Ho letto l’intervista di Paolo Rodari al cardinale Gerhard Muller su “la Repubblica” del 10 ottobre 2019.
E’ difficile trattenere i sentimenti e i pensieri che ha suscitato in me, ma vorrei provare a controllare e ponderare bene gli uni e gli altri, senza farmi trascinare dall’impulsività, cercando di esercitare, invece, per quanto ne sono capace, le virtù della prudenza, del discernimento e della pacatezza.
Forse per questo solo oggi sono riuscito a completare questa mia riflessione, iniziata già una settimana fa, e a pubblicarla.
Premetto che non sono cattolico, anzi nemmeno uomo di religione. Che cosa mi spinge allora a provare interesse per le parole del cardinale, prefetto emerito dell’ex Sant’Uffizio?
La risposta è: l’interesse per tutto ciò che ha a che fare con la vita spirituale (che non necessariamente è una vita religiosa) e, di conseguenza, anche per tutto ciò che contrasta con essa, che si oppone alla vita spirituale.
Ecco, allora, il primo commento che mi viene da fare, dopo aver letto l’intervista a Muller: quest’uomo ha ben poco di spirituale; è senz’altro un uomo di religione, ma non è (almeno a mio avviso) un uomo di spirito.
E’ un sacerdote, come lo erano, del resto, i sacerdoti del tempio, rigidi difensori della dottrina e dell’ortodossia, ai tempi di Gesù. Ma non è un uomo in grado di cogliere il messaggio di Gesù e di innamorarsene.
E’ un tutore della Legge, non un seguace dello Spirito.
Proverò ad esplicitare questa mia impressione (che però è qualcosa di più di un’impressione) riportando alcuni degli argomenti sostenuti dal cardinale e cercando di smontarli per dimostrarne l’inconsistenza (ritengo anche teologica, oltre che pastorale).
1.Il cardinale “s’interroga sulla possibilità di aprire il sacerdozio ai “viri probati”, uomini anziani di provata fede” ed afferma: “Penso sia sbagliato… Ci sono già dei diaconi sposati. Se li introduciamo, devono rispettare la consuetudine della Chiesa antica: devono vivere in castità.”
In pratica il cardinale vincola la possibilità di nominare sacerdoti alcuni uomini sposati alla loro dichiarata disponibilità a vivere il voto di castità.
Al che l’intervistatore (giustamente) chiede: “Ma se sono sposati, come fanno?”.
E il cardinale così risponde: “Anche nella Chiesa ortodossa, che pure ha aperto in questo senso, i sacerdoti sposati devono vivere in castità nei giorni che precedono la celebrazione della messa. Non conosce il Sinodo Trullano del 692? Lì, sotto la pressione dell’imperatore, venne sciolta la legge del celibato, ma solo la Chiesa ortodossa vi aderì. Non quella latina. Per questo chi vuole inserire la pratica dei preti sposati nella Chiesa latina non conosce la sua storia.”.
L’intervistatore allora incalza: “Eppure il celibato è soltanto una legge ecclesiastica”.
E il cardinale: “ Non è una qualsiasi legge che può essere cambiata a piacimento. Ma ha profonde radici nel sacramento dell’ordine. Il prete è rappresentante di Cristo sposo e ha una spiritualità vissuta che non può essere cambiata.”
Qui le osservazioni da fare sono almeno tre:
- Il cardinale vincola il sacerdozio alla pratica della castità. Come a dire: la pratica della sessualità costituisce uno stato di imperfezione, che non può dare accesso allo stato sacerdotale, che è lo stato di Cristo stesso, simbolo dell’uomo perfetto. Si afferma qui la solita e storica sessuofobia strisciante, latente, più o meno esplicita, della dottrina cattolica. Che andrebbe francamente aggiornata alla luce non solo della evoluzione dei costumi, ma anche di una considerazione più corretta (sul piano scientifico e su quello stesso teologico) della sessualità.
- Il cardinale riconosce (anche se deve essere incalzato per farlo) che il celibato dei preti non è materia dogmatica, ma questione di diritto ecclesiastico. E però afferma che trattasi di una legge eterna, immodificabile. Quando il diritto (come la storia stessa della Chiesa in fondo conferma) è per sua natura soggetto alle evoluzioni e ai cambiamenti della storia, quindi materia plasmabile e niente affatto immodificabile. Con queste sue affermazioni il cardinale si iscrive quindi chiaramente al partito dei conservatori nella Chiesa, a fronte degli innovatori, che pure tenendo conto della tradizione, non ne vogliono fare un feticcio (come non lo è mai stata in fondo nella storia della Chiesa) e sono disposti a prendere in considerazione dei cambiamenti rispetto al passato.
