sabato 15 luglio 2017

Il continente nero si fa sempre più giallo...


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Africa. La presenza militare cinese in diversi paesi del continente cambia gli equilibri geopolitici globali.

Se prima la penetrazione del gigante asiatico in Africa si limitava all’aspetto economico (e conseguentemente politico), ora le regole del gioco cambiano: Pechino muove i soldati e si appresta a ufficializzare il suo nuovo ruolo di potenza globale.

Lo spunto per l’importante appunto geopolitico lo offre Gibuti, piccolo Stato del Corno d’Africa, dove la Cina ha iniziato a costruire una base militare permanente.

Gibuti è uno staterello grande come l’Emilia Romagna, con meno di 900.000 abitanti. La posizione strategica sul Corno d’Africa all’imbocco del Mar Rosso ne fa però un Paese chiave dal punto di logistico sia per il controllo dei traffici marittimi tra Asia ed Europa, sia con riguardo alle capacità di proiezione verso l’Oceano Indiano e la Penisola Arabica.

La corsa ad occupare un posto al sole nel Paese è iniziata con l’indipendenza del 1977. All’eredità coloniale dei francesi, presenti oggi con 2000 uomini di Legione Straniera e forze speciali, si sono aggiunti nel 2001 gli americani, che nell’ex struttura legionaria di Camp Lemonnier mantengono una forza di 4000 unità. Oggi Gibuti è l’unica base USA permanente nel continente, sede tra l’altro del Combined Joint Task Force - Horn Africa che sovrintende ad operazioni in tutta l’Africa.

La crescente minaccia jihadista ha ulteriormente incrementato nel tempo l’interesse per Gibuti: nel 2011 sono arrivati i militari giapponesi, per la prima volta in una base fissa lontana da casa dal 1945; nel 2013 arriviamo anche noi, col tricolore che torna in Africa Orientale su una struttura creata appositamente per 300 militari.

Così come altri Paesi (Germania e Spagna sono presenti ma non in pianta stabile) quasi tutte le guarnigioni militari straniere a Gibuti hanno però l’unico obiettivo di supporto alle operazioni di contrasto della pirateria lungo le cose del Corno d’Africa. Gli unici Paesi che nel Paese africano mantengono un interesse strategico indipendente dalla minaccia terroristica, erano infatti fino a ieri solo la Francia e gli USA. L’arrivo dei cinesi cambia le carte in tavola.

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Se i simboli hanno un senso, basta fare un esempio per capire il corso dei tempi. Il 27 giugno scorso, Gibuti ha festeggiato il 40° anniversario dell’indipendenza dalla Francia. Alla consueta parata militare (in cui sfila molto materiale militare italiano radiato, dato in contropartita per l’affitto della nostra base militare, nda), quest’anno oltre al contingente americano e alla Legione Straniera francese ha partecipato anche un reparto della Marina cinese, che ha marciato col suo passo perfetto calibrato a 70 cm e la bandiera rossa in testa. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Diciamo solo che le infrastrutture militari cinesi sono nei pressi di Obock, un porto a più di 200 km dalla capitale di Gibuti. Sull’entità di uomini e mezzo impiegati vige il più stretto riserbo.

Il dado è ormai tratto. La Cina, finora considerata un virus economico e finanziario in espansione globale, ora mostra anche i muscoli senza timidezza. Per il 2017 Pechino spenderà quasi 150 miliardi di dollari per la difesa (dati SIPRI), con un incremento del 7% rispetto all’anno prima (dove si registrava un identico trend di crescita). L’evoluzione dello strumento militare cinese è ormai conclamata.

A partire dalle riforme di Deng Xiaoping, la trasformazione delle forze armate da guardiano dell’ideologia a strumento geopolitico è stata progressiva. Parallelamente ad un costante ammodernamento degli assetti con l’obiettivo di migliorare capacità e competitività operativa, le autorità di Pechino non hanno mai perso il traguardo finale: promuovere la Cina a potenza globale.

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Le dichiarazioni ufficiali ovviamente vanno in direzione opposta, cercando di disinnescare un fenomeno che è ormai noto a tutti. La Cina sostiene che i suoi soldati in Africa abbiano solo il compito di difendere le infrastrutture collegate ad aziende e a personale cinese impegnato sul campo. In realtà in tutto il continente si ha la sensazione che la presenza cinese sia qualcosa di più di una semplice autodifesa e vada di pari passo con le nuove scelte strategiche del governo di Pechino.

Nel 2015 è arrivato in Sud Sudan il primo battaglione di fanteria cinese mai dislocato all’estero per una missione ONU. Circa 1000 soldati hanno lasciato intendere, dietro l’orpello del contributo alle Nazioni Unite, gli enormi interessi economici che Pechino ha nel giovane e martoriato Paese africano.

Se questa è la strada, c’è da aspettarsi altri passi in progressione geometrica. I numeri sulla penetrazione economica del resto fanno paura. La Cina già monopolizza l’estrazione di petrolio in Sudan, Sud Sudan, Angola, Guinea Equatoriale e investe cifre (60 miliardi di dollari stanziati nel 2015) per le infrastrutture, che prevedono la creazione di porti in Tanzania e di intere aeree abitative in Sudafrica, prossima filiale finanziaria e logistica cinese nel continente.

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Cosa aspettarsi? In sintesi il salto di qualità della presenza cinese in Africa va considerato su due livelli:
  • come possibile anello dello scontro globale Cina-Stati Uniti integrabile al crescente attrito nel Mar Cinese Meridionale;
  • come tappa di una maturazione geopolitica lontana da teatri attigui ai propri confini e indipendente da logiche di scontro diretto e di autodifesa. In questo secondo caso, la convergenza verso uno scontro politico globale con gli USA, già largamente prevista dagli analisti per il XXI° secolo, sarebbe comunque solo questione di tempo.

Molte risposte arriveranno dal battesimo di fuoco del nuovo potere militare cinese. Per capire se il drago è fatto di carta o di acciaio, Pechino avrà bisogno di tanta esperienza sul campo. Parallelamente alla maturazione politica, presto dovrà pagare un prezzo umano e politico.

La crescita esponenziale cinese degli ultimi 25 anni è stata finora alimentata senza i limiti del politically correct e della democrazia. Diventare potenza globale, molto presto imporrà costi nuovi.

Giampiero Venturi

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(foto: U.S. Air National Guard)

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