Nella
Francia del Seicento, al tempo dei Tre Moschettieri, l’istruzione
dei figli del Re era affidata a precettori d’alto lignaggio, che
per la bisogna si servivano di libri stampati ad
hoc,
con testi da cui era stata accuratamente tolta ogni parte che
contenesse riferimenti a fatti scabrosi che avrebbero potuto turbare
l’augusto allievo. Una cura particolare era dedicata al
primogenito, destinato alla successione al trono, il Delfino. Lui
studiava su libri pensati solo per lui, stampati in copia unica, che
recavano l’indicazione “ad
usum Delphini”,
cioè per l’uso personale del Delfino.
Nel
tempo, la locuzione è entrata nel linguaggio comune, a indicare un
testo utile ad una sola persona – e poi ad una categoria o ad una
parte politica – ma comunque censurato, privato accuratamente di
ogni riferimento giudicato inopportuno; fino al punto (ma al tempo di
D’Artagnan non era così) di stravolgerne il significato.
Prendiamo
– per esempio – il recente rapporto dell’ISTAT sulla
occupazione nel mese di luglio. Nella sua versione originale è una
cosa seria, attendibile, ben fatta, come è nella tradizione del
nostro istituto di statistica. Poi, però, c’è la versione “ad
usum Delphini”: non falsificata, ma censurata, emendata, purgata da
ogni elemento che possa turbare la sensibilità del pargolo. Pargolo
che – nella fattispecie – è il popolo italiano, cui devono
essere taciuti particolari giudicati poco edificanti.
Non
so chi si sia incaricato dell’intervento censorio. So solamente che
la versione ammannita attraverso i media è stata la seguente: balzo
in avanti dell’occupazione, tornata ai livelli pre-2008, quando
scoppiò l’ultima crisi (non “la crisi”) che diede un altro
colpo all’occupazione. Nel dettaglio, questi erano i numeri: a
luglio gli occupati sono stati 59.000 in più rispetto a giugno, pari
a un incremento percentuale dello 0,3%; nel frattempo, però, è
aumentato anche il tasso di disoccupazione, salito all’11,3%, con
un incremento dello 0,2%.
Naturalmente,
i commentatori del minculpop si sono arrampicati sugli specchi per
spiegare come, se l’occupazione cresce, cresce anche la
disoccupazione. Ma questa è poca cosa, a fronte dei proclami
roboanti del governo – Gentiloni e Padoan in testa – grondanti
orgoglio e autocompiacimento per gli “straordinari risultati”
ottenuti. Su tutti, comunque, ha svettato il solito furbastro
toscano, il quale ha rivendicato a merito del Job’s
Act
il grande balzo in avanti (Mao Tse-tung si starà rivoltando nella
tomba), annunziando all’incredula platea dei disoccupati italiani
che «abbiamo
creato un milione di posti di lavoro».
Quasi a voler dare uno scappellotto al povero Gentiloni; un
avvertirlo che ogni fatto positivo – ammesso che ci sia – deve
essere accreditato all’eredità del grande timoniere (chiedo ancora
perdono alla memoria di Mao Tse-tung) e non ascritto all’attivo del
suo successore.
Naturalmente,
a voler prendere per buone le valutazioni entusiaste degli allegri
compari, ci sarebbero da osservare tante cose. Per esempio che, in un
momento di crescita di tutta l’eurozona, il nostro zero-virgola
rappresenta comunque il fanalino di coda. O, per fare un altro
esempio, che anche i pochi nuovi posti di lavoro considerati stabili
non lo sono affatto; perché le “tutele crescenti” del Job’s
Act
hanno di fatto cancellato l’occupazione a tempo indeterminato. O,
ancora, che per “posti di lavoro” si intendono anche le
assunzioni a tre mesi in un call-center a 400 euro al mese. O,
infine, che per “occupati in Italia” si intendono anche gli
stranieri che sono venuti a prendere posti di lavoro qui da noi (e a
sottrarli agli italiani).
Ma
tutto ciò rientra nella polemica politica. Sul piano tecnico,
invece, a sbugiardare i testi “ad usum Delphini” ci pensa ancora
una volta l’ufficio studi della Confartigianato (quello che la
stampa chiama “la CGIA di Mestre”). Ebbene, la CGIA ha reso noti
i dettagli che gli addetti all’informazione del popolo italiano
avevano ritenuto di censurare. Apprendiamo, così, che – a fronte
di un ritorno al numero dei posti di lavoro del 2008 – è diminuito
di molto il numero delle ore lavorate: meno un miliardo e cento
milioni di ore, pari al 5%. La qualcosa comporta che – rispetto
all’anno di riferimento – gli occupati hanno lavorato meno, che
hanno guadagnato meno, e che le aziende hanno prodotto meno.
Inoltre,
anche a voler prendere come riferimento il 2008 (anno in cui la
nostra socialità era stata massacrata già da lungo tempo) c’è da
tener presente – osserva la CGIA – che tutti gli indicatori
economici sono in forte diminuzione: il PIL del 6%, i consumi del 3%,
il reddito delle famiglie del 7%, e gli investimenti di ben il 24,5%.
Altro
che le barzellette del Vispo Tereso!
Michele Rallo - ralmiche@gmail.com
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