venerdì 30 settembre 2011

La Turchia ed il nuovo ordine mondiale... Articolo di Maurizio Blondet con introduzione di Giorgio Vitali




Introduzione di Giorgio Vitali:
Questo articolo eccezionale deve essere letto e meditato. COME DA NOI previsto, esclusivamente sulla base di valutazioni puramente geopolitiche (la geopolitica è l'unica scienza obiettivamente predittiva) quanto da Blondet scritto corrisponde ad una verità lampante. Anche la questione relativa all'impossibilità da parte USA di controllare il mondo che pretende di dominare, CI RICORDA in maniera luminosa la crisi dell'Impero Romano, che cadde perchè NON era in condizione di controllare i confini, troppo estesi di fronte alle nuove potenze che stavano creando una MULTIPOLARITA' chiarissima. Solo personaggi del calibro dell'Imperatore Giuliano, nel tardo 300 era all'altezza di affronare questi problemi. Capace com'era di farsi a cavallo la traversata dalla Gallia (dove aveva annullato il rischio dell'invasione germanica) alla Persia. (Vedi caso: il teatro è sempre questo!!) ma poichè il personaggi rappresentava un grande rischio per il cristianesimo nascente fu ASSASSINATO mentrte combatteva proprio contro i persiani. RESTA il fattore TALMUD. Qui il fanatismo religiso gioca una carta che mette a repentaglio la pura esistenza della stessa NATURA VIVENTE. Mi auguro ( ci auguriamo) che questi fondamentalisti trovino proprio all'interno della loro CONGERIE il nemico più fermo. da molti segnali ciò appare con sempre maggiore evidenza.



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Corrispondenza...

«Egregio Maurizio Blondet,

Le scrivo per chiedere un Suo parere riguardo le ultime evoluzioni geopolitiche della Turchia, in particolare le dure prese di posizione di Erdogan contro lo Stato di Israele nonché la proposta di una leadership turca nel processo di democraticizzazione islamica, che potrebbe scompaginare i piani euro-americani in Africa e in Medioriente. Mi chiedo innanzitutto se questa recente virata della Turchia non possa essere un pericolo, in particolare per Israele, ed essere causa un domani (speriamo lontano) di uno scontro bellico di grande portata. È possibile secondo Lei che venga a crearsi un asse Iran-Turchia? Voglio dire: il sentimento anti-israeliano (oltre che anti-americano) è ben radicato nello spirito e nei cuori dei popoli arabi (come biasimarli), e basta una scintilla per fare esplodere una bomba di dimensioni enormi. Potrebbe venire dalla Turchia questa scintilla? Israele, secondo Lei, cercherà di trovare accordi diplomatici per evitare uno scontro del genere, oppure come al solito getterà benzina sul fuoco? In secondo luogo devo dirle che quando ho letto alcune dichiarazioni di Erdogan non ho potuto che trovarmi in completo accordo. Finalmente qualcuno che parla dei crimini e delle irresponsabilità di Israele apertamente, senza alcuna paura, e che è capace di far seguire i fatti alle parole, interrompendo i rapporti commerciali e militari con il governo israeliano. Mi chiedo però: dov’è la fregatura? Voglio dire, la Turchia è un Paese, come Lei mi insegna, fortemente influenzato dalla presenza ebraica, in particolare da quelli che un tempo erano chiamati ‘dunmeh’. Che fine hanno fatto? Come ha fatto Erdogan a sbarazzarsi dei suoi generali kemalisti? Bisogna fidarsi di questo ometto con i baffi? Infine le chiedo cortesemente: Secondo Lei siamo sull’orlo di una Nuova Guerra Mondiale

Stefano A».


Anche i commentatori occidentali mainstream si pongono la stessa domanda: fidarsi di questo ometto coi baffi? Erdogan mira ad una egemonia turca nel mondo islamico? Tutti imbarazzati al massimo grado dal suo atteggiamento verso l’intoccabile Israele. Qualcuno s’è persino chiesto: Erdogan è ormai prigioniero della sua stessa retorica?

