Da quando mi sono espresso sfavorevolmente all'installazione di impianti eolici di grossa portata nella Tuscia ho ricevuto appunti e critiche anche da alcuni amici (in particolare Peter Boom, un olandese che mi ha fatto presente come in Olanda stiano risolvendo il problema energetico proprio con l'eolico), essi mi dicono che se non utilizziamo le fonti energetivhe rinnovabili continueremo ad andare avanti con il petrolio, o peggio con il carbone ed il nucleare.
A voce spiego che l'eolico "pesante", con grandi e numerosi piloni concentrati in aree vergini del territorio, è assolutamente non ecologico perché rovina il paesaggio e richiede una serie di strutture di appoggio che fanno degradare le aree prescelte. Sento però la necessità di precisare -a questo punto- quali sono i modi ed iluoghi idonei per l'utilizzo dell'eolico. Tanto per cominciare è necessario smetterla con la produzione elettrica superflua, bisogna decentrare e non fare grossi impianti, inoltre bisogna mettere i piloni eolici nei pressi delle aree industriali dove occorre l'approvvigionamento energetico. E' ridicolo creare dei grandi parchi eolici in zone verdi per poi convogliare l'energia così prodotta, tramite centraline ed elettrodotti, alle fabbriche. Questo è un sistema assurdo che comporta una grande dispersione di elettricità. Per non rovinare le aree di pregio ambientale è meglio istallare i piloni lungo le autostrade, ad esempio, od in altri ambiti già dedicati a strutture di servizio, in cui l'impatto visivo non è fastidioso.
La cosa più importante è comunque spingere per la produzione energetica locale, da fonti rinnovabili, evitando la produzione energetica concentrata. Consideriamo poi l'alternativa della produzione elettrica con impianti di biogas, recuperando così i liquami delle metropoli, le deiezioni degli allevamenti, gli scarti organici, etc.
Se Roma usasse i suoi rifiuti organici per la produzione elettrica questa basterebbe a far funzionare l'intera città. Il problema di dover mantenere le centrali di Civitavecchia e Montalto di Castro scomparirebbe d'incanto.
Attualmente a Torre Valdaliga nord (Civitavecchia) è stata fatta la riconversione di una parte della centrale al cosiddetto “carbone pulito”. Questo secondo alcuni amministratori è un passo necessario per l’abbassamento del tasso d’inquinamento ma i fatti stanno clamorosamente smentendo questa diceria ed oggi c'è una forte protesta sul territorio per via delle ricadute ambientali, sulla salute, sull'agricoltura, etc.
E qui debbo dire che capisco perfettamente i comitati spontanei che si oppongono al carbone, infatti le popolazioni si vedono inquinare (senza vantaggi di ritorno) per scelte non loro. Capirei allo stesso modo le proteste degli abitanti dell’arco alpino che vivono a ridosso delle centrali nucleari Francesi.
"Ma per qualsiasi soluzione energetica -così si lamentano i furbi amministratori- c'è sempre qualcuno che protesta, sia che si tratti di nucleare, carbone, eolico, etc."
In realtà è proprio nel dimensionamento degli impianti che sorgono i problemi, è nella grandezza delle centrali e nella concentrazione produttiva che si crea inquinamento su un territorio. Da qui si arguisce che occorre tornare alla produzione energetica parcellizzata, utilizzando le varie fonti presenti localmente, per soddisfare le esigenze di ogni singolo comune, provincia o regione. Non servono, e sono nocivi, grossi impianti come Civitavecchia e Montalto di Castro, che assieme fanno il polo energetico più grande d'Europa. Ma le "grandi opere" piacciono sia ai politicanti che agli imprenditori (talvolta di malaffare).
Vorrei continuare questo discorso riprendendo l'analisi del percorso della produzione energetica in Italia, che già feci in passato. Noi compriamo energia elettrica dalla Francia ma le loro centrali sono ai confini con l’Italia (che è un paese denuclearizzato). Queste incongruenze della povera Italia hanno una storia lunga dietro…. La storia inizia con il “boom” economico del dopoguerra, con la creazione dell’Eni e con la scomparsa (uccisione?) di Mattei il suo presidente battagliero che si era messo in testa di rendere il nostro paese “autonomo” dal punto di vista energetico. L’autonomia dello Stivale non è mai piaciuta alle Grandi Potenze, l’Italia poteva anche sviluppare una sua economia industriale purché restasse succube e ricattabile. Vedi ad esempio, una cosa che può sembrare banale, la sostituzione della canapa (che per legge fu proibita in seguito al trattato di pace con gli USA) per poter introdurre il nylon e le fibre sintetiche.
