L’ultima
frontiera della strategia immigrazionista passa attraverso un banale
giochetto di parole. Avevano iniziato con “accoglienza” e con
“solidarietà”, fidando sulla bontà d’animo degli italiani. E,
fino a un certo punto, sono riusciti a prenderci per i fondelli.
Poi,
quando i ritmi dell’invasione sono diventati terrificanti, il
castello di carte buonista è crollato miseramente, travolgendo i
trafficanti dell’accoglienza e i predicatori dell’inclusione.
Alla fine lo hanno capito anche loro: gli italiani non ne vogliono
più sapere, si sono rotti i cosiddetti, vogliono riappropriarsi dei
loro treni, dei loro giardini pubblici, delle loro periferie lasciate
in mano alla delinquenza d’importazione, delle loro case popolari,
dei loro posti-letto in ospedale, dei loro posti di lavoro sempre più
contesi da una concorrenza spietata, dei loro soldi gettati nella
fornace di una solidarietà pelosa che ci costa fior di miliardi (che
paghiamo con i “sacrifici”).
È
così. Se ne son dovuti fare una ragione anche i chierichetti di el
General
e i maggiordomi dei miliardari filantropi. In attesa che il concetto
riesca a penetrare anche le teste di coccio di certa sinistra
italiana, che galoppa gagliarda verso il suicidio elettorale.
A
questo punto, però, gli strateghi dei poteri forti hanno suggerito
ai loro seguaci italiani una tattica alternativa: non parlare più di
“solidarietà”, di “accoglienza”, di “disperati in fuga
dalle guerre e dalle dittature”, e fingere di voler venire incontro
alla popolazione italiana. Le tappe di questa strategia le abbiamo
viste negli ultimi mesi: stretta sull’anarchia ONG, un ministro
degli Interni travestito da “duro”, espulsione di qualche
jihadista colto con le mani nel tritolo, promessa (solo promessa) di
effettuare i rimpatri degli irregolari, e – soprattutto –
l’immissione nel circuito giornalistico-televisivo di una nuova
parola magica: “integrazione”.
È
una parola che si presta ad un uso duro, austero, quasi di difesa dei
tanto vituperati “muri”. Chi vuole restare in Italia, deve
accettare di “integrarsi”, deve – cioè – accettare le leggi
e gli usi del paese che lo ospita, deve capire che in Italia ci sono
ancora dei cristiani – Bergoglio permettendo – e deve quindi
concederci di festeggiare il Natale di Nostro Signore e la Pasqua di
Resurrezione, deve rinunziare a picchiare la moglie se mette un
rossetto, deve pagare il biglietto sugli autobus, e così via
dicendo. Deve anche cercarsi un lavoro, un alloggio e tutto quanto
connesso ad una civile sistemazione. Tutto ciò – aggiungono i più
duri fra i duri – solo dopo essere stati ammessi fra chi “ha
diritto” di restare in Italia.
Dunque,
cominciamo dalla coda: nessuno
straniero “ha diritto” di restare in Italia.
È il nostro Stato che, avendo sottoscritto delle convenzioni
internazionali, concede
oggi a talune ristrette [?] categorie di migranti (ma non è detto
che continui a farlo domani) la possibilità di soggiornare in Italia
per un periodo più o meno lungo.
Una
sola categoria di stranieri ha pienamente diritto di rimanere in
Italia: quella di coloro che hanno un rapporto di parentela (anche
acquisita) con cittadini italiani. Per il resto, sono tutti ospiti;
anche quei pochi che rispondano ai requisiti di cui alla convenzione
ONU che abbiamo sottoscritto: coloro, cioè, che abbiano abbandonato
il proprio paese «per
fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione,
nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione
politica».
Ma,
attenzione: anche costoro, i pochi veri “rifugiati”, non hanno
“diritto” ad essere accolti; hanno “i requisiti” per essere
accolti. A norma del diritto internazionale, nessuno ha diritto di
entrare in uno Stato di cui non ha la cittadinanza. Esattamente come,
secondo le più elementari norme del diritto civile, nessun soggetto
ha il diritto di entrare a casa d’altri. È il padrone di casa ad
avere il diritto di ammettere o meno qualcuno entro le proprie mura,
di imporre delle condizioni per essere ammesso (per esempio, delle
regole di comportamento) e di stabilire se l’ospite possa fermarsi
per un’ora, un giorno o un anno. Ed è esattamente così anche in
scala maggiore: lo Stato, ogni singolo Stato, ha il diritto
inalienabile di accogliere o di respingere chicchessia.
Accertato
così che nessuno straniero “ha diritto” di venire in Italia,
torniamo alla “integrazione”. Vero capolavoro di tecnica
subliminale: vogliono farci accettare come positivo il punto
maggiormente negativo del fenomeno migratorio. Infatti, l’aspetto
peggiore dell’assalto dei migranti ai nostri confini non è la
“accoglienza”: facciamo bene a “salvarli”, a nutrirli, a
vestirli, anche a regalar loro biciclette e telefonini. Ma, poi, il
nostro interesse primario è quello di rimandarli
indietro nel più breve tempo possibile:
prima che si “integrino”, prima – cioè – che si trovino un
lavoro (togliendolo agli italiani), che si trovino un alloggio
popolare (togliendolo agli italiani), che vadano ad incidere
pesantissimamente sul sistema sanitario, sul sistema previdenziale,
sul sistema carcerario, su tutti i settori della nostra vita
nazionale; settori per cui i migranti, lungi dall’essere “una
risorsa”, sono un peso aggiuntivo che è oggettivamente
insostenibile da parte delle nostre scassatissime finanze.
È
un peso che non ci possiamo accollare. Esattamente come –
ritornando ad un parallelo casereccio – una famiglia in
ristrettezze economiche deve dedicare ogni risorsa per sostenere la
propria prole, e non può decidere di accogliere uno o più figli
adottivi.
Di
primo acchito, ci sembra un fatto positivo vedere un africano
“integrato” che veste l’uniforme di carabiniere, o una asiatica
“integrata” che fa la ballerina in tv. Ma – se ci riflettiamo
un momento – ci rendiamo subito conto che questo significa un
ragazzo italiano che non riuscirà a fare il carabiniere, o una
ragazza italiana che non riuscirà a fare la ballerina di fila.
Il
nostro interesse – e spero che i governanti di domani lo
comprendano – non è quello di integrare, di “includere”. Il
nostro interesse è di rimandarli a casa loro. Qui – come dicono a
Roma – “nun
c’è più trippa pe’ gatti”.
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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Mio commentino:
Ma dove pensavate che portasse questa accoglienza? Arrivano centinaia di migliaia di giovani maschi atti alle armi, perlopiù ex carcerati e guerriglieri. Mai ci fosse una donna in mezzo a loro. Vengono in Italia e stuprano le donne italiane... ma è normale non sono né eunuchi, né frati di clausura. Vengono apposta per conquistarci e le donne sono il loro primo bottino. Il secondo sarà la presa del potere! (P.D'A.)
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