Insomma al minimo, un esaltato, al massimo un sovvertitore, un pericoloso islamista en cachette. Nessuno, proprio nessuno che noti l’evidenza: la Turchia di Erdogan s’è levata contro Israele non in nome del diritto islamico, ma in nome delle norme del diritto internazionale, quel fondamento della civiltà che soleva chiamarsi Diritto Pubblico Europeo; quel diritto che l’Europa stessa dovrebbe invocare e applicare contro i trasgressori, e da cui invece, per paura e vile servilismo, esenta lo Stato sionista.

L’eccidio compiuto dagli assassini di Stato giudaici sulla Mavi Marmara, in acque internazionali, è un atto di pirateria, delitto internazionale secondo il diritto che la civiltà europea ha dettato al mondo, ricorda Erdogan ai nostri governanti europei ciechi e sordi. Ha chiesto le scuse e le riparazioni e, non avendole ottenute (Israele non deve chiedere scusa mai, essendo il Messia di Sé) ha ridotto al minimo i rapporti con lo Stato sionista, trattandolo cioè come merita uno Stato-canaglia, che pratica il terrorismo internazionale e che non accetta responsabilità di fronte al resto dell’umanità. Ciò è secondo il diritto europeo. Tant’è vero che il governo turco sta valutando di accusare Israele presso la Corte di Giustizia dell’Aja, che non adotta la sharia come codice.

L’indignazione furiosa che Erdogan mostrò in una memorabile apparizione su Al Jazeera, nel gennaio 2009, di fronte alla ferocia di Piombo Fuso contro i civili a Gaza, il massacro al fosforo e alle bombe al tungsteno, per di più esercitato dopo mesi e mesi di blocco dei seicentomila prigionieri palestinesi a cui Sion nega il cibo e i mezzi essenziali per vivere, corrisponde ad un riflesso di civiltà ancora più antico, ed ancor più europeo: il diritto delle genti, il romano jus gentium.

Era la ribellione in nome del semplice, elementare principio di umanità, la cui assenza – nell’Europa del tempo che fu – distingueva la barbarie dalla civiltà. Erdogan ricordò allora che nei giorni del breve conflitto tra Russia e Georgia per il Sud-Ossetia, «tutti sono intervenuti immediatamente, le Nazioni unite, l’America, la UE, la NATO, noi stessi. Ed oggi, perché non si vede nessuno muoversi per Gaza?». Era una domanda che doveva farci vergognare come europei, come pretesi portatori della civiltà cristiana e universale. (Outspoken US professors slam Palmer report, approve Turkey's position)

Il Rapporto Palmer, l’inchiesta ordinata dall’ONU per il delitto della Mavi Marmara, ha non solo assolto Sion dall’eccidio, ma ha definito il blocco e la messa alla fame di Gaza «legale», in vista della autodifesa di Israele. Non è difficile vedere da che parte stia la verità. Se mai, Israele può bloccare l’entrata di armi a Gaza, ma non del cibo, né le esportazioni verso l’estero. E a dirlo è stato il professor John Mearsheimer (il coautore con Walt del saggio sulla Israeli Lobby), rispettato giurista internazionale, ha ricordato che il blocco di Gaza e gli attacchi alla sua popolazione costituiscono un atto di punizione collettiva – evocatrice della colpa collettiva dei palestinesi che hanno scelto Hamas alle elezioni – illegale secondo le convenzioni di Ginevra, e per cui ci sono state le note impiccagioni a Norimberga.

Ora, lei si domanda: dov’è la fregatura? Erdogan ha un disegno egemonico, che la spaventa, come spaventa i giudei e gli americani?

Temo che una simile domanda riveli la subalternità alla degradazione del mostro talmudico armato, speculativo e globale, che ha usurpato il nome di Occidente, e per odio al mondo islamico si maschera da cristianismo crociato. Per questo mostro armato, che è subnormale anche filosoficamente e mentalmente, egemonia ha il solo significato di brutale oppressione, occupazione e violenza, guerra infinita. Ora, quella che Erdogan e il suo gruppo esprimono, è una egemonia dei principi universali, della legittimità e della sovranità (senza cui legittimità non esiste) e anche della verità (quella verità che non si osa dire sul sionismo terrorista), che – bisogna perlomeno riconoscerlo – ha qualità opposte rispetto alle egemonia del mostro: quest’ultima è devastatrice e da oltre un decennio destabilizza, saccheggia, trasforma in deserti umani e civili i luoghi umani dove si espande ed esporta la democrazia o il mercato. Quella del governo turco è strutturante, cordiale, e la sua forza è nel suo richiamare il mostro ai principii universali della civiltà tout-court.