- Infine, il cardinale ammette per un sacramento ciò che non riconosce ad un altro sacramento. Non si capisce bene in base a quale logica. Infatti, afferma che gli uomini sposati, se vogliono accedere al sacerdozio, devono rinunciare all’esercizio della sessualità, che pure è uno dei cardini dello stato matrimoniale (e dunque anche degli impegni che si assumono col sacramento del matrimonio). In questo caso dunque ammette il cambiamento. Mentre per lui il sacramento del sacerdozio non ammette eccezioni: o vi si pratica la castità o non è sacramento.
2. Un’altra posizione singolare il cardinale Muller la assume quando l’intervistatore gli chiede: “E’ vero che parte del mondo conservatore è pronto allo scisma se il Sinodo cambia questioni fondamentali della dottrina?”.
Perché non risponde, come avrebbe potuto, se avesse voluto escludere effettivamente l’ipotesi di uno scisma: “no, non è alle viste nessuno scisma; noi siamo fedeli al magistero di Pietro e del collegio episcopale”, visto che lui crede così fermamente nel primato e nel magistero di Pietro, come fondamento della dottrina cattolica.
Ma risponde, capovolgendo il senso stesso della domanda dell’intervistatore, così: “Il magistero agirà nel solco della tradizione apostolica della Chiesa, del resto nessuno può fare altrimenti. Nessun Papa, né la maggioranza dei vescovi, possono cambiare dogmi della fede o leggi del diritto divino secondo i propri piaceri”.
Come a dire: “Io so bene quali sono i dogmi delle fede e le leggi del diritto divino. In qualche modo ne sono l’autentico depositario. Dunque, se la maggioranza dei vescovi o lo stesso Papa si azzarderanno a modificarli, saranno essi a mettersi fuori dalla Chiesa, ad aver operato uno scisma, non quelli che vogliono restare fedeli a quei dogmi e a quel diritto”.
Con ciò negando di fatto l’ex cathedra papale (che per lui dovrebbe essere un dogma) e autoproclamandosi depositario della vera cathedra al posto del Papa, quando questi fosse (a suo dire evidentemente insindacabile) infedele alla tradizione dei dogmi e del diritto divino.
3. Sull’ipotesi dell’ordinazione sacerdotale delle donne è fermo, anzi drastico: “Non se ne può neppure parlare perché dogmaticamente è impossibile arrivare a tanto”.
Con ciò affermando una evidente sciocchezza, perché la materia (a quanto ne so) non rientra nell’ambito dei dogma, ma del diritto della Chiesa.
E’ vero che per lui il diritto della Chiesa è “divino” e per questo immodificabile. Ma in ogni caso non di dogma si tratta, bensì di materia giuridica.
E, se è così, ci sarebbe da fargli notare: quante volte il diritto canonico della Chiesa è cambiato nel corso dei secoli? Su quale dato di fatto (storico, oltre che teologico) si regge quindi la sua tesi della presunta immodificabilità del diritto della Chiesa?
4. L’ultima domanda dell’intervistatore e l’ultima risposta del cardinale dicono molto sulla faglia che si è aperta all’interno della Chiesa. E non da oggi; io penso che essa si sia aperta già ben prima del Concilio Vaticano II e che in fondo lo abbia preparato.
L’intervistatore chiede: “Si sono levate proteste all’interno dell’Istituto Giovanni Paolo II contro il suo rinnovamento. Alcuni docenti hanno perso la cattedra e hanno detto che si sta tradendo l’intero magistero di Wojtyla. E così?”.
Il cardinale così risponde: “E’ un grande sbaglio distruggere quest’istituto, un attentato contro la qualità intellettuale della teologia cattolica. Nel mondo accademico sono tutti senza parole: impensabile licenziare dei docenti per il loro pensiero veramente ortodosso. Fra l’altro non è un pensiero che tradisce la dottrina, quindi non si capisce perché mandarli via.”
Anche qui colpisce la sicumera, anzi direi la presunzione, con cui il cardinale si fa autenticatore del termine “ortodosso”. Quasi che lui ne fosse l’unico e vero depositario.
La seconda cosa che colpisce è che nella Chiesa si sta affermando una corrente di pensiero che finalmente è in grado di evidenziare i “guasti” che ha operato (ad esempio rispetto alle innovazioni del Concilio Vaticano II) il pensiero e soprattutto l’azione di papa Wojtyla. E, si spera, porvi rimedio.
E’ giunta l’ora, dunque, che, rispetto alla faglia che si è aperta tra il pontificato di papa Francesco e quello dei due precedenti (di Benedetto XVI e, soprattutto, di Giovanni Paolo II) i cattolici prendano posizione, per dire chiaramente, anche pubblicamente, da che parte stanno.
Allo stesso modo di come lo ha fatto con indubbia chiarezza (almeno questo gli va riconosciuto) il cardinale Muller nel corso di questa intervista.
Giovanni Lamagna