella
tutela dello Stato Sociale. Mi riferisco all’altra destra, alla
destra economica, quella dei Rotschild e di Wall Street, quella della
BCE e del Fondo Monetario Internazionale, quella del debito pubblico
e della speculazione finanziaria, quella della globalizzazione e
delle privatizzazioni, quella delle pensioni “contributive” e
dell’addio al posto fisso, quella della riduzione della spesa
pubblica e del massacro sociale.
Orbene,
è a questa destra bieca, retrograda, antipopolare che la sinistra
italiana si è sottomessa e allineata. Ma – attenzione – questo è
un processo che è iniziato ben prima di Matteo Renzi. Il ragazzotto
toscano è soltanto il tragico punto d’arrivo di una abiura che
viene da lontano: almeno dagli anni ’70, quando i “miglioristi”
di Giorgio Napolitano teorizzavano la “moderazione salariale” in
funzione anti-inflattiva, quando si buttavano al macero decenni di
cultura gramsciana e li si sostituiva con l’intellettualismo
radical-chic di “Repubblica” e della spocchia scalfariana.
Andazzo
che aveva una brusca impennata con la caduta del muro di Berlino e la
fine dell’Unione Sovietica, quando la classe dirigente del PCI si
convinceva dell’ineluttabile trionfo del capitalismo anglosassone e
si apprestava a montare sul carro del vincitore. Nel 1991 Achille
Occhetto gestiva il congresso che segnava lo scioglimento del PCI e
la nascita di un Partito Democratico della Sinistra che avrebbe
dovuto «unificare
le forze di progresso».
Ed
eccole le forze di progresso, prodighe di smorfiette e pacche sulle
spalle per quella “grande forza democratica” che si apriva alla
modernità, alla moderazione e, in una parola, al mercato. I
“progressisti” che facevano gli occhi dolci ai comunisti pentiti
erano quelli delle ali sinistre di DC e PSI, quelli che, dopo aver
tenuto a battesimo la privatizzazione del sistema bancario italiano
(con Andreatta nel 1981 e con Amato nel 1990), volevano sbolognarsi
adesso anche la grande, preziosa industria pubblica del nostro Paese.
Il guru della alienazione dei beni pubblici era un giovane virgulto
della loro serre: Romano Prodi, allievo prediletto di Beniamino
Andreatta, che sarà il dominus
incontrastato delle privatizzazioni nella sua qualità di Presidente
dell’IRI (1982-89, poi 1993-94). Prodi aveva tutte le carte in
regola per fare carriera in uno schieramento della più ortodossa
destra economica: a parte i numerosi incarichi ministeriali, sarà
consulente della Goldman
Sachs
(1990-93 e poi dopo il 1997), e financo amico di quello
stramiliardario Georges Soros che, con un attacco speculativo mirato,
aveva messo in ginocchio la lira italiana nel 1992. Quello stesso
Soros – sia detto tra parentesi – a cui il prof. Prodi propizierà
poi una laurea honoris
causa
dall’università di Bologna (1995).
Ebbene,
era proprio a Romano Prodi che il PDS (di cui era frattanto divenuto
segretario Massimo D’Alema) si rivolgeva nel 1995 per chiedergli di
capitanare l’alleanza di tutte le sinistre contro l’odiato
Berlusconi. Nasceva così l’Ulivo (PDS + Margherita democristiana)
che andava a vincere le elezioni del 1996. Prodi diventava Presidente
del Consiglio, con i brillanti risultati che si ricordano.
Ammaliato
dalla travolgente esperienza politica dell’Ulivo, il PDS faceva un
altro passo verso la socialdemocratizzazione: cambiava ancora nome,
si trasformava in DS, Democratici di Sinistra, e si affidava alla
guida illuminata di Walter Veltroni, il più “amerikano” dei
compagni, quello del ”Yes
we can”
(1998).
Poi
– tutti insieme appassionatamente – DS, Margherita e Ulivo si
scioglievano e confluivano nell’ultima creatura: il PD, Partito
Democratico, stesso nome del fratello maggiore americano (2007).
Il
resto è storia recente, fino all’arrivo del Vispo Tereso (dicembre
2013) ed ai suoi trionfi.
La
Sinistra, intanto, è andata dispersa. Prossimamente – forse – se
ne occuperà “Chi l’ha visto?”.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com