Non voglio fare un ritratto angelista del governo turco. Voglio dire che, forse, Erdogan ha capito quel che i nostri politici, e il centro del potere di contro-civiltà globale che fa capo a Washington, a Wall Street e a Gerusalemme, non ha compreso: che il sistema egemonico d’oggi, pur gigantesco, è in via di autodistruzione, soffocato dalle sue corazze di armamenti e dai suoi debiti e soprusi, che lo costringono a vivere di spada e di menzogna. Penso che la nuova Turchia abbia fatto la scommessa politica che il Sistema di contro-civiltà si stia autodemolendo in una catena di crisi convergenti e mai viste, e che il futuro non gli appartenga. Che il futuro appartenga ad un mondo multipolare, dove sarà importante affermare le sovranità, la loro legittimità, la loro identità e la loro convivenza in un quadro di diritto.

Naturalmente, si teme invece (la propaganda loro ci è entrata dentro a tutti noi) che la nuova Turchia neo-ottomana voglia mettersi alla testa dell’Islam. Dopotutto, Erdogan è stato acclamato come una rockstar dalla piazza del Cairo, durante il suo ben organizzato tour delle primavere arabe, di cui palesemente vuol presentarsi come leader morale – nel senso però dell’esempio di un islamismo moderato, a suo agio nella modernità, senza complessi d’inferiorità, il solo Stato musulmano che vanti un successo economico stupefacente, con una crescita del 7% annuo, di cui può essere legittimamente fiero.

Anche ad Ankara, palesemente, le primavere arabe non erano state previste; ma solo Ankara ha potuto mostrare che non le considera un rischio, laddove gli occidentali sono inquieti, colti di sorpresa, imbarazzati dalle richieste di giustizia sociale e politica, diffidenti, pronti a giudicarle un pericolo come vuole Israele... per non parlare della vergognosa aggressione franco-inglese in Libia.
I temi sviluppati da Erdogan in Egitto, Libia e Tunisia hanno fatto appello alla volontà di emancipazione dei Paesi arabi, ma attento a non aderire a velleità pan-islamiste e di rivincita panislamica (con i pesi e le costrizioni legate a un regionalismo religioso, ad una sharia). Ha fatto appello al nuovo Egitto per una partnership che sia «un’àncora di stabilità» nella regione, non per un ritorno alla scimitarra e al turbante.

Ahmet Devatoglu
C’è un pensiero collettivo dietro la politica turca, la cui potenza intellettuale è stata colta dal New York Times: non a proposito di Erdogan ma del suo ministro degli Esteri, Ahmet Devatoglu: «Un intellettuale più che un politico, anche se con un dono diplomatico per gettare ponti», uno che è stato capace di parlare «ai ribelli libici a Bengasi – in arabo» (cioè senza interprete), e che ha detto ai tunisini appena liberatisi del loro caporione: «Non siamo qui per insegnarvi nulla, voi sapete cosa fare. I nipoti di Ibn Khaldoun meritano il miglior sistema politico».

Ibn Khaldoun fu il massimo filosofo del mondo arabo, e nacque a Tunisi nel 14mo secolo. Evocare il suo nome sarà stato una sorpresa per gli osservatori occidentali, ed anche, penso, per molti tunisini. Ai quali, nella loro pochezza odierna, Devatoglu ha detto, in fondo: «Tunisini, siate all’altezza della vostra storia, della vostra grandezza». Si attende con ansia, qui, un politico capace di una simile esortazione ad europei ridotti a volare basso nella dipendenza da USA e da Israele, perdenti dell’oceano della globalizzazione, culturalmente subalterni fino al ridicolo. (Turkey Predicts Alliance With Egypt as Regional Anchors)

Il lettore mi chiede come Erdogan sia riuscito a liberarsi dei generali kemalisti, appartenenti (lo ammette anche Wikipedia in inglese) alla setta cripto-giudea dei dunmeh, antichi seguaci di Sabbatai Zevi che, in talmudica doppiezza, professavano esteriormente l’Islam (l’Encyclopedia Judaica dichiara che lo stesso Ataturk era un ebreo dunmeh).

