giovedì 14 luglio 2011

Alpinismo, relazionarsi all'ambiente per esplorarlo in sicurezza.. di Lorenzo Merlo



Ma allora il Camoscio e il Tuareg come producono sicurezza? Non hanno fatto il corso di orientamento, né hanno la bussola. Il camoscio non sa fino a che inclinazione può attraversare una colata ghiacciata e un tuareg non ascolta le previsioni delle tempeste di sabbia prima della transahariana. Cioè, non hanno e non sanno. La loro sicurezza è legata alla relazione con l’ambiente.

Noi, che siamo indotti a concepire la natura alla stregua di un campo sportivo ove applicare la nostra passione...
Noi, che siamo indotti ad identifi care la nostra autostima con il successo della nostra prestazione...
Noi, che siamo indotti a credere che per avvicinarci a certe attività dobbiamo fare il corso per ... e che siamo indotti a credere che il corso sia una iniziazione e non l’avvio dell’iniziazione ..... siamo indotti ad esaurire il problema della sicurezza acquistando goretex, pala, arva (dall’acronimo francese: “Appareil à Recherche de victimes d’Avalanches”) e sonda, consultando i bollettini, ricchi della tecnica ma spesso dimentichi della cultura della montagna. Diversamente, attraverso il modo della relazione, la sicurezza tenderebbe ad essere realizzata anche attraverso l’osservazione, l’ascolto, la ricerca dell’armonia, i momenti di coniugazione con la natura e il tutto. Meno cosiddetti “turisti” si muoveranno in ambiente aperto come su un campo da tennis.

L’alpinismo non è uno sport, vanta una cultura più ampia... che siamo indotti a dimenticare.

Disponiamo oggi di una cultura, di principi e di logiche fondate sui criteri commerciali, del profitto, su quelli materialistici e su quelli analitico scientifi ci, quindi su quelli tecnologici. É da queste basi che traiamo le nostre verità per ogni circostanza della vita. Una di queste riguarda la sicurezza. Pare che per produrre sicurezza bisogna sapere ed avere. Sapere le tecniche, le regole. Avere equipaggiamento ed attrezzatura.

Se prendiamo un gruppo eterogeneo di persone, professionisti inclusi, e gli chiediamo di parlare di sicurezza, tende a sussistere l’ipotesi che – dalle considerazioni più semplici a quelle più argomentate – la maggioranza esprima idee relative alla dimensione del sapere e dell’avere. Quel gruppo è emblematico di come concepiamo la sicurezza: nel suo solo aspetto tecnico-materiale.

É una cultura – concentrata sull’analisi della realtà – che ha tralasciato di coltivare anche la scienza che deriva dalla sua sintesi e dal suo spirito. Che non ha coltivato l’ascolto, ma non per questo rinuncia a prediligere il giudizio.

Significa che notevoli potenzialità umane sono ora – quando considerate – trattate alla stregua di inopportune o, alla meglio, relegate alla sola sfera della religione. Alla peggio, del mistico, dello psicotico e via scendendo.

Ma spirito e ascolto permettono una condizione inaccessibile in altro modo. Spirito e ascolto sono dimensioni umane, oggi tralasciate dalla cultura laica, bene che vada, coltivate individual- mente da alcuni, nonostante tutti - al momento opportuno - ne sfruttiamo le potenzialità. Così fa il borseggiatore per scegliere la tecnica e il momento del suo misfatto, così fa la zia Pina quando scola la pasta per la millesima volta senza correre il rischio di fi nire al reparto grandi ustionati, così fa il ragazzino che per ottenere piange con qualcuno ma non con qualcunaltro.

Tutti comportamenti originati da un’osservazione, un’armonia e una coniugazione che – e questo è un punto – non potrà essere mai oltre le nostre autentiche motivazioni e disponibilità. Cioè a nostra misura. Né a quella della norma, né a quella del più esperto. Una condizione ideale per scatenare tutto il nostro gradiente di creatività, di responsabilità e di crescita. Tre condizioni utili per ridurre l’imprevisto, per gestirlo al meglio sfruttando tutta l’esperienza, la conoscenza e la tecnica. O per tornare indietro, senza però la frustrazione della rinuncia, tipico punto debole della psicologia arrivistico-consumistico-edoni- stica. Un trittico ove la crescita individuale non è un valore. Il primo posto spetta alla prestazione di suc- cesso. Un perfetto habitat per muoversi oltre la propria misura, dimensione, condizione e motivazione.

É il modo della relazione che, nonostante il semaforo verde, ci induce a guardarci in giro. Rinunciare a metterci in relazione con l’ambiente alza il rischio di imprevisto. Affi darci al verde del semaforo, rinunciare all’osservazione
apre all’eventualità di incontrare qualcuno che – nonostante il suo rosso – in quel momento transita insieme a noi. Il modo della relazione implica l’assunzione di responsabilità individuale. Non ci soddisferà più sapere che la responsabilità non era nostra perché sapremo che delegare il comando, la salute, la sicurezza è comodo ma non ci solleva dalla nostra responsabilità su come andranno le cose.

E soprattutto non potremo più vedere una realtà bidimensionale perché quella circolare ci apparirà assai più convincente, capace di spiegare quanto è vero che la verità sta nel mezzo, nella relazione appunto. Come Messner cita il “killer tecnologia” (Corriere della Sera 28.12.09), così possiamo arrivare a citare la nostra
cultu- ra, i nostri esperti e le nostre istituzioni che, non a caso, cercano nei modi (doppio guardrail), nelle parole (“Non soccorriamo chi provoca incidenti”) e nella logica (regolamentarismo, magari anche punitivo) di annientare il rischio, come se la sicurezza fosse raggiungibile. In quel caso, un ulteriore passo di allon- tanamento dal cuore del problema verrà compiuto.

Il miglior modo per ridurre il rischio è concepirlo come ineludibile. Frequentare la natura in sicurezza è un ossimoro.

Una squadra di soccorso organizzata che incorre in un incidente su terreno operativo percorre il medesi- mo percorso - sebbene per nobili motivi – di coloro che saranno soccorsi. Il momento giusto per un inconveniente è disponibile a tutti, esperti e non (Corriere della Sera 29.12.09, Erri De Luca).

Tutti alziamo le probabilità di incontrarlo in funzione di come ci comportiamo.
Non è dunque il decalogo – buono solo per l’intellettuale e per chi a sua volta sarebbe in grado di crearlo – (l’esperienza non è trasmissibile) ad essere utile.
Utile sarebbe se le scuole di giornalismo e le redazioni dedicassero spazio a docenze di Messner, Gogna, Chouinard e altri, affi nché la montagna da campo sportivo torni ad essere la montagna. Affinché anche l’ultimo redattore non abbia più l’inerzia a scrivere “montagna assassina” o associare lo sport a qualche attività
dell’alpinismo, sennò, perché mai Messner avrebbe intitolato un suo libro
“Sopravvissuto” e non “Vincitore”?

Al momento il libro più venduto è “Il manuale di questo e di quello”, siamo in attesa e in azione per vedere la rimonta di “Polvere profonda”, Dolores La Chapelle.

Lorenzo Merlo

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