Ma andiamo per ordine. Il nostro Paese sino alla fine degli agli anni ‘50 ed in parte ‘60 del secolo scorso ricavava la massima parte di energia elettrica per mezzo di centraline idroelettriche poste lungo i fiumi che scorrono nel mezzo di tutte le città italiane (infatti le città una volta nascevano proprio lungo i fiumi per ovvia ragione approvvigionativa). Ricordo ad esempio che quando abitavo a Verona andavo spesso a passeggiare in periferia e sulla diga che sbarrava l’Adige e da cui si ricavava l’energia per tutta la città.
Sino ad un certo punto questa produzione energetica localizzata funzionò, il problema di ampliarne la quantità venne solo con l’avvento del modello consumista, per produrre utensileria perlopiù di plastica, quali: suppellettili, mobili, giocattoli, stoviglie, etc. Da quel momento l’Italia si piegò al sistema della produzione elettrica concentrandola in grossi impianti che funzionavano (e funzionano) ad olio combustibile. Sappiamo quali erano gli interessi delle case produttrici del petrolio e così andò a finire che diventammo sempre più schiavi di scelte economico-politiche “atlantiche” che non erano per nulla negli interessi nazionali. Poi ci provammo con il nucleare, anche questo non per nostro interesse, ma fu abbandonato in seguito ad un referendum nazionale. Ci abbiamo infine riprovato con il metano ma anche questo (lungi dalla ricerca di fonti nostrane) arriva da paesi che possono chiuderci i rubinetti -Russia ed Algeria- anche perché le condotte italiane sono “terminali” ovvero non “transitano” sul nostro territorio nazionale ma finiscono qui…
Torniamo ora a parlare di come si potrebbe risolvere il problema energetico nella penisola. Dicono che il “carbone” sia meno inquinante del petrolio ma anch’esso viene importato come il metano, il petrolio e come lo sarebbe l’uranio, se si volesse tornare al nucleare. Di cosa è ricca l’Italia? Per antonomasia canora si dice “chisto è ‘o paese do sole..” quindi si potrebbe ricorrere al solare, ma attualmente i pannelli solari anch’essi inquinano, soprattutto nella fase produttiva del silicio necessario al loro funzionamento, occorre perciò sviluppare la sperimentazione e la ricerca sui pannelli solari per allungarne la capacità di raccolta e la durata (che oggi arriva a circa vent’anni).
Ciò non sarebbe però sufficiente -nell'immediato- per soddisfare le esigenze della grande industria del futile. Si potrebbero allora realizzare impianti ad idrogeno, in effetti i motori ad idrogeno esistono da anni (basti pensare ai razzi che vanno a questo propellente) e tra l’altro la scissione dell’acqua in idrogeno ed ossigeno sarebbe facilmente ottenuta con pannelli solari, ma l’idrogeno non piace ai potentati economici che campano sul petrolio. Si potrebbe ricorrere all’eolico diffuso, come sopra spiegato, oppure alla geotermia e persino ai famigerati “termovalorizzatori” ma anche questi inquinano (la cosa da ridere è che inviamo la plastica differenziata delle nostre immondizie in Germania, pagando per lo smaltimento, e poi la Germania con essa ci produce corrente elettrica che rivende all’Italia…. e noi paghiamo 2 volte….).
Resta la soluzione più logica ed economica, oltre al piccolo eolico ed al solare ove possibile, e cioè la riconversione dei rifiuti organici e dei liquami in biogas, un ciclo concluso. Ad esempio in molti paesi dell’Asia nei villaggi si produce elettricità dal gas ottenuto con la cacca degli umani e degli animali. Insomma tutte queste opzioni potrebbero andar bene… l’importante -per ora- sarebbe diversificare al massimo e cercare di rendere la produzione energetica il più possibile “autonoma” e quindi non soggetta a ricatti esterni. Ma per far questo serve una chiara volontà e coraggio politico e soprattutto un reale decentramento produttivo.
In conclusione: riempire la Tuscia di nuovi impianti, che siano essi sostenibili od insostenibili, risulterebbe in un suo uleriore asservimento alle esigenze metropolitane, che prevedono l'impoverimento e la distruzione del territorio per consentire il mantenimento della pigrizia amministrativa e della cecità ecologica. La Tuscia non può continuare ad essere la pattumiera di Roma e luogo d'ubicazione per scomodi servizi.
Paolo D'Arpini
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