Probabilmente non è informato che i kemalisti – questi golpisti corrottissimi, cui i media e le diplomazie occidentali hanno sempre perdonato, se non lodato, i successivi colpi di Stato come «salvaguardia della laicità dello Stato» contro la religione islamica – sono oggi sbandati da un’iniziativa giudiziaria che ha smantellato il gruppo clandestino Ergenekon (una specie di Gladio dunmeh) accusato, con buoni motivi, di sovversione contro il governo eletto di Erdogan e del suo partito, AKP. Ritengo che i generali, molti dei quali incarcerati, non risorgeranno tanto presto. Sotto questo dominio, la Turchia era ovviamente l’antimurale dell’Occidente contro l’URSS; e i generali kemalisti facevano affari col complesso militare industriale americano, e molti altri, mano nella mano (e sottomano) con Israele, e con la lobby a Washington.

Ora, il rivolgimento geo-politico è stato nettissimo. Nell’agosto del 2008, quando la Georgia (armata ed istigata dagli israeliani) attaccò l’Ossetia del Sud attirandosi l’immediata risposta armata della Russia, Erdogan fu il primo a volare a Mosca per assicurare Putin del sostegno turco. Si sa che il discorso che Putin pronunciò nel febbraio 2007 a Monaco, di fronte agli alleati occidentali, aveva fortemente impressionato il governo turco.

«Oggi», aveva detto Putin, «vediamo nelle relazioni internazionali un iper-uso della forza militare praticamente illimitato, forza che getta il mondo in un abisso di conflitti permanenti (...). Assistiamo ad un sempre maggiori disprezzo per i principi basilari del diritto internazionali... Un solo Stato, e naturalmente prima e soprattutto gli USA, scavalcano i loro confini nazionali in ogni modo; ciò è visibile nei campi dell’economia, della politica, nella cultura e nell’istruzione che essi impongono alle altre nazioni. Azioni unilaterali e spesso illegittime non hanno risolto nessun problema, anzi hanno causato nuove tragedie umane, creato nuovi centri di tensione. Il dominio della forza nelle relazioni internazionali induce diversi Paesi a fornirsi di armi di distruzione di massa... Sono convinto che abbiamo raggiunto il momento decisivo in cui dobbiamo seriamente pensare all’architettura della sicurezza globale».

Mentre il segretario della NATO, l’olandese De Hoop, rispondeva accusando la «disconnessione fra la crescente partnership dell’Occidente» (sic) e le dichiarazioni di Putin, i turchi hanno capito che un’altra potenza faceva appello ai principii del diritto europeo e della legittimità, che l’Occidente calpesta da un decennio. Principii universali (eredi del diritto romano) non, ripeto, una sharia islamica – la quale non ha mai potuto concepirli.

Il massacro di inermi di Piombo Fuso e l’aggressione alla Mavi Marmara, poi, hanno convinto il nuovo governo turco che quei princìpi andavano difesi con intransigenza, e nello stesso tempo con partner e alleati di un diverso ordine mondiale. Ed essendo la Turchia «al centro di tutto» (come ha detto il suo presidente Gul), cerniera tra Europa ed Asia, fra nord russo-caucasico e sud mediterraneo, fra Islam e modernità, e (fatto non trascurabile) tra Iran e la contro-civiltà occidentale, sa approfittare di questa privilegiata situazione geo-politica con consumata abilità.

Insomma, il governo Erdogan gioca le sue carte. Nessuno può garantire che non commetta errori in questo attivismo non privo di rischi dove ha un nemico di cui conosciamo la potenza presso i goym, la ferocia e la paranoia (e la capacità di montare attentati terroristici false-flag); nessuno può assicurare che la popolarità non gli monti la testa, che evolva in neo-ottomanismo, in nasserismo o in bonapartismo (aggressivo, espansionista) islamista. Ma questa incertezza è inerente all’instabilità dei tempi, alla fine dei blocchi che non ci hanno lasciato strade tracciate e tranquillanti a cui avevamo fatto la (brutta) abitudine.

Quel che possiamo dire è che, per ora, Erdogan e il pensiero collettivo che gli è dietro si muove a difesa di principi alti, prima che per propri ottusi interessi. Che ha posto gli interessi della nuova Turchia nella scommessa di una restaurazione della legittimità e dignità, non solo la propria, ma quella degli altri, a cui la offre.

Questo è, oso dirlo, spirito europeo. Che allontana ancor più la prospettiva di entrata della Turchia in quest’Europa, dove le ostilità alla sua integrazione si espandono, con l’esibizione di «difesa dei valori cristiani», che va da Sarkozy ai neocon ed agli atei devoti di stampo giudaico, abili a manipolare un Papato giudaizzante e disinformato. Ma è la Turchia che ci guadagna da questa esclusione: «Entrare in Europa» adesso, sarebbe contribuire a pagare i conti dei debiti pubblici dei PIIGS, aderire ad una moneta rovinosa di incerto futuro, ad una politica servile verso “Usrael” e che lega le mani; entrare nella corrente destrutturante e dissolvente in atto di rivolgersi nella propria autodistruzione, di cui la UE fa parte integrante ancorché subalterna. Se c’è un difensore dei valori cristiani (di universalità, di diritto eguale, di cordiale offerta di dignità dei popoli) certo è più Erdogan che Sarkozy o Giuliano Ferrara, o popolazioni che di cristiano non hanno più nulla, nemmeno il ricordo storico.

Siamo sull’orlo della guerra mondiale?

Anche questo domanda alla fine il lettore. E ne dà quelli che gli paiono segni premonitori, nella parte della lettera che metto sotto in nota (1). Non tacerò che in ambienti americani, contigui al Pentagono e a quei centri neocon che stilarono il progetto Rebuilding the american Defense (quel programma di riarmo mostruoso per rendere accettabile il quale i Wolfowitz, Cheney, Kagan auspicavano «una nuova Pearl Harbor») (2), in questi mesi si sta valutando lo scatenamento di una grande guerra come opzione per far uscire l’impero dalla crisi. Visto che gli USA uscirono dalla Depressione innescata nel 1929 solo con l’entrata nella Seconda Guerra Mondiale che rimise in moto il potente sistema industriale inceppato dalla scarsa domanda, aumentò prodigiosamente i consumi e garantì il pieno impiego – ragionano costoro – perché non riprovarci?

Il sito DoDBuzz, che riporta certe indiscrezioni dal Pentagono, ha recentemente rivelato che uno studio di fattibilità è stato condotto (commissionato da chi?) dal Center for Strategic and Budgetary Assessment, considerato il miglior think-tank (formalmente privato) per quel che riguarda la valutazione della potenza militare USA. Il suo sito può essere studiato con prefitto: http://www.csbaonline.org/

La conclusione dello studio, condotto da due tecnocrati del settore, Barry Watt e Tod Harrison, pare sconsolata: oggi gli Stati Uniti non sono più in grado di «innescare il grande sforzo industriale pari a quello che formò ‘l’arsenale della democrazia’ nella seconda Guerra Mondiale». (America’s hidden industrial ‘surge’ weakness)

E ciò non solo perché l’America di allora era la prima potenza industriale dell’epoca, le cui industrie in crisi poterono facilmente essere risvegliate, mentre oggi è una potenza de-industrializzata che conduce le sue guerre a credito e su scarponi Made in China; ma soprattutto perché il progetto stesso di una grande guerra, necessariamente mondiale e dai mezzi enormemente divoratori di ricchezza, si avvicina alla sua impossibilità industriale ed economica.

Già le attuali guerricciole contro nemici risibili e selezionati dagli USA per vincere facile, hanno mostrato che la superpotenza ha un bassissimo livello di riserve: «La US Navy ha sparato 200 missili da crociera Tomahawk nei primi giorni dell’intervento in Libia, ossia la quantità che il Pentagono acquista in un anno. Peggio: i sistemi di lancio verticale della Marina da guerra non possono essere ricaricati in mare, il che significa che se il vostro incrociatore spara tutte le sue armi, poi è fuori gioco finché non raggiunge un porto amico».

Durante la Seconda Guerra Mondiale, le industrie normali poterono essere facilmente riconvertite agli armamenti, la Ford dalla produzione di auto passò a sfornare componenti importanti del bombardiere B-24. Oggi, la specificità dei prodotti bellici, la loro altissima tecnologia e i metodi di produzione rendono impossibile tale riconversione, se non altro perché esigono una notevole manodopera di una qualità introvabile nel settore metalmeccanico.

Dagli anni ‘70, a cui risalgono gli F-15, F-16 ed F-18, il sistema americano non è più riuscito a completare un programma di produzione di aerei da combattimento. La messa in cantiere di quattro apparecchi, tutti a tecnologia invisibile (F-117, A-12, B-2 ed F-22) doveva concludersi con la produzione di 2.378 esemplari; la produzione dei quattro aerei ha raggiunto a malapena i 267 esemplari, e le restrizioni di bilancio rendono problematica la continuazione. Dell’F-35 non è nemmeno il caso di parlare, tante sono le difficoltà e i sovraccosti che incontra. Beninteso, la preparazione per la terza guerra mondiale potrebbe comunque essere tentata; ma, dicono Watts ed Harrison, a prezzo di una «politica industriale» radicale, che implicherebbe la nazionalizzazione del complesso militare-industriale e la trasmutazione dell’intera economia in senso socialista: il che, nel clima ideologico e di opinione corrente, è al disopra delle forze di un potere politico debolissimo, in mano agli interessi privati.

A vantaggio degli USA c’è il fatto che gli avversari nell’ipotetica guerra mondiale, essenzialmente Cina e Russia, non hanno lo stesso grado di sofisticazione bellica, né la stessa capacità di proiezione planetaria, essendo le loro forze dimensionate per il controllo della sicurezza nei rispettivi teatri regionali. Ma proprio questo le mette in posizione difensiva – più facile da reggere – mentre la sola potenza capace di portare la guerra a lunga distanza (gli USA) rischiano di degradare velocemente nell’impasse e nella impotenza. Gli avversari per contro hanno potenzialità di mobilitazione molto superiori. Si pensi che nel 2007, un progetto di fattibilità del Pentagono per un attacco di terra contro l’Iran (progetto ben più limitato che una guerra mondiale), valutò necessaria la mobilitazione di un milione di uomini, il cui addestramento ed equipaggiamento avrebbe richiesto due-tre anni.

La smetto qui. Ciò che ho detto basta a concludere che non solo l’idea di innescare una ripresa economica appiccando una guerra mondiale è assurda («Peggio che un delitto, una scemenza», avrebbe detto Talleyrand), ma che simili progetti possono essere seriamente studiati solo dal mostro talmudico, dalla contro-civiltà che si arroga il nome di Occidente. E che non ha ancora capito che l’aver puntato tutta l’egemonia sulla minaccia della unica superpotenza rimasta e sulla forza bruta, accusa la sua arretratezza politica e mentale, prima ancora che morale. In certo senso, la guerra e la ultra strapotenza bellica come unico mezzo delle relazioni internazionali è in qualche modo un ferrovecchio, che solo Israele (e il suo Golem a Washington) continuano ad agitare fuori tempo massimo.

La Turchia ha un potente esercito, e lo sta usando quando occorre (nei giorni scorsi i suoi aerei hanno bombardato installazioni kurde in Iraq; la sua Marina mostra i muscoli sui campi petroliferi di Cipro); ma – se è questo il senso della domanda del lettore – non vedo come si lascerebbe trascinare in un conflitto, dove il suo avversario più ostile (Israele) ha centinaia di testate atomiche, quando poi usa così bene e lealmente l’arma del diritto internazionale e della dignità nazionale – una forza troppo sottovalutata, la forza della verità.

Se terza guerra mondiale sarà, non sarà la Turchia a cominciarla. Il che non significa che non avverrà. Per le ragioni che abbiamo visto sopra illustrate da Watts e da Harris, a chi conserva l’opzione della guerra mondiale non resta altro mezzo che un puro e semplice – e breve – conflitto nucleare. Ovviamente, questa opzione scavalca completamente persino il calcolo cinico di uscire con il conflitto dalla crisi economica, perché non ci sarebbe un dopo che il vincitore possa godere.

Qui, si esula completamente dalla ragione; solo una classe dirigente di estrema instabilità psichica, o animata da messianismo paranoico, può esser tentata di sferrare una simile apocalisse. Sappiamo, ahimè, che esiste un simile Paese; che al fondo della sua dottrina militare cova l’esempio di Sansone che muore sotto le rovine del tempio di Dagon con tutti i filistei; e che di fronte al fallimento dei suoi deliri di superiorità messianica, cova il complesso di Masada.





1) La lettera così continua:

«Ci sono tanti elementi che possono fare intendere un esito di questo genere: la crisi economica irreversibile, in qualche modo ‘programmata’ già a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, da Bretton Woods a Camp David, fino all’Euro e alla moltiplicazione incontrollata dei dollari e dei debiti degli Stati sovrani; l’incredibile crescita degli armamenti, anch’essa cominciata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, prima con la strategia della tensione ‘fredda’, poi con la propaganda del ‘terrorismo globale’, che non ha subìto arresti nemmeno con la recente crisi economica; l’occupazione dell’Iraq, che è un avamposto militare perfetto nell’ottica di una guerra che impegni l’Occidente contro il Mediorente e magari un giorno anche contro la Cina, così come la vergognosa guerra libica, voluta dai francesi per assicurarsi in tempi difficili rifornimenti sicuri di oro nero. A questi elementi, se ne potrebbero aggiungere altri. Ma resta il fatto che lo scenario sembra essere sempre più chiaramente indirizzato a una guerra epocale. Aggiungo la famosa corrispondenza tra Albert Pike e Mazzini, nella quale più di un secolo e mezzo fa veniva tratteggiato lo scenario odierno in vista della Terza Guerra Mondiale. Cosa ne pensa? In fondo, se il motto è ‘Ordo ab Chao’ (ordine dal caos) e l'obiettivo è il ‘Nuovo Ordine Mondiale’, non c’è altra strada se non quella della guerra in Asia: Occidente contro Oriente. Probabilmente qualcuno l’aveva già programmato da parecchi decenni, se non da secoli. Spero tanto di sbagliarmi... ».

2) Il documento Rebuilding the American Defense, che si presentava come una documentata esortazione al futuro presidente americano, fu elaborato nel 2000 da una fondazione culturale o think-tank chiamato Project for a New American Century (PNAC) oggi chiusa avendo compiuto la sua missione. Fondata dai neocon ebrei William Kristol e Robert Kagan, la PNAC si dava come missione «la promozione della leadership globale americana»; in realtà premeva per la distruzione del regime iracheno e di quello iraniano, che preoccupano Israele. Il costoso programma di riarmo, diceva il documento del PNAC, non sarà accettato dalla popolazione americana «se non accade un evento drammatico e catalizzatore, come una nuova Pearl Harbor». Un numero impressionante di membri della PNAC e firmatari del documento Rebuilding the american defense passò nel governo Bush jr. Fra essi: Dick Cheney (vicepresidente), Donald Rumsfeld (ministro della Difesa), Paul Wolfowitz (vice ministro Difesa), rabbi Dov Zakheim (viceministro Difesa col compito di comptroller) Elliot Abrams, assistente speciale del presidente per i diritti umani e le operazioni internazionali, Richard Armitage (vice-segretario di Stato), John Bolton (vicesegretario di Stato per il controllo degli armamenti e poi ambasciatore all’ONU), Paula Dobriansky (sottosegretario di Stato), Aaron Friedberg (Deputy Assistant for National Security Affairs and Director of Policy Planning, Office of the Vice President), Robert Zoewllick (vicesegretario di Stato), Zalman Khalikzad (ambasciatore in Afghanistan), Lewis Scooter Libby (capo dello staff di Cheney), Richard Perle (presidente del Defense Policy Board, un comitato di consulenza inserito nel Pentagono), Eliot Cohen (membro del Defense Policy Board). Erano tutti al loro posto quando l’auspicata nuova Pearl Harbor ebbe luogo l’11 settembre 2001.



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